La proposta di scrivere il Diario, mi giunge mentre sto lavorando alla recensione del libro di Jonathan White e Lea Ypi, The Meaning of Partisanship (Oxford University Press, 2016) per la rivista accademica americana «Political Theory». Felice coincidenza perché, pur non avendo più tenuto un diario dall’età dell’adolescenza, mi riscopro da qualche tempo a questa parte desiderosa di annotare i miei pensieri su una questione che mi attrae e mi disturba al tempo stesso, appunto quella della fedeltà partigiana. Per anni ho provato un rifiuto radicale per il diario e tutto quel che poteva avere una qualche somiglianza con una narrativa sottotraccia delle mie riflessioni. Quando non associato a una funzione terapeutica, il diario mi è sempre sembrato un poco narcisistico e comunque un intervento artificioso sull’ordine da dare a pensieri e accadimenti. Quaderni di appunti ne ho prodotti tanti, ma solo come strumenti di lavoro. Circa il diario, questo l’ho consumato negli istanti dell’esperienza di vita, lasciando che fossero le scelte a voltare pagina e la memoria a imprimere ordine, selezionando e scartando a suo piacimento. Qualcosa è successo nel corso di questa estate 2016, da giugno in qua, che mi ha predisposto ad accettare la proposta di scrivere un diario, qualcosa che la recensione del libro sulla partigianeria mi ha nel frattempo consentito di mettere a fuoco. Comincio quindi dal «problema» per andare poi agli avvenimenti esemplificativi che compongono il mio diario di questi mesi estivi. Comincio dalla coda.
30 agosto
La recensione è pressoché conclusa. E qui comincia il mio Diario. La recensione si apre spiegando come gli autori di questo buon libro (non eccezionalmente buono) analizzano le ragioni dello «stare da una parte», dell’essere partigiani. White e Ypi mostrano come grazie alla nostra capacità di vedere le cose di sbieco riusciamo a selezionare problemi, a produrre giudizi e poi a infondere energia al senso di responsabilità verso i nostri amici e la più grande comunità politica alla quale apparteniamo. Sostengono che la partigianeria sia una forma di amicizia in senso classico perché non vuole identici ma simili in qualcosa di importante che consenta la cooperazione tra diversi, grazie alla quale è possibile tenere in moto un universo di senso e la vita collettiva – fedeltà ai principi e capacità cognitiva allenata a comprendere le trasformazioni sociali per rendere quei principi non dogmi ossificati e la fedeltà a essi non superstizioso fideismo. Fedeltà ai vecchi e rinnovamento per eternare i loro progetti sono le due più originali componenti dell’etica partigiana, traducibili come temporalità, una narrativa che lega generazioni e per questo riesce a essere energia che muove il presente, che fa compiere scelte, affinare conoscenze, accettare di fare (o non fare) compromessi, mutare scelte. Essere vicini a chi sta sulla stessa lunghezza d’onda è, inoltre, condizione di esistenza degli avversari, i quali sono essenziali non meno degli amici. La «parte» non potrebbe sopravvivere se diventasse il «tutto». Per questo la partigianeria è la trama delle comunità politiche libere e plurali.
