Gaddis: vita vera di un falso

da | Mar 24, 2016 | Senza categoria

I

C’è ancora in giro chi pensa che William Gaddis sia Thomas Pynchon (magari sono gli stessi che identificano Shakespeare con Francis Bacon). Qualcun altro è pronto a scommettere che Gaddis sia morto di dissenteria a quarantatré anni e che i suoi resti sono sepolti in terra spagnola, in una tomba senza lapide. Spesso i giornali hanno confuso il suo nome con quello di William H. Gass. «Nel 1976, quando il suo secondo romanzo, JR, vinse il National Book Award, i suoi ammiratori, confusi dall’anonimato in cui William Gaddis placidamente era sprofondato fino a quel momento, […] iniziarono a storpiarne il nome, congratulandosi con un tipo più grasso. Persino il “New York Times”, una volta, è riuscito ad attribuire il suo terzo romanzo, Gotico americano, a quel suo doppio dal nome assonante. Proprio così. Forse William Gaddis non è B. Traven, dopo tutto, o J.D. Salinger, Ambrose Bierce o Thomas Pynchon. Forse William Gaddis sono io». [1] Parola di William H. Gass.

È difficile smentire la notizia secondo cui il settantaseienne signor William Thomas Gaddis Jr. – autore di cinque romanzi di cui due vinsero il National Book Award – è morto nella sua casa di East Hampton il 6 dicembre 1998, dopo avere a lungo combattuto contro un cancro alla prostata. Ma, lo sappiamo, c’è gente che giura di avere incontrato Elvis un paio d’anni fa in un’isoletta del Pacifico, e Gaddis è come il Re del rock ‘n’ roll, come il gatto di Schrödinger: non si può sapere se sia vivo o morto sino a quando non lo incontri. Quindi, chi ci vieta di pensare che in realtà sia stato un anarchico tedesco con una casella di fermo posta a Città del Messico? [2] Chi può escludere a priori che non si celi proprio lui dietro quella Wanda Tinasky che in una lettera all’«Anderson Valley Advertiser» dava per certa la notizia che «i romanzi di William Gaddis e Thomas Pynchon sono stati scritti dalla stessa persona»?

D’altronde il primo romanzo attribuito a un certo William Gaddis (chiunque egli sia o sia stato), quel The Recognitions che uscì in America nel 1955 nell’indifferenza più o meno generale, parla – tra le altre, moltissime cose – di scambi d’identità. Ed è ironicamente appropriato che alcuni critici contemporanei, riconoscendone finalmente l’importanza, parlino di questo libro come di un «Giano bifronte», con una faccia che, «grazie alla sua complessità, guarda indietro ai grandi modernisti tra le due guerre, come Joyce e Faulkner»; e l’altra che intravede il futuro, profetizzando «scrittori americani come Barth, Coover, Pynchon, De Lillo e Gass, […] e creando così un ponte tra modernismo e postmodernismo». [3]

Va detto subito che se The Recognitions fosse una statua di Giano dovrebbe essere grande come il Colosso di Rodi. Le sue novecentocinquantasei pagine superano gli ottocento grammi. Per non parlare del peso specifico: superiore a quello del basalto. In un articolo pubblicato nel 1962, un giovane critico newyorkese che si firmava jack green (con le iniziali rigorosamente minuscole) scriveva: «The Recognitions di William Gaddis uscì nel 1955 ed è un grande romanzo, il romanzo della nostra generazione così come l’Ulisse lo è stato della sua. Ha venduto poche migliaia di copie perché i critici sono stati pigri: due di loro hanno dichiarato di non avere nemmeno finito di leggere il libro: uno ha preso sette granchi, gli altri sei hanno sbagliato a riportare il numero di pagine, l’anno, il prezzo, l’editore, l’autore e perfino il titolo; un altro ancora ha scambiato un personaggio col diabete per un tossicodipendente; ce n’è stato uno che lo ha definito “disgustoso”, “perverso” e “sboccato” e ha dichiarato che la bocca dell’autore dovrebbe essere “lavata col sapone”. Due sole recensioni su cinquantacinque erano adeguate. Le altre erano il frutto di dilettanti e incompetenti». [4]

Ovviamente, qualcuno iniziò a sospettare che l’estensore di una difesa così veemente del lavoro di Gaddis… fosse lo stesso Gaddis. Se poteva essere Salinger o Greta Garbo, perché non jack green?

