Ritrattino di Mario Soldati, o dell’umanità dell’arte (Schegge di autobiografia).
The very nature of happiness is fugacity […] Happiness is a God who roams the world in disguise, seeking shelter, now under this roof, now under that.
Henry Furst
Come Soldati anche io – era un caldissimo giorno di settembre di molti anni fa – sono partito per l’America; come lui sono partito con l’intenzione, o l’illusione, di «rinnovar[mi], di rinascere, e di ricominciare» (Soldati 2003, p.21). Forse l’immediata familiarità che sento per Soldati e la sua scrittura è esattamente quella «rapida, cordiale intesa» descritta in Lontananza, il quadro d’apertura di America primo amore: «Nel ricordo, tra due uomini che hanno viaggiato lontano si stabilisce rapida, cordiale intesa. Come tra chi ha fatto la guerra; o tra fedeli di un vizio. Ma quanto meglio se possono ricordare i medesimi luoghi, parlare la medesima altra lingua» (Soldati 2011, p.12).
Chi decide di emigrare sta sempre scappando da qualcosa o, ancor meglio, da un complesso intreccio di motivi biografici e ambientali: vuole rinnovarsi, appunto, costruire una vita diversa e migliore. Ma da cosa scappava dunque il giovane – aveva 23 anni – Mario Soldati? A che punto era la sua vita quando nel 1929 – «l’anno perno», l’anno in cui «tutto cambiò» – decise di imbarcarsi sul Conte Biancamano diretto a New York (Soldati 1989, p.49)? Laureatosi nel 1927 in Storia dell’Arte all’Università di Torino, Soldati sembra avere una brillante carriera accademica e giornalistica davanti a sé. Subito dopo la laurea, grazie ai buoni uffici del suo maestro Lionello Venturi, Soldati ottiene una borsa di studio per un corso triennale di perfezionamento all’istituto superiore di storia dell’arte a Roma. Lascia quindi l’amatissima Torino, dove, oltre al già menzionato Lionello Venturi, Soldati aveva stretto amicizia con Massimo Bonfantini e con Carlo Levi, con Giacomo Debenedetti e Piero Gobetti, che gli era stato presentato dal «maestro-amico» (Garboli) Noventa. Sono anni «belli e seri, sostanziosi», come li definirà poi Giorgio De Blasi (in Bonfantini 1983, p.13), durante i quali si compie una frenetica educazione letteraria e artistica: dai romanzi europei contemporanei – la Recherche di Proust scoperta da Debenedetti – alla poesia di Saba, fino alle opere di Felice Casorati, Soldati sembra interessarsi di tutto, e tutto sembra assorbire, rielaborare, fare proprio.
Ovunque vada, Torino, l’alta Val di Susa, Roma, Soldati annoda amicizie, scopre nuovi stimoli, fa esperienze che poi serviranno da spunto per i romanzi e racconti futuri. La curiosità intellettuale, libera e antiaccademica ai limiti dell’inquietudine, è la nota dominante di questi anni. Sono, anche, anni felicemente laboriosi, e Soldati – diviso tra l’attività di giornalista e quella di critico d’arte – ottiene incoraggiamenti lusinghieri, da parte di Lionello Venturi, di Benedetto Croce, di Emilio Cecchi. Il 1929 è, poi, l’anno dell’esordio letterario con la raccolta di racconti Salmace, immediatamente segnalata, ed elogiata da uno dei giganti del tempo, Antonio Borgese. Il futuro, fra carriera universitaria e fama letteraria sembrerebbe dunque tracciato. Eppure, non appena si presenta l’occasione – ovvero: non appena ottiene una borsa di studio alla Columbia University – Soldati fugge. Così, sulla rivista Paragone, Soldati descriverà la sua decisione di abbandonare gli studi di storia dell’arte a Roma:
Mi dicevo che ero nato per scrivere, per scrivere romanzi e novelle e basta. Avrei certamente, con un po’ di buona volontà, potuto menare innanzi, di pari passo, Storia dell’Arte e fiction. Invece, rinunciai alla borsa di studio e buttai tutto all’aria: forse volevo soltanto sfogare nel modo più folle […] un istinto di ribellione contro mia madre, la quale si era sempre mostrata troppo felice dei miei progressi e successi negli studi di Storia dell’Arte. (Soldati 1967, p.118)
Ecco: scappando, in modo «folle», dalla carriera accademica prima, e dall’Italia poi, Soldati vuole innanzi tutto sottrarsi all’influenza materna. Fuggire significa ribellarsi contro la madre Barbara, con la quale aveva – esattamente come l’amatissimo Marcel Proust – «un legame fortissimo, quasi sadomasochistico» (Lajolo 1983); un legame che, negli anni a venire, più volte sarà messo in scena, e neppure troppo velatamente, in diversi romanzi e racconti.