La condivisione («per» e «contro») di idee e progetti non è che condivisione di strategie di interpretazione degli eventi, frutto di un’applicazione appassionata, non neutrale o indifferente, di alcuni principi etico-politici a questo o quell’evento di cui si discute o sul quale occorre prendere decisioni. È il presente che detta il ritmo dell’azione ma è il legame con il passato che la orienta, che suggerisce il punto di vista dal quale giudicare ciò che è giusto e sbagliato fare. In questo processo di giudizio, che collega senza sosta assunti generali a casi particolari, si consuma l’intera attività riflessiva e pratica del cittadino. Non c’è modo di fermare questo processo – farlo, equivarrebbe a sospendere la libertà politica. E non c’è modo di trascenderlo nel tentativo di collocarsi da un punto di vista neutro e distaccato dal quale giudicare il mondo – farlo, equivarrebbe a farsi eremiti o solipsisti (come si apprende dalla Repubblica di Platone, sia il tiranno che il simil-dio autosufficiente sono una violazione della natura umana). Se questa è la forma del vivere nella città e del giudicare politicamente, allora non si dà un punto di riferimento esterno alle nostre decisioni pubbliche: non un luogo collocato «in nessun luogo» a partire dal quale poter valutare con oggettiva certezza quel che facciamo nel concreto mondo del vivere civile. Per gli autori del libro, questo radicale immanentismo non è una prigione né la sorgente di relativismo e di scetticismo; è, come direbbe Hannah Arendt, la condizione umana politica – una condizione che, in effetti, si replica in tutte le sfere della nostra vita, quella famigliare e domestica come quella sentimentale e dell’amicizia. La dimensione partigiana – guardare e apprezzare il mondo da una prospettiva – è una dimensione antropologica, congenita agli umani.
Non vi è nulla di straordinariamente nuovo in questa lettura. Il libro dieci dell’Etica Nicomachea delucida proprio questa condizione quando tratteggia un’ideale di vita felice che sta oltre la politica, al di là della dimensione relazionale e nel desiderio di pervenire a una completa autonomia, un’autosufficienza che renderebbe assolutamente felici perché liberi. Per Aristotele si trattava di un’aspirazione legittima e, in effetti, di una guida programmatica all’azione – vivere nel mondo per poter realizzare le condizione per liberarsi dei suoi limiti. Ecco, questa potrebbe essere la mia risposta alla tesi degli autori del libro: è vero che non possiamo non essere partigiani; tuttavia la partigianeria (e qui sta la differenza con la faziosità) è così fatta da essere alimentata da una tensione verso una condizione che sta oltre se stessa e che, se attuata in pieno, renderebbe la partigianeria stessa obsoleta. Evidentemente ciò non potrà mai accadere. E la persistenza di questa infelicità connaturata al giudizio partigiano è la condizione della libertà nostra e di quella della società. Infelici al massimo grado sarebbero in effetti quei popoli che vengono sottomessi al dominio di una parte che è contenta di se stessa, convinta di non mancare di nulla, di essere autosufficiente come il tutto, come la verità. La tensione tra ragione partigiana e suo superamento diventa così la condizione ideale della partigianeria, non un’imperfezione da colmare.
Agli autori del libro che sto recensendo questa visione normativamente strumentale dell’essere di parte non soddisfa. Sono troppo vicini alla concezione leninista della politica – una concezione che anche di questi tempi dimostra di avere molti proseliti anche tra coloro che hanno gettato ai rovi le bandiere rosse del sol dell’avvenire. Leggere il libro di White e Ypi mi è servito a recuperare il valore di una condizione esistenziale della politica, anzi dell’agire nella politica, che potrei rendere così: il giudizio partigiano del quale non riusciamo a fare a meno e che sconfessa, vivaddio, ogni ambizione scientistica, quantitativistica e positivistica della politica (oggi in grande voga per la genuflessione largamente praticata al verbo e alla logica dell’agire economico) vive insieme all’insoddisfazione che nasce dal non poter non essere partigiani. Nella foga della battaglia politica ce ne dimentichiamo e operiamo e pensiamo come se la nostra posizione fosse la migliore, quella vera. Forse non possiamo fare diversamente se non vogliamo rischiare di essere combattenti deboli.