II

La storia di jack green (un nome preso da un giornale sulle corse dei cavalli, il «Jack’s Little Green Card») sembra una sottotrama di The Recognitions, un romanzo-labirinto abbacinato dal sole dell’iperbole dove niente è quel che sembra e tutti sono alla ricerca di una via d’uscita (la Realtà) che è programmaticamente negata. Ogni essere umano – ci dice il libro – è una colossale menzogna.

In America, nel 1955 – l’anno di Bulli e pupe – nessuno era disposto a dar retta a un romanzo del genere, scritto da un oscuro correttore di bozze del «New Yorker». Dodici anni più tardi, quando Mondadori lo pubblicò a ridosso delle festività natalizie nella collana «Nuovi Scrittori Stranieri», gli studenti che strimpellavano le canzoni di De André e leggevano L’uomo a una dimensione sulle scalinate delle università snobbarono anche loro quel libro con la copertina gotica (un disegno di Bosch) in cui una cinquantina di personaggi giostravano attraverso tre continenti. Le novecentocinquantasei pagine dell’edizione inglese erano diventate milleseicentocinquantanove nella traduzione di Vincenzo Mantovani: decisamente troppe, se non per un jack green italiano; che, sfortunatamente per Gaddis, non ci fu. The Recognitions, ovvero Le perizie, diventò così anche da noi uno di quei libri riveriti e mai letti, come Sotto il vulcano e L’arcobaleno della gravità. D’altronde, scriveva Gass, «in quanti sono davvero arrivati fino all’ultima pagina di Proust e hanno terminato il Finnegan’s Wake? Cosa significa “finire” Moby Dick?» e avvertiva il lettore: «non iniziate questo libro con una simile speranza. Vi potrebbe accompagnare per una vita intera». [5]

Tanto per scoraggiare ulteriormente il lettore sensibile e svogliato – e dio solo sa quanti ce n’erano sia nell’America di Eisenhower che nell’Italia di  Mario Capanna – Le perizie inizia con un funerale:

«Anche a Camilla erano piaciute le mascherate, quelle innocue dove la maschera si può gettare nel critico momento in cui si attribuisce una parvenza di realtà. Ma la processione su per il colle straniero, delimitata dai cipressi, sospinta dal monotono salmodiare del sacerdote e ritardata dalle soste alle quattordici stazioni della Croce (per non parlare del carro funebre in cui ella viaggiava, un bianco veicolo trainato da due cavalli che somigliava a una barocca bancarella di dolciumi), avrebbe forse turbato la timida espressione della sua anima, se fosse stata visibile.» [6]

La giovane Camilla era salpata da Boston insieme al reverendo Gwyon, suo marito. Destinazione: la Spagna. Ma durante la traversata, la donna era stata colpita da un’appendicite acuta. A bordo della Purdue Victory si trovava un certo Frank Sinisterra, sedicente medico; chiamato a curare Camilla, ne ha provocato la morte.

«Il vedovo sbarcò in una limpida sera di novembre, più chiara che fresca; con un bagaglio che era aumentato di un collo da quando era partito. Gwyon non aveva permesso la sepoltura in mare.»

La cerimonia funebre – orchestrata da Gaddis di modo che risuoni l’eco de La dea bianca di Graves – si tiene nel cimitero di San Zwingli, vicino a Madrid. Camilla «era tornata, virginea, alla terra: virginea agli occhi dell’uomo, comunque. Il bianco carro funebre di San Zwingli era destinato ai neonati ed alle vergini». La sua salma viene posta accanto a quella di una «bimba strabica con lunghe calze bianche», che apprenderemo essere stata vittima di uno stupro dodici anni prima, e che è probabilmente la stessa di cui parla – più avanti nel romanzo – un «sensazionale articolo di giornale (esclusivo) sull’imminente canonizzazione di una bambina spagnola, sensazionale non perché la bambina stava per diventare santa, ma perché era stata violentata e assassinata». [7]

