Il secondo coccodrillo di questa rubrica è firmato da Romana Petri. È dedicato a un professore di latino, non sappiamo quanto reale o inventato, anche se il confine tra vita e simulazione decade di fronte all’autenticità dei sentimenti messi in gioco. La malinconia per la scomparsa di un uomo è in fondo malinconia per un passato perduto, o forse per un destino perduto. In questo raccontare il vuoto, Petri ha colto in pieno il senso e le possibilità di un genere letterario anomalo che qui cerchiamo di esplorare e reinventare: il necrologio. Come sempre mi sembra superfluo aggiungere che ogni morte immaginata in questo spazio è frutto di pura fantasia.
Coccodrillo n. 2: Le briciole sul davanzale
Se era al primo anno di insegnamento non lo saprei dire. Certo è che era giovane parecchio. E non fosse stato per l’altezza (non superava il metro e settanta) anche assai bello. Era per via del volto dai lineamenti regolari, dei capelli biondi e lisci, degli occhi azzurri e del piccolo naso da attore americano. Si chiamava Cerani. Da quale parte d’Italia venisse lo ignoro, anche perché aveva una dizione senza ombra di accento.
La settimana scorsa, mentre stavo preparando la cena, mi telefona un’amica di vecchia data. Una compagna del liceo. Mi dice: «Ma l’hai saputo che il Prof. Cerani è morto?». E io no, non lo sapevo, ma d’istinto ho messo giù il telefono e sono corsa in bagno e sono scoppiata in lacrime. Un pianto che non riuscivo a frenare. Ho smesso solo quando mi sono chiesta: «Sono più di trent’anni che non lo vedi e non ne sai nulla. Ma che ti piangi?».
E allora l’ho rivisto il giovane professore di latino che entrava in classe dopo l’ora di filosofia, che si intratteneva sulla porta dell’aula a parlare con la professoressa solo perché era molto bella e succinta, pure leggermente cotonata. Avrebbe voluto guardarle con più attenzione il volume dei seni, ma glielo impediva l’educazione, o forse l’estrema timidezza, o il suo straziante sentimentalismo, quello che trattiene. E così, il suo sguardo era circolare, girava in tondo, cercava di «tutto comprendere», come spesso diceva mentre spiegava. E dunque anche quei seni polposi, ma di passaggio, di volata.
Credo avesse solo quattro abiti. Noi alunni, per lo meno, non gliene abbiamo mai visti altri: due per il freddo e due per il caldo. E li alternava. Un giorno uno e un giorno l’altro per la durata di ogni stagione.
Il corpo non era granché. In quegli anni, poi, un bel corpo maschile era cosa piuttosto rara. Magrolino, di spalle un po’ strette. Il primo giorno che lo vidi, giovane com’era, lo immaginai nel corso del suo invecchiamento. Possibile mai vedere una persona per la prima volta, vederla nel pieno della sua giovinezza, e subito immaginarla a mano a mano che invecchia? Nel corso della prima ora di lezione, lo feci arrivare a ottant’anni. Molto tempo dopo, ma tanto, tanto davvero, ho letto in un romanzo di un uomo al quale accadde di fare lo stesso con la futura moglie. L’aveva conosciuta in treno, non sapeva nulla di ciò che sarebbe accaduto tra di loro, solo la guardava, e guardandola aveva fatto questo pensiero e, contemporaneamente, che non poteva esserci altra spiegazione se non che di quella ragazza s’era innamorato a prima vista, e perdutamente. Leggendo quelle righe, ricordo che mi domandai se per caso mi fossi innamorata del Prof. Cerani la prima volta che entrò in classe. Ma non credo. Non avrei mai potuto innamorarmi di un uomo dalle mani così tanto femminili, di un uomo così piccolino, fisicamente tanto indifeso. Non me ne innamorai per nulla, ma nei suoi confronti provai comunque un forte sentimento al quale non sono mai riuscita a dare un nome. Di sentimenti, poi, non è che ce ne siano molti. O è l’una o è l’altra cosa.