Sosteneva Albert Otto Hirschman di aver appreso dai liberalsocialisti italiani durante la lotta al nazifascismo che, non il credo ideologico ma il dubbio è la guida che sostiene l’impegno civile e perfino il sacrificio di sé. Nonostante la sua eleganza, questa massima non mi hai mai convinto; l’ho sempre trovata un po’ astratta e cervellotica. Perfino un liberale del calibro di John Stuart Mill, avverso proverbialmente alle forme religiose o «superstiziose» della politica, era persuaso che nella politica praticata si dovesse sperimentare la forza della contrapposizione con l’avversario per potere dare il meglio di sé. Discutere in differita aveva poco senso, come anche immaginare argomenti razionali nella solitudine della propria mente, o infine essere macerati dal dubbio. Anche se riuscissimo a produrre ottimi argomenti in astratto, questi, per diventare ragioni politiche che muovono l’azione, dovrebbero essere provati nel laboratorio della realtà esperita, dove le ragioni contrarie sono impersonate da partigiani in carne e ossa, e la sfida è non semplicemente tra ragioni diverse ma anche tra emozioni contrastanti che sorgono quando ci troviamo a tu per tu con l’avversario. Tutto questo era secondo il liberale Mill un esercizio di irrobustimento del carattere politico: affrontare direttamente l’avversario, riuscire a rispettarlo pur opponendovisi, non soccombere alla forza delle emozioni ma usarle per armare le proprie ragioni. In ogni caso, in questo frangente il dubbio era davvero poco adatto. Se di dubbio vi era bisogno – e certamente ve n’era – meglio che si manifestasse prima, in preparazione delle strategie e degli argomenti da mettere in campo; o dopo, come guida alla ricognizione di quel che era andato storto. Essere di parte e agognare al tutto; essere di parte e non volersi riconoscere solo di parte: questa contraddizione anima la dialettica esistenziale della vita politica come vita partigiana che il libro di White e Ypi mi hanno suggerito, e che il Diario per «Nuovi Argomenti» mi consente di verificare nel vivo dell’esperienza.
23 giugno
Il 52% dei cittadini inglesi, andati alle urne più numerosi del solito, ha votato per lasciare l’Unione Europea. «Lasciare» è in effetti un verbo sbagliato perché la Gran Bretagna non è mai stata parte dell’Unione; è stata legata all’Unione da accordi che l’hanno esposta in maniera alquanto blanda agli obblighi degli stati-membri, come per esempio quelli derivanti dalle frontiere aperte per i cittadini dell’Unione (Trattato di Schengen) o dall’adozione della moneta unica. Brexit ha messo a nudo i pericoli della faziosità del leader, in questo caso del capo del partito Tory di maggioranza relativa e di governo, David Cameron. Il quale, per conquistare il dominio dentro il suo partito, ha proditoriamente deciso di lanciare questo referendum, di andare al popolo per avere da esso il sostegno massimo alla sua leadership di parte. Ha messo in campo l’anti-europeismo e lanciato la campagna referendaria su un tema che ha tutti i crismi di un referendum costituzionale perché il quesito – Stay o Leave – disegna la fisionomia della Gran Bretagna in relazione a se stessa e all’esterno. Il tema della partigianeria è qui di aiuto per districare il senso di questa decisione radicale che avrà conseguenze sull’Unione Europea tutta, non solo sulla Gran Bretagna.
Innanzitutto Cameron ha confuso l’agire fazioso con l’agire partigiano, e mentre ha miseramente fallito ha portato il suo paese a subire le conseguenze, in prima battuta non positive, dei suoi piani molto ritagliati sulle sue ambizioni personali. Applicando la distinzione classica di fazione e partito, si potrebbe dire che Cameron ha identificato gli interessi della sua leadership con quelli del suo partito e poi con quelli della sua stessa nazione; in pratica, ha sia tradito il suo partito che messo a repentaglio l’interesse del paese. Inoltre, per ottenere l’esito agognato, ha immesso nella vita pubblica argomenti molto rischiosi – quelli del nazionalismo, della xenofobia, dell’isolazionismo. Infatti uno dei suoi cavalli di battaglia contro l’Europa è stato l’apertura delle frontiere agli europei, e soprattutto a quelli dell’est Europa, gli ultimi arrivati nell’Unione, i quali – questo l’argomento – giunti in Inghilterra derubavano gli inglesi del lavoro. Questo argomento ha deciso la campagna contro l’Europa e unificato elettori di destra e di sinistra – non è un caso che il voto per la Brexit sia venuto prevalentemente dai quartieri popolari, più esposti ai rischi dell’apertura delle frontiere, le quali sono spesso presentate come un baluardo per chi sta peggio, visto che chi sta meglio può navigare nel mondo largo. La scelta sconsiderata di Cameron conferma le dure critiche che la fazione si è attirata da tempi immemorabili.