Per elaborare il lutto, il reverendo Gwyon si trasferisce nel Real Monasterio de Nuestra Senora de la Otra Vez, dove viene accolto dai frati nella curiosità generale, «poiché pochi avevano visto un protestante in carne e ossa», alimentando anche qualche sospetto quando un frate informa i confratelli di aver visto «il loro eretico ospite amministrarsi l’Eucaristia in camera sua, una cerimonia rozza e solitaria in confronto alla loro». Gwyon, che alla Scuola di Teologia e in Seminario ha passato sere intere «chino in una stanza con Tommaso d’Aquino, oppure a costruire, con Ruggero Bacone, formidabili prove geometriche dell’esistenza di Dio», sembra trovare un po’ di pace in quell’ambiente a lui così familiare; finché una notte, mentre è disteso sul letto e la luna proietta i suoi bianchi raggi nella stanza, riceve la visione della moglie, che gli tocca una spalla. Nella sua apparizione fantasmale, Camilla è la belle dame sans merci di Keats, la triplice Ecate che nel Macbeth sovrintende al calderone delle streghe, la spenseriana Faerie Queen, la Leucotea madre dei centauri; oppure Albina – la maggiore delle Danaidi –, il «volto divino» che nell’Asino d’oro di Apuleio appare a Lucio «dal mezzo del mare», Olwen, figlia del Gigante Biancospino, dai capelli biondi come la ginestra e le dita pallide come anemoni di bosco… Atena, Iside, Istar, Brigit, Arianrhod… Tutte maschere della White Goddes, la dea imparziale che crea e distrugge con equanime passione, signora e padrona dell’amore e della morte. «Tutto ciò che è vera poesia […] la celebra», scrive Robert Graves:

«Non mi viene in mente nessun vero poeta, da Omero in poi, che non abbia dato una descrizione personale della propria esperienza di lei. Si potrebbe dire che l’autenticità della visione di un poeta si misura sull’accuratezza del ritratto che egli dà della Dea Bianca e dell’isola ove essa regna. Il motivo per cui mentre si scrive o si legge una vera poesia i peli si rizzano, gli occhi si velano di lacrime, la gola si contrae, la pelle si accappona e un brivido corre lungo la spina dorsale, è che una vera poesia è necessariamente un’invocazione della Dea Bianca o Musa, la Madre di tutti i viventi, l’antica forza della paura e della concupiscenza – il ragno femmina o l’ape regina il cui abbraccio è mortale.» [8]

Il ritorno nel New England del reverendo senza l’adorata Camilla è mesto. La comunità calvinista rimane piuttosto perplessa dei souvenir che Gwyon ha portato con sé: alcune icone cattoliche e una scimmietta (che verrà rinchiusa in una cantina in attesa di un “rito sacrificale”). Il figlio Wyatt, nel frattempo è stato educato dalla zia May, che gli ha insegnato a vergognarsi dei suoi primi tentativi artistici: «non ami il nostro Signore Gesù, dopo tutto?» gli chiede, dopo aver visto un suo quadro. «Allora perché cerchi di prendere il Suo posto? Nostro Signore è l’unico vero creatore, e solo i peccatori cercano di emularLo». Il ragazzo, comunque, continua a dipingere, anche se associa la sua passione a un tremendo senso di colpa (e non è un caso che il suo primo modello è stato I sette peccati capitali di Bosch); rifiuta di seguire le orme paterne e va in Europa e poi a New York per lanciarsi nell’avventura dell’arte: l’obiettivo è quello di ricercare con la pittura il significato e la forma del mondo – dipingere per trovare la Verità. Wyatt Gwyon crede che la Verità stia nella Bellezza, così come è stata interpretata dai maestri del passato; e dunque si applica a rifare i suoi modelli. Li riproduce con tale perizia che un art dealer corrotto di nome Recktall Brown (!) gli propone un patto faustiano: dovrà dipingere dei quadri nello stile di Bosch, di Hugo van der Goes, di Hans Memling, e lui li spaccerà per originali. Wyatt, suo malgrado, diviene così un novello Pierre Menard, lo scrittore immaginato da Borges che attende all’opera ciclopica di produrre alcune pagine che coincidano – parola per parola e riga per riga – con quelle di due interi capitoli del Don Chisciotte.