C’è, però, anche un altro motivo, non di natura privata, ed è, evidentemente, la situazione politica italiana. Ricordiamo ancora una volta la data della partenza: il 1929; siamo dunque in pieno regime fascista. La posizione di Soldati è ferma, e lui stesso ha parlato di un «antifascismo istintivo» che era andato acuendosi almeno dal delitto Matteotti del 1924. Educato, secondo un modello ottocentesco e borghese, all’arte e al bello, se non al ‘decoro’, Soldati nutre una ripugnanza istintiva verso la rozzezza e la violenza delle camicie nere. Allo stesso modo, il fascismo non poteva che sembrargli l’opposto della rigorosa moralità appresa nell’istituto dei Gesuiti durante gli anni della giovinezza. Se la fede di Soldati, con il passare degli anni, era andata venandosi di dubbi, la sua adesione ai principi morali del Cristianesimo rimarrà sempre ben salda. Come mostrano, tra gli altri, romanzi quali Lettere da Capri e La confessione, i motivi cristiani del peccato, della redenzione, della dannazione e della penitenza funzioneranno sempre, in lui, come schemi concettuali irrinunciabili per la decifrazione della realtà. Tale impostazione sopravvive a tutti i dubbi, a tutti i tentativi di laicità, e anche a quella prima, fondamentale crisi del 1921: «un dubbio totale o, come si direbbe oggi, esistenziale», ovvero che non esista «nulla, nulla assolutamente, se non ciò che vediamo, tocchiamo, possiamo sperimentare» (Soldati 1994, p.9). Non è, questo, però, un azzeramento dell’orizzonte metafisico, ma l’onestà di una fede come vera esperienza di vita, e quindi anche come dubbio. Soldati sembra quasi ribaltare la prospettiva e i precetti cristiani, più che perdere valore, vengono declinati nel mondo: «L’aldilà – afferma – per me, è tutto di qua. Bisogna però agire come se l’aldilà esistesse. Non c’è nulla della Chiesa che io rifiuti: io rispetto, anzi accetto, quel che dice non perché è certamente vero, ma come se fosse vero» (Soldati e Messori, 1982). Se nella crisi del 1921 Soldati sembrava immedesimarsi nel principe Bolkonskij di Guerra e pace – quel principe che guarda il cielo e vede, letteralmente, il nulla – in questo nuovo ribaltamento di prospettiva echeggia, chiara e razionale, una pascaliana scommessa sull’esistenza di Dio. Ed è nota, del resto, la grande ammirazione di Soldati verso il pensiero della scuola di Port Royal come «sublime tentativo di fondere e superare insieme cattolicesimo e protestantesimo» (Soldati 1989, p.21).
