Nell’immenso calderone d’impostura che è il discorso sulla “cultura” proposto dai media, uno dei miti più citati a sproposito sono le Lezioni Americane di Italo Calvino, le quali, non lette o del tutto falsificate, diventano il passe-partout per qualsiasi semplificazione; una sorta di cliché da bar, come dimostra il parallelo tra l’opera calviniana e la narrativa di consumo per eccellenza… Ha senso riproporre, allora, il seguente contributo critico su Lezioni Americane pubblicato su «Nuovi Argomenti» di gennaio–marzo 2009 “Dove andremo a finire”.
Lezioni Americane. La resa al labirinto
Leggerezza. Rapidità. Esattezza. Visibilità. Molteplicità. Cinque regole, cinque comandamenti espressivi, cinque principi combinatori per scrivere i romanzi del nuovo millennio. È questo il corpus vivendi di Lezioni Americane, celebre volume pubblicato dopo la morte di Calvino avvenuta nel 1985, testo enciclopedico, dotto, oratorio e fecondo, preparato per un ciclo di conferenze sul futuro della letteratura che lo scrittore avrebbe dovuto tenere (poi impossibilitato per l’improvvisa morte) all’università di Harvard, nel Massachusetts. Ma cosa spinge uno scrittore solido come Calvino, che svolge la sua attività in una delle età dell’oro della letteratura italiana, (Pasolini, Montale, Gadda, Moravia sono suoi contemporanei) a teorizzare un modello d’opera letteraria “chiusa” e obbediente a delle categorizzazioni ontologicamente ambigue e poco definibili apriori, se non attraverso il gusto della tecnica oratoria? Cosa lo invoglia a compiere un’operazione a parer mio così poco passionale (il vero amore è sempre privo d’intimidazioni) nei confronti del suo stesso strumento espressivo?
Perché delinea l’aura di linee guida per l’opera letteraria che per natura determinerebbero una standardizzazione dei risultati finali?
La risposta originaria, genitale, alla quale si collegano di conseguenza tutte le motivazioni secondarie o le contingenze che influiscono sulla stesura di qualsiasi opera è la solita. L’urgenza espressiva. Ovvero il grumo aggomitolato di immaginari che spinge ogni scrittore ad attivare il proprio sistema culturale di riferimento in funzione di un superamento, sia di se stesso, sia del bisogno di razionalizzare l’altrimenti lievitante visione della realtà che lo accompagna.
Calvino non è da meno, per la sua intera carriera di letterato.
Nel caso di Lezioni Americane, l’urgenza inseminatrice consiste nella necessità di formalizzare un percorso professionale piuttosto multiforme, disperato e notevolmente complesso, in modo da giustificare (non rispondendo a un senso di colpa, ma alla forza inquisitoria della propria coerenza) il nucleo definitivo di una poetica ormai giunta alla completa cristallizzazione.
Le categorie di cui egli si fa strenuo e abile protettore, infatti, sono irriducibilmente autoreferenziali. Ciò che è contestabile è il volerle innalzare al rango di qualità della letteratura o di specificità per la letteratura che verrà. Se adoperate da Calvino in persona, applicandosi al vasto quadro culturale in cui si muove l’autore che le postula, (un misto di cultura umanistica e scientifica che spinge l’autore a concepire la letteratura sempre e comunque come un mezzo per conoscere l’ambiguità del reale e rapportarsi con esso) le cinque muse calviniane assicurano un risultato comunque culturale, che in certi passaggi risulta davvero affascinante. Ciò di cui invece è lecito dubitare riguarda l’efficacia delle cinque categorie nella circostanza in cui, anziché essere il frutto di una deduzione postuma a un effettivo lavoro svolto sulla pagina, o di una faticosa ricercatezza dello stile e del lessico (tipiche dell’esplorazione di qualsiasi autore nei territori in cui lo guida l’intuito), le teorizzazioni calviniane si pongono come combinazioni genetiche o alchimie generatrici su cui formulare le nuove opere letterarie.