Dopo l’iniziale successo dell’operazione, Wyatt non se la sente di andare avanti e torna a casa per sottomettersi al volere paterno, pronto a entrare in seminario. Ma il reverendo Gwyon, nel frattempo, è molto cambiato e propina dei sermoni a dir poco eccentrici ai suoi parrocchiani:

«non erano mai stati trattati così dal pulpito. Sì, molti si agitarono, indignati e a disagio, dopo aver ascoltato la nota storia di una nascita da una vergine avvenuta il venticinque dicembre, mutilazione e resurrezione, solo per scoprire che non erano stati al servizio di Cristo ma di Bacco, Osiride, Krishna, Budda, Adone, Marduck, Balder, Attis, Anfione o Quetzalcoatl.»

Wyatt, allora, si rimette in viaggio: sposa una scrittrice che lo tradisce con l’autore di una pièce teatrale, La vanità del tempo, da tutti considerata un plagio (anche se nessuno riesce ad indicare di cosa); per un po’ si rifugia in una piantagione di banane in America centrale; continua a falsificare quadri a New York; torna di nuovo alla casa paterna scoprendo però come ormai nessuno lo riconosca (il reverendo Gwyon, ormai impazzito, lo scambia per il sacerdote di Mitra che deve morire per mano del Pater Patratus per poi risorgere). Wyatt vorrebbe redimersi smascherando i falsi da lui prodotti, ma nessuno sembra credergli. Parte allora per la Spagna alla ricerca della tomba materna e della sua innocenza perduta. Nel cimitero del monastero di San Ziwgli incontra Frank Sinisterra, che gira con i documenti falsi di un romeno di nome Yak alla ricerca di un corpo da utilizzare per falsificare una mummia da vendere come originale a un tizio che in realtà è un killer ungherese assoldato per uccidere un certo signor Yak, specializzato in antichità egizie!

«Sembra la trama di un’avventura di Tin Tin. Ma – finalmente! – dopo aver trafugato inavvertitamente la bara di quella ragazzina undicenne il cui cadavere tutti credevano fosse stato spedito a Roma per la canonizzazione (mentre, probabilmente, a Roma è arrivato il corpo di Camilla Gwyon), i destini di Wyatt e Sinisterra si dividono. Qualche anno più tardi, ritroviamo Wyatt nel Real Monasterio de Nuestra Senora de la Oltra Vez dove restaura alcune opere d’arte, deciso, infine, a “vivere deliberatamente”. Avendo superato la tipica diffidenza calvinista-americana nei confronti dell’arte ed essendo sopravvissuto alla pericolosissima attrazione calvinista-americana per il denaro e il mercato, sembra finalmente sulla strada giusta per diventare un pittore vero.» [9]

III

Le perizie è un’opera vasta come la geografia del cosmo (si va dal New England alla Spagna, da New York al Messico, da Parigi all’Italia: Viareggio, Assisi, Roma…), infinita come la storia degli uomini. Con una capacità mimetica superiore a quella dell’eroe del suo libro, Gaddis fa scorrere sotto il rumore dolcissimo della sua prosa la letteratura sapienziale da Aristotele a T.S. Eliot, il mito da Orfeo a Faust, fino a restituirci, brillantemente pasticciata, un’intera tradizione sacra che va dalla teologia paleocristiana al calvinismo, passando attraverso certi riti mitraici.

Inizialmente, il libro doveva essere un’esplicita parodia del Faust. Nel 1948, mentre era in Spagna, Gaddis lesse Il ramo d’oro di James Frazer e scoprì che Goethe s’era ispirato a un trattato teologico del III secolo, Clementis romani recognitiones, definito il primo romanzo cristiano e attribuito a papa Clemente I. Il titolo The Recognitions viene da lì.