Aveva di speciale il fatto che durante le sue lezioni di letteratura, all’improvviso tirasse fuori dalla tasca interna della giacca, un pacchetto di cracker. Era la sua merenda per la ricreazione. Erano di quelli che si compravano in confezioni grandi, di poco costo, e dentro dovevano essercene almeno una ventina di quei pacchetti incellofanati. A metà lezione lo apriva e ne tirava fuori solo metà di uno che spezzava di netto in quella seghettatura bucherellata. Poi, con la mano sinistra apriva la finestra, e sul davanzale sbriciolava con meticolosità quel mezzo cracker che si sottraeva. E allora, le sue parole cambiavano di ritmo. Dipendeva tutto da quanto tempo ci mettevano ad arrivare i passerotti. Lui se ne stava lì, accanto alla finestra, di lato per non farsi vedere da loro, con entrambe le mani dietro la schiena, in un atteggiamento non proprio giovanile. E quando i volatiti arrivavano, lui di quel che stava spiegando non capiva più nulla. Tra una parola e l’altra passava un tempo siderale. Anche noi alunni da quel tempo delle stelle venivamo tramortiti. Ce ne stavamo lì in sospeso, non lo so se a guardare più gli uccelletti o lui che si estasiava. Ogni tanto, verso di noi si voltava mostrandoci l’incredibile allegrezza che riempiva l’azzurro dei suoi occhi d’un tratto francescani. Di fronte a quelle scene sempre uguali, lui rapiva se stesso al mondo. Non so se la classe intera se ne accorgesse. Di certo c’era qualcuno che di quella storia rideva, o semplicemente ne traeva il profitto del non far nulla che pure all’epoca, un po’ per tutti, un certo incanto ce l’aveva.
Finito il pasto, i passeri volavano via, insieme a loro la trepidazione del professore che si intristiva, tornava al suo lavoro, riprendeva a spiegare tornando a mettersi seduto alla cattedra davanti all’antologia.
Seduta sul bordo della vasca, la porta del bagno chiusa, sento che la cena si sta bruciando. Sarà solo la cena? Allora, le lacrime asciugate, torno in cucina, butto nella spazzatura quel che s’è carbonizzato, accendo la radio e ricomincio daccapo. Lavo le verdure, le taglio, soffriggo la cipolla, ci aggiungo un bicchiere di vino bianco, il sale. E quel che mi piangevo, ora lo so, non era la sua morte, ma l’estasi sua mentre guardava i passerotti zampettare intorno alle briciole sul davanzale e che subito diventava mia. E se vedendolo la prima volta l’ho immaginato con i segni che il tempo gli avrebbe lasciato addosso, è perché un giorno, proprio i suoi sarebbero stati i miei.
C’era da piangere perché la sua morte s’era portata via un bel po’ della mia trascorsa giovinezza. Quell’età tanto felice, sebbene quasi mai nessuno se ne accorga in tempo. Piangevo perché io, invece, all’epoca lo sapevo che il dolore era tutto da venire, ne ero proprio consapevole. E tanto. Lo ero totalmente.
Romana Petri è nata a Roma. Ha ottenuto numerosi premi come il Premio Mondello, il Rapallo Carige, il Grinzane Cavour e il Bottari Lattes. È stata due volte finalista al Premio Strega. Traduttrice, editrice e critico letterario collabora con «ttl», «La Stampa», «il Venerdì di Repubblica», «Corriere della Sera» e «Il Messaggero». È tradotta in Inghilterra, Francia, Stati Uniti, Spagna, Serbia, Olanda, Germania e Portogallo. Tra le sue opere: Ovunque io sia (BEAT, 2012), Alle Case Venie (BEAT, 2017), Le Serenate del Ciclone (Neri Pozza, 2015) e Il mio cane del Klondike (Neri Pozza, 2017).