Nel leggere Lezioni Americane ho provato un reale piacere.
Il piacere di chi si trova dinanzi a un testo grondante di sorprese, di voli pindarici sempre seducenti, appassionanti come soltanto un volo è capace di essere, grazie al senso di possesso dello scibile dall’alto, grazie all’idea di larga prospettiva che ogni volo regala, grazie ai brividi di sensualità prodotti dall’occupare una posizione dominante. Calvino, per sostenere le sue idee, infatti, attinge con sapienza alla tradizione letteraria, si rifà al mito di Perseo e Medusa e lo volge a testimone oculare delle sue ragioni, cavalca Cavalcanti, confronta Dante e Petrarca, abbraccia Platone e lo accosta a Lucrezio, li sposa e li dichiara suoi genitori, e dal loro amore fa scaturire la sua idea di realtà come intellegibile convulsione di elementi, di micro particelle in costante simbiosi e dimidiazione reciproca. Mette zizzania tra l’amato Mercurio (simbolo di leggerezza e agilità, messaggero del mondo) e il temuto Saturno (melanconico e solitario, accusato paradossalmente di stasi contemplativa). Si annette Borges, Balzac e Shakespeare, confessa l’amore per Cyrano come precursore della sua ossessione combinatoria, rimprovera Gadda e Proust di scrivere romanzi “non finiti” e “non lineari”.
Insomma, Calvino affabula come un grande illusionista. Ma il rischio, un rischio amplificato da una personale ossessione d’apocalisse, è che leggerezza, rapidità, molteplicità, visibilità ed esattezza, se strappati alle mani sapienti di Calvino, possano diventare strumenti pericolosi. Se mal interpretati, se strumentalizzati, se utilizzati fuori dal poderoso charme culturale del loro progenitore e fuori dal suo patrimonio intellettuale che è raro, le alchemiche combinazioni tra i cinque elementi delle Lezioni Americane possono facilmente transustanziarsi nei pilastri d’acciaio alla base della letteratura d’evasione. Di una letteratura seriale e non ispirata, facile. Disinteressata a ergersi come laboratorio in cui sperimentare l’assoluto e le sue patologie, e indifferente a proporsi come termometro con il quale misurare l’ambiguo manifestarsi delle cose.
La sensazione è che Calvino, giunto alla fine del suo percorso di scrittore, anziché entrare armi alla mano in questa complessità che ormai sente come troppo sfuggente, se ne distacchi. E che anziché provare a rappresentarne le incongruenze, le repentine metamorfosi e gli stravolgimenti dell’esistenza nel loro divenire (anche in leggera differita), opti per una soluzione rinunciataria. In questo senso Calvino compie una scelta utilitaristica, adottando tout court un metro d’azione tipico dell’industria culturale, pur essendone sostanzialmente immune in prima persona. Contro la resa eletta a categoria ordinatrice della letteratura che verrà. Perché dopo il primo inebriamento, dopo aver innalzato la soglia critica per entrare nel nucleo dei contenuti calviniani, dopo aver metabolizzato il fascino oratorio di pagine splendide e scritte con sapienza, appare chiaro come l’impianto di Lezioni Americane sia davvero poco solido, sin dalle premesse metodologiche. Nel percorso che lo porta a scrivere Lezioni Americane Calvino è leggero? È rapido? È molteplice? È esatto? È visionario? No. Ha ragione Cesare Garboli quando, in una lucidissima recensione di Lezioni Americane apparsa su L’Indice nel 1988, spiega che Calvino è leggero nel parlare di leggerezza, è rapido nel parlare di rapidità, è molteplice nel teorizzare la molteplicità, è esatto nel definire l’esattezza ed è visionario nel razionalizzare la visibilità. Ma per quanto riguarda l’espressione del senso generale, l’amalgama tra le sue naiadi non si cesella mai, se non nel definire la posizione (disperata e infelice) che Calvino assume di fronte al reale che vorrebbe raccontare. Calvino lo sa; e spesso, durante la discussione, ricorda come nessuna delle sue grandezze di riferimento sia completamente disgiunta dal suo contrario.