C’è chi ha letto il romanzo come un omaggio non troppo velato a Stephen Dedalus. Ma Gaddis smentirà questa ipotesi: «Tutto ciò che avevo letto di Joyce» scriverà, «era il salace monologo di Molly Bloom nel finale dell’Ulisse. Non avevo neppure letto Finnegans Wake, […] mentre conoscevo qualcosa dei Racconti di Dublino […] e credo di non aver mai finito Ritratto dell’artista da giovane. A influenzarmi per certi versi sono stati invece Eliot, Dostoevskij, Forster, Rolfe, Waugh. Ma tanto, chi cerca Joyce negli scritti di un autore lo trova sempre». [10]

Abile dissimulazione da parte di un geniale falsario? Può darsi. In effetti, dentro Le perizie, «tra citazioni in latino, spagnolo, ungherese e in altre sei lingue; valanghe di oscuri riferimenti che turbinano attorno a torreggianti vette di erudizione; spericolate dissertazioni su alchimia e pittura fiamminga, mitraismo e teologia paleocristiana» [11], si può trovare di tutto. C’è una lettera «di Lazzaro a san Pietro (a proposito dei Druidi)» e «la confessione di Giuda (a Maria Maddalena)»; ci sono la visione della Roma di Costantino e accenni alla Nuova teoria della visione di Berkeley, le ricette di Paracelso e un limerick su Tiziano che finisce così: «a sedurla egli andò con la lobbia, per far rima con rosso di robbia».

«Se c’era stato un sogno» trovo scritto a pagina 701 della vecchia edizione mondadoriana,

«era tornato donde era venuto, a rinnovare il materiale scenico, probabilmente per essere rifuso, forse riscritto, per ricevere la nuova piega necessaria alla sua piena riuscita, a renderlo memorabile al pubblico e accettabile al censore, tutto questo, ma restano il solito vecchio dubbio del regista, il solito produttore, in attesa di mascherare le solite oscenità davanti al solito pubblico riluttante, in attesa, ancora, del primo sipario del sonno.»

IV

Quando gli conferirono il suo secondo National Book Award nel 1994 per A Frolic on His Own, Gaddis dichiarò di appartenere «a una razza in via di estinzione, convinta che uno scrittore debba essere non letto, non ascoltato e meno di tutto visto. Sono stato postumo per vent’anni». [12]

I maniaci del Grande Tema Americano – ovvero l’Identità Segreta dello Scrittore Recluso – non si scoraggiarono, così come non si erano scoraggiati quando nel 1986 Gaddis concesse una lunga intervista in una suite dell’Atrium Hyatt di Budapest: «capelli grigi, il viso piuttosto lungo dai lineamenti duri, un’espressione attenta e assorta, sguardo contemplativo, severo ma amabile», lo descrisse l’intervistatore, prima di chiedergli: «ora che ha deciso di uscire dall’isolamento – e prima che ci rientri – è forse insoddisfatto dall’immagine che circola riguardo alla sua vita, alla sua personalità e alle sue opinioni che le farebbe piacere correggere?». Risposta: «tentare di correggere un’immagine di sé è tanto inutile quanto irrilevante. Spero così di chiudere la questione. Con un’intervista alla quale posso fare riferimento ogni volta che si manifesti la minaccia di un’altra, senza dovermici sottoporre di nuovo». [13]

La questione non venne chiusa. Non lo è mai stata. Le speculazioni sulla vera identità di Gaddis hanno continuato a proliferare. C’è chi è andato davvero oltre (c’è sempre qualcuno che va oltre: la paranoia è un virus potente), sostenendo addirittura che Gaddis, Pynchon e il fantomatico jack green con le minuscole fossero la stessa persona.

Ecco la storia.

