L’incipit del romanzo Come le vene vivono del sangue. Vita imperdonabile di Antonia Pozzi (Ponte alle Grazie, 2016).
Il suono mi arriva forte e ovattato allo stesso tempo. Prima lungo, poi breve, quindi di nuovo lungo. Ha sempre la stessa intensità, non si allontana mai.
Ci metto qualche istante a capire che si tratta di un’ambulanza, e che la persona che sta trasportando sono io. Devo avere, dunque, ancora un corpo, anche se tutto ciò che sento è questo suono che non smette, un odore di disinfettante, il leggero fremito del movimento della vettura sotto la schiena.
Fuori, poco distante da me, là dove la strada corre dritta, le siepi e lo scheletro di qualche betulla segnano l’inizio dei campi, punteggiati di neve. Oggi è il 2 dicembre, e la nevicata di quattro giorni fa ha aggiunto silenzio al silenzio di questa terra. Chissà cosa ne è stato dei papaveri di quel giugno che mi sembra ormai risalire a mille anni fa. Saranno stati coperti dal gelo, i loro steli aderenti al suolo eppure ormai lontani dalle cose del mondo – come le parole mie e di Dino, e le nostre risate che risuonavano nella pianura solitaria. Io quel giorno d’estate indossavo un vestito leggero, senza maniche. Le biciclette, provate dalla strada cosparsa di ghiaia, erano abbandonate sul ciglio. Dino aveva guardato i papaveri, erano altissimi, poi aveva cominciato a correre, e io lo avevo seguito, fino al punto in cui si apriva un varco tra le piante. Lì ci eravamo distesi, guardando quel che restava del cielo, i papaveri giganti custodi dei nostri segreti. Dino ne aveva preso uno, mi aveva fatto il solletico, poi lo aveva lanciato in aria come se fosse in grado di volare. Il papavero aveva macchiato per un attimo il cielo di rosso, poi era ricaduto a terra. Dino mi aveva preso la mano.
Mi piace pensare ai corpi di quei fiori, a quel che ne resta, come al mio: ancora qui, ma già altrove. I papaveri: l’immagine che, tra migliaia di altre possibili, ho voluto trattenere prima di andarmene, senza sapere che mi sarei fermata a lungo in questa stazione intermedia dove ogni cosa, finalmente, sembra andare al suo posto.
Dei campi innevati in cui mi hanno trovato poco fa mi rimane solo qualche cartolina. Sono scesa dal tram e il freddo mi è arrivato come una scossa elettrica, asciugando in un attimo le ultime lacrime. Ho costeggiato l’antico muro di mattoni senza distogliere lo sguardo da terra finché non ho raggiunto il grande prato davanti all’abbazia. Allora ho alzato gli occhi, attratta – più che dal maestoso edificio, o dalla cara ciribiciacula che tante volte ho nominato con gli amici in buffe gare di scioglilingua –, dal volo radente di un piccolo uccello nero. Il cielo era bianco, lattiginoso, e a terra, tra le mie orme, qualche coraggioso stelo d’erba bruciato dal freddo sbucava dalla coltre di neve. Nei pochi punti in cui il suolo era rimasto nudo uno scricchiolio di foglie secche cadenzava i miei passi.
Ho scelto il punto che mi pareva più immacolato, e ho fatto quello che dovevo fare, senza paura o ripensamenti. Ho guardato ancora una volta in alto, verso quel biancore senza fine, e poi in basso, con una forza tale come se fosse possibile, per i miei occhi, mettere a fuoco l’abisso.
Poi mi sono inginocchiata, cercando un saluto che assomigliasse a una preghiera. Ho sentito che il sonno mi stava per chiudere le palpebre, e così ho preso le lettere dalla tasca del cappotto e le ho sistemate dentro la borsa, facendo in modo che un lembo di quei fogli spuntasse fuori. Volevo che fossero viste subito, e venissero lette prima che qualsiasi moto di compassione o tristezza facesse in tempo a invadere i cuori delle persone che amo: Vittorio Sereni, Dino Formaggio e i miei genitori. La Nena non avrebbe dovuto sapere: per lei una bugia a fin di bene e la promessa che l’avrei aspettata, qualunque fosse il luogo verso il quale stavo andando.
Un piccolo sobbalzo, e all’improvviso non sento più il movimento sotto la schiena. Ci siamo fermati. Lo stridio del portellone che si apre mi strappa alla quiete. Qualcuno mi solleva e il movimento che adesso percepisco è ondulatorio. Sono su una barella e delle due persone che mi trasportano quella che sta davanti deve essere più alta, perché ho l’impressione di scivolare all’indietro, tanto che l’istinto sarebbe quello di afferrare i bordi della portantina, ma non posso, i muscoli non rispondono ai comandi. È proprio come nei sogni: le immagini scorrono davanti agli occhi, qualcosa, forse la memoria, ci spinge all’azione, ma le articolazioni non rispettano alcuna regola, le ossa non hanno peso, e la voce è sempre un grido muto che resta inesploso.
C’è di nuovo un arresto, qualcuno mi afferra in maniera decisa, le sue braccia mi sollevano e mi fanno atterrare su qualcosa di meno rigido.
Un letto.
Il letto di una corsia d’ospedale.
Ma come sono arrivata qui? Ero sulla neve, in ginocchio. Ricordo che dopo aver sistemato le lettere mi sono piegata su me stessa e poi mi sono sdraiata, su un fianco, in posizione fetale. Mi pare ancora di sentire la guancia destra che piano piano perde sensibilità, mentre la sinistra, forse per contrasto, comincia a bruciare. Ho tenuto gli occhi aperti finché ho potuto fissando uno di quei fili d’erba senza vita, che da quella prospettiva mi pareva lunghissimo.
Poi, il buio.
A ridestarmi è stata una mano callosa. Ho sentito aumentare il bruciore alla guancia sinistra, e con una fatica immensa ho sollevato le palpebre. Lui era davanti a me, a pochi centimetri, un cappello floscio che pendeva di lato, gli occhi infossati, un reticolo di rughe intorno agli occhi e folti baffi grigi. Potevo vedere solo il suo volto, sentire la mano dura che mi dava dei colpetti e ascoltare la voce roca che mi ripeteva: «Si svegli signorina, si svegli! Tutto bene? Si sente bene?»
Devo aver risposto qualcosa, forse mi sono anche mossa, perché poi ha aggiunto, ne sono certa: «Visto? Non è nulla. È meglio che torni a casa, fa freddo e i suoi vestiti sono tutti bagnati».
E quindi di nuovo il buio, o meglio la luce bianca che continuo a vedere, anche adesso. Deve essere stato quel contadino a chiamare i soccorsi.
Dev’essere per forza andata così.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).