22 agosto
Nell’isola di Ventotene si sono incontrati tre leader europei – Matteo Renzi, François Holland e Angela Merkel. La causa scatenante di questo europeismo dei pochi (una rosa selezionata che, di fatto, interrompe la coralità dell’Unione) che torna laddove il progetto utopistico di un’Europa oltre gli stati nazionali è stato concepito e scritto, è indubbiamente Brexit. Però il problema di fondo è quello delle frontiere, il quale ha messo a nudo un’altra delle questioni associabili alla partigianeria: il ruolo dell’interesse generale e come questo possa essere meglio servito, se con un’unione sovrannazionale come volevano i visionari liberalsocialisti di Ventotene oppure nei modi tradizionali, come accordo tra stati e trattativa per ottenere il massimo (come i leader in questione sembrano proporre). Si tratta di uno squisito argomento politico e quindi partigiano, nel quale la tensione tra progetti e nozioni di bene generale è inevitabile perché ogni progetto, anche il più inclusivo, inevitabilmente lascia sul campo qualche scontento e opposizione. Si tratta di vedere quanto diffuso è lo scontento e quanto forte l’identificazione emotiva con il progetto proposto. Non c’è nessuna risposta vera e certa su che cosa sia bene per gli inglesi o per gli altri paesi: se stare dentro l’Europa o uscire. Non è matematicamente certo che una soluzione sia vera e l’altra falsa. A fare la differenza è allora la capacità dei principi etico-politici connessi a un progetto di mobilitare passioni e conoscenze. Compito della politica partigiana è di infondere certezza su una strada da prendere, sapendo che non sarà, comunque, buona in tutto; che ci sarà in ogni caso una «parte» che non accetta. «Stare con o in Europa» deve potere per questo acquistare forza di obiettivo ideale, essere sentita e percepita come uno scopo nobile perché promette e può attuare libertà e pace, i due pilastri del cosmopolitismo europeo che innervò l’utopia pragmatica del Manifesto di Ventotene.
Tuttavia, se l’Europa è null’altro che un bilanciamento di interessi nazionali e una strategia per rafforzare il potere degli stati-nazione (di alcuni soprattutto), se essa diviene un mezzo per tenere in vita lo status quo, allora è destinata a perdere lo spessore delle cause partigiane che ne qualifica il senso e il valore. In questo caso, può non diventare o essere uno scopo desiderabile dai più. Brexit ha significato proprio questo: è il segno della perdita di valore, nel nostro presente, di un obiettivo etico-politico maturato in anni in cui i confini nazionali hanno mostrato tutta la loro forza distruttiva e bestiale.
La storia recente dell’Unione Europa è legata geneticamente alla disperazione dello sradicamento e della miseria causata dalle politiche nazionalistiche degli stati europei. È nata come ideale pragmatico cooperativo di vita libera e pacifica tra cittadini armati di eguali diritti e sorretti da una vita sociale ed economica dignitosa. Basti pensare al fatto che l’Ufficio per l’Alto Commissario onu per i rifugiati nacque alla fine della Seconda guerra mondiale (1945) per assistere il ritorno ai loro paesi dei milioni di europei sfollati e rifugiati; e basti ricordare che il primo trattato politico dell’Unione Europea è stato il «Trattato di Roma» (1957) che ha riconosciuto la libertà di movimento ai cittadini dei paesi sottoscrittori. Dunque, le frontiere sono il fattore centrale da tener presente se vogliamo cercare di capire le ragioni della Brexit, e il valore e il destino dell’Unione: di esse non si può fare a meno, neppure quando le spostiamo oltre i confini nazionali. Come regolare la porosità delle frontiere è il nodo da sciogliere senza abbandonare l’ideale europeo. Perché ciò sia possibile sarebbe necessario che l’Unione Europa diventasse un obiettivo partigiano, politico cioè a tutti gli effetti e partecipato dai protagonisti, i cittadini; sarebbe necessario che non restasse un semplice accordo strategicamente conveniente agli stati e alle dirigenze nazionali.