Due anni dopo la pubblicazione di The Recognitions, un certo Christopher Carlisle Reid, impiegato in una compagnia di assicurazioni di Manhattan, esce dall’ufficio alle cinque di un pomeriggio di primavera, si toglie la cravatta e la getta nella fontana di Madison Square, poi va a casa, prende il rasoio e lo specchio del bagno e li lancia fuori dalla finestra: ha deciso che si cambierà il nome in jack green, distribuirà la rivista «newspaper», che si autoproduce e stampa – davanti al 225 di East 5th Street. Nel primo numero, jack green scrive che The Recognitions «è un capolavoro, il miglior romanzo mai scritto in America». L’autore di questa pietra miliare e il suo entusiasta recensore s’incontrano – pare – quello stesso anno, in una New York prenatalizia. Quando nel 1962, dalle colonne di  «newspaper» jack green spara a zero sui detrattori del libro, Gaddis scrive al suo editore, Aaron Asher: «Ecco, finalmente, la mia revanche!». Ma pochi giorni dopo, jack green fa di più: pubblica a proprie spese sul «Village Voice» un annuncio in cui invita i lettori ad acquistare la nuova edizione economica di The Recognitions.

È il momento in cui qualcuno inizia a sospettare che a pagare per quella pubblicità in realtà sia stato proprio Gaddis. Circola la voce che jack green sia solo uno pseudonimo dietro cui si cela lo scrittore. A prendere la cosa sul serio ci pensa un impiegato delle poste di nome Thomas Hawkins, poeta beat della domenica, che nel suo saggio Eve, the Common Muse of Henry Miller & Lawrence Durrell fa sua la teoria dell’identità tra Gaddis e jack green.

Siamo nel 1963, l’anno in cui viene pubblicato V., il romanzo d’esordio del misteriosissimo Thomas Pynchon – poco più di un nome (esiste solo una sua foto di quando era marine). Potrebbe essere, questo Pynchon che si dica viva in Messico, uno dei vari eteronimi di Gaddis? La suggestione inizia a diffondersi. [14]

Nel 1975, dopo vent’anni di silenzio, Gaddis pubblica il suo secondo romanzo, JR, in cui c’è un esplicito riferimento a jack green. Otto anni più tardi viene pubblicata la prima di una serie di lettere che tra il 1983 e il 1988  una sedicente Wanda Tinasky invia al «Mendocino Commentary» e all’«Anderson Valley Advertiser». Si tratta, per la maggior parte, di recensioni di programmi televisivi («ammiro Phil Donahue per essersi definito uno stacanovista. Lavorare per Phil significa starsene seduto sotto un casco per i capelli») e ironiche riflessioni su poeti locali, artisti e politici, in cui spiccano la voce arguta e lo stile scintillante della sua redattrice.

Chi è Wanda Tinasky? Lei stessa, in una delle lettere – che più tardi verranno riunite in volume – si descrive come «una grossa signora ebrea in là con gli anni, un’émigré della Russia Bianca che vive sotto un ponte, vicino a Fort Bragg e che spesso usa “Anderson Valley Advertiser” al posto della biancheria intima». Ma nessuno le crede, anche perché «la Tinasky sembra molto interessata a questioni legate all’autenticità e ai travestimenti». [15] Una delle lettere, pubblicata nell’agosto del 1985, enuncia esplicitamente che «i romanzi di William Gaddis e di Thomas Pynchon sono scritti dalla stessa persona». Passa un anno e in una nuova lettera inviata al direttore del «New Setter Interview», l’ineffabile Wanda osserva che jack green, «uno scrittore che si autopubblicava un quarto di secolo fa, […] considerato da Quelli che la Sanno Lunga come il più interessante scrittore americano dei suoi tempi, […] sembra essere più che implicato a livello autoriale con i romanzi pubblicati sotto i nomi di William Gaddis e Thomas Pynchon».

Nel 1990, Bruce Anderson, direttore dell’«Anderson Valley Advertiser», annuncia:

                                       SOSPETTI CONFERMATI

                     Il famoso romanziere americano Thomas Pynchon

                                 è quasi certamente Wanda Tinaski

 «è una teoria che ancora circola diffusamente tra i pynchoniani. Ci sono delle vere e proprie sovrapposizioni tra i romanzi di Pynchon e alcune delle lettere di Wanda; entrambi hanno lavorato per la Boeing, amano le canzoncine spiritose [16] e l’espressione “essere 86izzato”, sono ossessionati dai Pulitzer e hanno lo stesso stravagante senso dell’umorismo». [17]

