Mario Dondero è stato grazie al suo sguardo antropologico, al suo atteggiamento libertario e alla sua naturale seduttività, uno dei principali interpreti di quel Novecento che fu prima di ogni forma di blocco – politico e mentale – puro movimento. Movimento dei cuori e delle passioni, movimento politico fatto di attraversamenti, contraddizioni e spesso di liberazioni.
Un movimento mai impalcato, ma sempre agile e capace di scivolare tra le pieghe di ideologie troppo strette e pesanti, ma comunque in grado di riconoscere l’umanità in ogni sua piega, in ogni sua forma e misura. Il movimento interpretato e sostenuto da Mario Dondero attraversava l’evento politico e generazionale fino a raggiungere l’intimismo acuto dell’infanzia come della povertà, della solitudine come dell’amore colto magari per caso in mezzo ad una strada.
Osservatore acuto e seduttore per natura, Mario Dondero è stato un fotoreporter e la sua stessa nemesi; mai all’inseguimento del fatto come dell’evento, ma sempre alla ricerca di uno stimolo, di una vitalità improvvisa. Al lavoro di fotoreporter Dondero ha dunque dato corpo e anima donandogli (e donandosi) un ruolo prima che questi fosse cancellato da un’egomania nevrotica divisa tra la spettacolarizzazione dei fatti e la presunta forma artistica.
Dondero non amava i cataloghi e non amava gli archivi dentro vi vedeva infatti uno sguardo perennemente volto al passato e alla sua monumentalizzazione, per lui la fotografia era principalmente un gesto di conoscenza più ancora che un mero strumento, al pari di una stretta di mano, di un bacio e di uno sguardo incrociato.
Ed è grazie anche a questa sensibilità leggera che Mario Dondero ha potuto veleggiare attraversando il Novecento e oltre, sconfinando tra più mondi e ambiti sociali, facendosi conoscere da tutti e spesso anche non riconoscere da qualcuno altro, magari troppo stretto a misurarsi il proprio abito.
La fotografia di Mario Dondero, parrà ad alcuni una banalità, era una fotografia umana che nasceva dal gesto dell’incontro, dallo scambio paritario in cui veniva ad annullarsi il ruolo di chi faceva cosa: di chi scattava e di chi guardava in camera. Un gesto dunque umanistico che in un tempo in cui la tecnica pretende di desumere l’umano comprendendolo e a tratti sostituendolo, rivive in tutta la sua forza in qualunque delle sue fotografie, qualunque siano i soggetti: artisti, attori o gente comune. In ogni caso persone amate, desiderate e cercate curiosando tra le loro vite, domandando e provando a capire nel tempo di un caffè o di una serata un po’ del loro stare al mondo.
Partigiano in Val d’Ossola, giornalista e poi fotoreporter, ispiratore di Ugo Mulas e curioso di professione, Mario Dondero è stato idealmente allievo di Robert Capa come di quel milieu culturale che nel 1968 fece esplodere Parigi di gioia e di barricate. Un’energia mai trattenuta e una gioia che si rifletteva in ogni suo momento, fino all’ultimo quando ormai la malattia iniziava ad avere la meglio.
Con la mostra che si apre in questi giorni alla Galleria Ceribelli (Mario Dondero. Un uomo, un racconto – a Bergamo dal 11 marzo al 13 maggio) è possibile mettere un punto fermo in quel infinito movimento donderiano, e vedere con la quiete del tempo dopo cosa è stato fatto, da dove vengono i nostri sogni e pure le nostre illusioni.
Una mostra antologica raffinata nella selezione degli scatti come nella cura, bellissimo e ben curato il catalogo con i testi di Walter Guadagnini e Tatiana Agliani. Una mostra che non celebra, ma anzi dimostra la qualità rara di un mestiere umano come quello del fotoreporter capace di rievocare oltre che i fatti anche l’anima necessaria ad un movimento che in quanto tale mai può essere superato perché nulla può avere al suo interno la forma del passato. Le fotografie di Dondero dialogano dunque direttamente con l’oggi, con il tempo che si fa restituendo uno sguardo comune e utile ad una direzione condivisa e certamente politica nel suo senso più alto.
Alle fotografie più famose si alternano scatti inediti che piano piano vengono a galla dal lavoro attento avviato negli ultimi mesi grazie alla fondazione dell’archivio dedicato a Dondero. Una mostra che mette un primo punto fermo attorno ad una ricerca, ad un’indagine che nei prossimi anni restituirà al meglio e in un certo senso in maniera meno sfuocata il ruolo e l’essenza di uno dei più grandi fotoreporter del Novecento.
Nell’affettuosa introduzione la figlia Maddalena Fossati ricorda quanto il movimento è stato anche nella sua parte oscura una forma di assenza, una fuga continua per certi versi da quell’inesorabile destino che impedisce a chiunque di permanere adeguatamente con la giuste e necessaria cura, pur volendolo. L’assenza è di per sé una mancanza, ma è anche una forma di destino perenne e chi viene dopo è chiamato a prendersene cura (e carico) restituendo attraverso i gesti che furono un significato contemporaneo ricco e sfaccettato, utile e vibrante di quell’umano desiderio capace di tutta quella vita, come un ragazzo che afferra la luna.
Marco Cubeddu (Genova, 1987), ha pubblicato i romanzi «Con una bomba a mano sul cuore» (Mondadori, 2013) e «Pornokiller» (Mondadori, 2015). Scrive su diverse testate, tra cui «La Lettura» del «Corriere della Sera», «Link - idee per la tv», «Il Secolo XIX», «Panorama», «Il Giornale» e «Linkiesta». È caporedattore della rivista letteraria «Nuovi Argomenti». Vive tra Roma e Milano. «L'ultimo anno della mia giovinezza», reality letterario sulla vita di Costantino della Gherardesca, esce per Mondadori il 30 gennaio 2018.