E infatti, non sono esattamente leggere come una piuma le pagine di Dostoevskij, scrittore che non è mai sopra la realtà, sul trespolo, a cercare di organizzare le leggi dell’esistenza secondo olimpiche trovate retoriche, e che piuttosto si consuma in una costante tensione da inseguimento.
Non esistono sensazioni, sentimenti umani, la cui realtà risiede proprio nell’indeterminatezza, nella battaglia eterna, nella totale misteriosità dell’irrazionale? Non esistono terremoti interiori degni di essere raccontati, a cui nessuna rapidità può permettere di sfuggire?
L’elemento unificatore della visione ultima calviniana, dunque, si riscontra nella posizione strategica che lo scrittore assume nel racconto della realtà: una posizione di lontananza, di distacco. Quella di un demiurgo giocoso che, consapevole dei suoi limiti, si accontenta di annusare la superficie delle cose e le trame che coscienza decide di palesare, indifferente a tutto. Egli infatti, come Pindaro, decide di osservare la realtà dall’alto dei cieli, risolvendo l’inafferrabilità del reale attraverso il gioco, e facendo del gioco una prigione. In questo senso Calvino, forse involontariamente, finisce per ergersi a paladino di una letteratura che tende verso l’impersonale, l’asettico e l’anonimo. Sarebbe pressoché impossibile, infatti, applicare le categorie calviniane cimentandosi nel discorso libero indiretto tanto caro a Joyce o allo stesso Gadda, (citato da Calvino come esempio di realtà sfidata in corpo a corpo, non senza una vena d’invidia, all’inizio del capitolo sulla molteplicità). In questo metodo narrativo la realtà e le sue combinazioni sono tampinate passo dopo passo, mentre Calvino, come nota lo stesso Garboli, è per lo più un narratore di situazione ferme. La sensazione di resa è dunque, ciò che almeno all’apparenza si diffonde attraverso il progressivo snodarsi di Lezioni Americane. A discapito, naturalmente, della sua nemica naturale: la sfida. O per meglio dire, della sfida al labirinto, tanto per utilizzare un’espressione coniata dell’autore. Che di resa si tratti, è lo stesso Calvino a sciogliere ogni dubbio:
Resta fuori chi crede di poter vincere i labirinti sfuggendo alle loro difficoltà: ed è dunque una richiesta poco pertinente quella che si fa alla letteratura, dato un labirinto, di fornire essa stessa la chiave per uscirne. Quel che la letteratura può fare è definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro. È la sfida al labirinto che vogliamo salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto.
Calvino scrive questa dichiarazione bellicosa contro gli scrittori che vogliono sfuggire al proprio compito di cimentarsi contro la realtà sul Menabò numero 5, nel 1962, dieci anni prima di scrivere Le Città Invisibili, splendida opera in cui le cinque categorie calviniane sembrano trasparire da ogni pagina, come frutto dello stile e delle caratteristiche più squisitamente individuali del Calvino narratore. Essendo cioè risultati, e non principi ordinatori. Cos’altro, se non una resa, può motivare un desiderio di distacco istituzionalizzato, una necessità di ordine a tutti i costi, una volontà così strenua di calcolo? Nient’altro. Questo è l’universo che emerge dalle Lezioni Americane, a dispetto dell’immediatezza, delle pulsioni e della nevrosi di chi invece decide d’immergersi nella realtà incommensurabile, rischiando di affogare. Ma le rese sono umane, si obietterà. Sono anch’esse realtà. Certo. A patto di accettarle come patimenti individuali, e di non provare disperatamente a fondare su di esse una sorta di sistema architettonico della letteratura per il millennio che verrà.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).