Toccherà a Melanie Jackson – moglie e agente letterario di Thomas Pynchon, smentire pubblicamente l’ipotesi di Anderson. Ovviamente, non viene creduta. Così, lo stesso Pynchon dovrà telefonare alla CNN (inaudito!) per ribadire di non essere Wanda Tinasky. Mentre sarà Gaddis a dover dichiarare di non essere Pynchon… Quando uscì JR, qualche critico ipotizzò che Pynchon avesse avuto qualche influenza sul secondo romanzo di Gaddis, che si apre con una discussione su questioni relative a energia, disordine, caos ed entropia – tutti temi puramente pynchoniani. «Sia io che Pynchon – e non lo conosco – ci occupiamo entrambi di diversi aspetti degli stessi problemi» disse Gaddis. «Dubito che il mio lavoro abbia avuto una qualche influenza su di lui; il suo di certo non ha in alcun modo influito sul mio».

A un certo punto, sulla scena di questa farsa dietrologica, irrompe un nuovo personaggio. Si chiama Don Foster, uno studioso di Shakespeare del Vassar College che ha avuto una certa notorietà per aver scoperto nel columnist del «Time» Joe Klein l’autore di Primary Colors, lo scandaloso roman à clef sulla politica di Washington pubblicato anonimo nel  1996. Dopo due anni di alacre lavoro, Foster presenta prove a suo parere «inoppugnabili» che dimostrano come Wanda Tinasky altri non sia che il poeta Tom Hawkins, uno che peraltro aveva l’abitudine di travestirsi prima di uscire di casa…

Hawkins, laureatosi in Letteratura inglese nel 1950 all’Università di Washington, oltre a pubblicarsi da sé le proprie poesie, ha lavorato alla Boeing (come Pynchon), alla radio e alle poste. Lettore entusiasta di Le perizie, all’inizio degli anni Sessanta scoprì la fanzine gaddissiana messa su da jack green e fu tra quanti si convinsero che Gaddis e jack green fossero la stessa persona (una teoria che Wanda Tinasky, come abbiamo visto, farà sua). Assieme alla moglie Kathleen, Hawkins si trasferì nella Contea di Mendocino, nei pressi di Fort Bragg (come Wanda), dove la coppia visse fino a quando nel 1988, Tom, forse sotto l’effetto dell’oppio che coltivava nel suo orto, uccise la moglie a randellate, ne trasportò il corpo dentro casa e lo vegliò per due giorni; poi diede la casa alle fiamme, prese l’auto di Kathleen e si diede la morte precipitando in un dirupo di duecento metri a Bell Point.

È il finale tragico di una storia comica. Ma anche con Le perizie è così. Si apre il giorno di Ognissanti con la morte di una donna il cui corpo verrà canonizzato come conseguenza di un errore ridicolo e finisce la domenica di Pasqua quando, invece della resurrezione, un organista devoto – Stanley, il bravo ragazzo devoto che fa da contrappunto a Wyatt – viene seppellito dal crollo di una chiesa. Lo stesso Gaddis ha detto: «Be’, volevo che fosse un lungo romanzo comico. È stato molto frustrante quando uscì e nelle tantissime recensioni continuava a comparire quel termine tremendo: erudizione. […] io volevo che fosse un lungo romanzo comico in linea con la grande tradizione». [18]

NOTE:

[1] William H. Gass, dall’introduzione all’edizione Penguin di William Gaddis, The Recognitions, New York, 1993 [traduzione mia].

 [2] Il tedesco Ret Marut, più conosciuto come Berick Traven Torsvan, o semplicemente B. Traven (1882-1969) è autore del romanzo Il tesoro della Sierra Madre, da cui John Houston trasse l’omonimo film con Humphrey Bogart. Nessuno ne ha mai conosciuto la vera identità. Pare che negli anni Sessanta del secolo scorso vivesse nel Chiapas, dove ambientò molti dei suoi libri. La sua casella di fermo posta a Città del Messico fu a lungo il suo unico contatto con il mondo.

[3] Peter Dempsey, William Gaddis: Life & Work, www.williamgaddis.org, 17/12/1998 [traduzione mia].

 [4] Jack Green, Fire the Bastards!, «newspaper», n. 12, 1962.

 [5] William H. Gass, cit.