L’essere partigiani, del resto, presume frontiere perché presume «parti» – non si può per tanto inveire contro gli inglesi poiché non è per nulla vero che tutti trovano la stessa convenienza a vivere nelle stesse frontiere. Se l’Europa non saprà ispirare partigiani europeisti, se non riuscirà a essere un obiettivo capace di istigare l’azione e a guidare i giudizi politici sulle scelte da fare e da non fare, allora non si possono biasimare i poveri inglesi che si sono attaccati ai loro confini contro quelli europei come un naufrago si attacca a un salvagente. Del resto, senza giungere all’esito dirompente che solo un referendum può generare, non è forse vero che l’Ungheria, la Polonia e, ora anche, l’Austria stanno riportando le frontiere – nazionali ed europee – al centro della politica partigiana? Un tentativo di politica comune con Frontex – di respingimento dei migranti e, in casi di emergenza, di soccorso – e poi un accordo miliardario con la Turchia, un paese autoritario a tutti gli effetti, per pattugliare le porte a est e sud-est: questa è oggi la politica che definisce l’identità europea – una politica che non riesce a convincere chi vuole spendersi con intelligenza e passione per questa causa.
La responsabilità della Brexit trascende quindi le frontiere della Gran Bretagna e non è semplicisticamente imputabile all’irrazionalità di chi l’ha votata – del resto, quei cittadini ridiventati poveri hanno a loro modo agito molto razionalmente perché i meno abbienti non hanno sempre interesse a che il loro paese tenga le frontiere aperte al lavoro a basso costo. Sarebbe un errore sottovalutare questa legge eterna: la libertà non sta insieme alla miseria e alla destituzione e il cosmopolitismo presume una condizione sociale di stabilità e benessere. La fazione (e il nazionalismo come ogni retorica populista è una forma di politica faziosa) vince facilmente quando può far leva sul bisogno e sulla paura. L’Unione Europea non può per questo andare avanti come se nulla fosse successo e nulla cambi, come se Brexit non avesse messo in discussione la sua miope politica economica ordoliberale che si è radicata anche grazie all’assenza di un sovrano europeo che sappia dare espressione coerente ai principi comuni condivisi, rispetto ai quali l’interesse economico dovrebbe fungere da mezzo, non da fine. Il problema è di frontiere dunque, perché e in quanto di opportunità sociale ed economica, di dignità e di giustizia. Se l’Europa non riesce a ispirare questi giudizi contro coloro che la vorrebbero un terreno di semplificazione normativa per favorire gli interessi delle multinazionali e delle banche, la politica diventerà fatalmente una lotta di e tra fazioni. E un Cameron qualunque avrà la possibilità di provocare danni incalcolabili.
Marco Cubeddu (Genova, 1987), ha pubblicato i romanzi «Con una bomba a mano sul cuore» (Mondadori, 2013) e «Pornokiller» (Mondadori, 2015). Scrive su diverse testate, tra cui «La Lettura» del «Corriere della Sera», «Link - idee per la tv», «Il Secolo XIX», «Panorama», «Il Giornale» e «Linkiesta». È caporedattore della rivista letteraria «Nuovi Argomenti». Vive tra Roma e Milano. «L'ultimo anno della mia giovinezza», reality letterario sulla vita di Costantino della Gherardesca, esce per Mondadori il 30 gennaio 2018.