Còccioli – e non Cocciòli – all’italiana, Cocciolì alla francesce, Cosiòli alla spagnola: e poi chissà ancora quante variazioni. Carlo Coccioli, che credeva nel karma, è stato uno scrittore reincarnato più volte nel proprio stesso nome e corpo, nella propria stessa lingua. E quindi nei propri crucci esistenziali: l’amore omosessuale in rapporto al divino, il perché dell’esistenza, la compassione nei confronti di un leopardiano Creato sofferente. Una lingua, la sua, unico esempio nel Novecento, che si auto-traduceva declinandosi tra l’italiano, lo spagnolo e il francese, tre lingue che arrivò a maneggiare con eguale dote, attraverso le quali scrisse più di 40 opere pubblicate in tutto il mondo per editori importanti. Quasi condannato in questo samsara, che divenne decennale esilio, e allo stesso tempo esaltatone nella ricerca di un ineffabile principio, fondamento universale, voce divina, l’autore vagò in fuga tra religioni monoteiste, buddismo, induismo ed altri culti minori – fuga sintetizzata nell’originalissimo Le case del lago. Culti tra i quali, si potrebbe annoverare proprio quello nei confronti degli animali, specie i cani – il cane edenico protagonista di un’altra sua opera intensa e delicata, Requiem per un cane.
Coccioli è stato sicuramente uno scrittore eccessivo e per giunta tormentato da Dio: questa è stata la sua inattualità, causa forse di un’inspiegabile assenza dal canone della narrativa italiana. Tuttavia non fu mai uno scrittore bacchettone, un ultraconservatore, come lo si definì stupidamente. Basti pensare proprio al suo Dio, un Dio dalle molteplici facce, verso il quale l’autore non ebbe paura d’invocare la blasfemia, la contestazione, afflitto come un novello Giobbe, oppure anelando un rapporto amoroso quasi sensuale, come nel caso del re Davide protagonista del suo capolavoro del 1976. La sua spiccata spiritualità si sviluppò di certo osservando da bambino il Dio astratto del deserto intronato dall’adhan, il richiamo del muezzin, nella Cirenaica e della Libia, dove passò l’infanzia con il padre militare. Quindi Coccioli riscoprì la patria toscana della madre livornese, e fu giovanissimo partigiano, valendogli ciò la medaglia d’argento al valore.
I primi romanzi pubblicati poco più che ventenne a Firenze da Vallecchi raccontano proprio quella sua storia, come Il migliore e l’ultimo, ma anche la trasfigurano in storia cristiana, a tratti allucinata, nei personaggi esemplari de La piccola valle di Dio e soprattutto de Il cielo e la terra. Quest’ultimo uno dei suoi libri più forti: agiografia dell’ambiguo Don Ardito Piccardi narrata attraverso le prospettive di diari, lettere, documenti di testimoni attorno ad un santo fervente e sui generis. Erano gli anni non solo del Neorealismo, ma anche della Firenze di Papini, delle Giubbe Rosse. Coccioli si avvicinò a Palazzeschi, a Malaparte. Quest’ultimo l’apprezzò molto, e v’intrattenne un importante carteggio. Malaparte che scrisse: “Moravia dice che Coccioli non vale nulla, ma è la solita cattiveria invidiosa e meschina degli Italiani (scrittori e non scrittori) i quali odiano il talento e il successo altrui. Ma Coccioli è uno scrittore vero, e darà del filo da torcere”. A quello scrittore vero questo non bastava. Ed ecco una nuova fuga, non più dal deserto, non più dalle prigioni fasciste: si trasferì nei primi anni ‘50 a Parigi, frequentò Gabriel Marcel, ma anche Cocteau, Mauriac, Bernanos. Ed a Parigi incontrò il successo editoriale: si dice che nella capitale si leggesse Proust così come Coccioli. Tanto che Arbasino in un episodio di Parigi o cara si sentì domandare: “Allora secondo te chi sarebbe più bravo? Moravia, Coccioli, Guareschi, o Cecchi?”
Pensate però che sia rimasto in Francia, a godersi la fama di libri scritti direttamente in francese o in traduzione? Scrisse, in italiano ma uscito in francese nel 1952, il libro scandaloso e altamente lirico Fabrizio Lupo – in Italia arrivò solo nel 1978 dopo un ventennio di censura. È la storia di un pittore cattolico travagliato da un amore omosessuale che porta fino al suicidio. Con quel libro, perse centinaia di lettori cattolici, ma ne trovò migliaia di nuovi e appassionatissimi. E per amore si mise ancora in viaggio, fino ad incontrare un’altra divinità, quella del sacrificio azteco, del Messico. E vi rimase per più di 50 anni, a Città del Messico, nel suo continuo confronto con gli inebrianti culti precolombiani, ma anche con i costumi e le cronache del Messico moderno, divenendo un notissimo e rispettato intellettuale latinoamericano presente in riviste e giornali come Excelsior e Siempre! E non possiamo dimenticare il soggiorno a San Antonio, Texas, che dette vita a quel diario o meglio “minutario” oggi quasi di culto: Piccolo Karma. Mai mancò però il continuo ritorno a Firenze. La Firenze che oggi gli dedica ben poco, se non quello scatolone-fondo alla Biblioteca Marucelliana.
Perché si dovrebbe quindi riscoprire, rileggere e finalmente studiare Coccioli oggi? Non solo per questa sua vita in esilio, non solo ché i suoi libri riportano i problemi universali di un Dostoevskij, di un Camus. Non solo perché è stato considerato un maestro eretico da Tondelli e da altri nostri contemporanei come Mozzi, Vasta e Lodoli. Ma anche perché il suo stile e sguardo originale, a tratti decadente e visionario, altre volte schietto e quasi ingenuo, rumina le influenze delle sue letture internazionali e lo rende, come già scrisse Carlo Bo, un scrittore italiano alieno all’Italia, appartenente ad un’altra letteratura. Ma allo stesso tempo una nuova preziosa chiave di lettura di vizi e virtù del nostro piccolo e limitato Novecento letterario.
L’articolo è già apparso su “Nuova Prosa”, 63, aprile 2014, pp. 190-191.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).