 [6]William Gaddis, Le perizie, trad. it. V. Mantonvani, Mondadori, Milano, 1967.

[7]La piccola vittima ricorda sotto molti aspetti Santa Maria Goretti, anche lei oggetto di un tentativo di stupro e uccisa a undici anni, nel 1902.

 [8] Robert Graves, La Dea Bianca. Grammatica storica del mito poetico, trad. it. A. Pelissero, Adelphi, Milano, 1992. Secondo Graves, la Dea Bianca è la protagonista dell’unico tema poetico infinitamente variabile, che «consiste nell’antichissima storia, divisa in tredici capitoli e un epilogo, della nascita, vita, morte e resurrezione del dio dell’Anno Crescente. I capitoli centrali riguardano la battaglia da lui combattuta e persa contro il dio dell’Anno Calante per amore della capricciosa e onnipotente Triplice Dea, madre di entrambi, loro sposa e seppellitrice. Il poeta identifica se stesso con il dio dell’Anno Crescente e la sua Musa con la Dea; il rivale è il suo fratello di sangue, il suo doppio, il suo weird o destino».

 [9] Dirà Gaddis: «Penso di aver tentato di rendere evidente che Wyatt fosse una grande talento ma non un genio – una cosa piuttosto diversa. […] Indietreggia rifugiandosi in ciò che esiste già, in ciò che può gestire, manipolare. È in grado di riprodurre dei falsi perfetti, perché i parametri della perfezione esistono già» (Zoltán Abádi-Nagy, William Gaddis, The Art of Fiction No. 101, «The Paris Review», No. 105, Winter 1987, ora in The Paris Review. Interviste, vol. 2, trad. it. Maria Sole Abate, Fandango, Roma 2010).

[10] Lettera a Grace Eckley, giugno 1975. In un’intervista concessa nel 1986, Gaddis ribadirà che molte delle somiglianze tra il suo libro e Ritratto dell’artista da giovane «trovate dai critici e dagli studenti sono delle coincidenze assolute. Stephen, per esempio – ho scelto questo nome perché era il primo martire cristiano» (Zoltán Abádi-Nagy, cit.). Dichiarazione che suona come una presa in giro, visto che Joyce scelse il nome Stephen per lo stesso motivo!

[11] Jonathan Franzen, Mr. Difficult: William Gaddis and the Problem of Hard-to-Read Books, «The New Yorker», 30/09/2002.

 [12] William Gaddis cit. in Fernanda Pivano, William Gaddis, labirinti e caos del mondo per un maestro postmoderno, «Corriere della Sera», 18/12/1998.

 [13] Zoltán Abádi-Nagy, cit.

 [14]«La relazione tra Pynchon e Gaddis appare così evidente che alcuni hanno ipotizzato che Thomas Pynchon altro non sia che uno pseudonimo di Gaddis!» (Steven Moore, “Parallel, Not Series”: Thomas Pynchon and William Gaddis, «Pynchon Notes», n. 11, February 1983 [traduzione mia]).

  [15] Don Foster, Author Unknown: On The Trail of Anonymous, Henry Holt and Company, New York, 2000 [traduzione mia].

  [16] Anche Le perizie colleziona canzoncine sceme, come «The Teddy Bears’ Picnic», intonata da tre giovani inglesi ubriachi.

 [17] Jenny Hendrix, Mistaken Identity, «The Paris Review», 24/01/2012.

  [18] Zoltán Abádi-Nagy, cit.

Pubblicato in forma ridotta su “IL”, n. 78 – marzo 2016.

Marco Cubeddu (Genova, 1987), ha pubblicato i romanzi «Con una bomba a mano sul cuore» (Mondadori, 2013) e «Pornokiller» (Mondadori, 2015). Scrive su diverse testate, tra cui «La Lettura» del «Corriere della Sera», «Link - idee per la tv», «Il Secolo XIX», «Panorama», «Il Giornale» e «Linkiesta». È caporedattore della rivista letteraria «Nuovi Argomenti». Vive tra Roma e Milano. «L'ultimo anno della mia giovinezza», reality letterario sulla vita di Costantino della Gherardesca, esce per Mondadori il 30 gennaio 2018.