Chi volesse capire l’atteggiamento fondamentale di Soldati verso il cristianesimo, il suo inesausto muoversi nella contraddizione di una fede perduta e una “scommessa” sempre in atto, dovrebbe però rivolgersi in prima istanza a quello straordinario reportage che è Un viaggio a Lourdes. Vi troverà aspre critiche alla piccineria delle «cricche cattoliche», sdegno per «l’attività terrena» e il politicismo della gente di chiesa, condanna dei credenti le cui certezze mai vacillano. Ma, improvvise come lampi notturni visti dal treno, nella mente di Soldati si aprono anche voragini metafisiche. Un esempio; Soldati è in viaggio, solo nel suo scompartimento; il treno, diretto a Lourdes, ha appena passato Nizza:
Un treno di notte, se non mi distraggo, mi fa, sempre, pensare alla morte. Ma questa volta, coricato e sballottato sulla tela fra le fragili liste, mi sentivo ancora più indifeso: un niente lanciato tra la vita e la morte […] Morire, morire così, stupidamente incredulo in un treno di credenti […] Ma tornai, per un attimo, a implorare dalla Madonna la Grazia? A chiedere perdono dei miei peccati? A credere nell’Inferno? Mi feci il segno della Santa Croce? Ebbene sì, dopo breve lotta tornai: recitai un breve atto di contrizione, e feci il segno della Croce. Superstizione, debolezza, mi dissi l’indomani, col sole. Credo! Alcuni lettigari portavano un distintivo all’occhiello, una piastrina smaltata dov’era scritto a lettere d’oro: Credo! Ma noi non sappiamo quello che pensiamo davvero. Molti credono di credere, e invece non credono; e molti credono di non credere, e invece credono (Soldati 2011a, p.239)
Date queste premesse si potrà comprendere lo shock – personale e culturale – di Soldati quando, il 13 febbraio del 1929, a Patti lateranensi firmati, Papa Pio XI definì Mussolini «l’uomo che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare». Soldati, e non solo lui, ebbe l’impressione che «il regime fascista sarebbe durato all’infinito». L’antifascismo di Soldati è, dicevo, un antifascismo culturale, che era andato precisandosi negli anni universitari grazie alle amicizie con Gobetti e Cecchi, lo stesso Cecchi che aveva, nel 1925, firmato il Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce. Più di tutti, però, contò ancora una volta il maestro Lionello Venturi, così ricordato:
non aveva, certo, l’affascinante fantasia filologica di Bartoli, né la finezza critica e moralistica, altrettanto affascinante, di Neri: ma, come impegno umano e come coscienza politica, li superava di gran lunga ambedue […] Di fronte al fascismo, se Bartoli era, al massimo, un Don Ferrante, e Neri un Don Abbondio, Lionello pareva quasi un Cristoforo (Soldati 1967, p.117).
D’altro canto, il temperamento di Soldati rifugge da ogni seriosità da «partito d’azione», e la sua non sarà mai un’opposizione politica attiva. È un’opposizione che si sfoga, al massimo, in azioni repentine e vandaliche, come quando Soldati e Bonfantini «indignati e tremanti, andarono di notte a schizzare di vernice rossa l’effige di Mussolini stampata con un tampone in bianco e nero ad altezza d’uomo per tutte le vie di Torino» (Grassi 1983). Non è un caso, che l’incontro con Piero Gobetti avesse suscitato nel giovane Soldati sensazioni contrastanti: accompagnato da Noventa nel «mezzanino indimenticabile» di Gobetti, egli prova «una sensazione terribile, di grandissima ammirazione, ma al tempo stesso di distacco» (Noventa 1986, pp.15-16). Aggiungerà poi: «la vera grandezza include sempre una certa ‘grazia’ – e la grazia non è certo la specialità degli azionisti» (cit. in Falcetto 2011, p.LXXVIII). E la ‘grazia’, qualità settecentesca quant’altre mai, è certo anche la chiave di volta di tutto Soldati. Grazia come sprezzatura dell’intelligenza; come misura della vita. Una grazia che Soldati dispiega a piene mani nell’arte anche a costo, talvolta, di apparire ‘facile’ (ma facile nel senso di frivolo Soldati non è mai), e grazia come atto d’amore per la fuggevolezza della vita. Grazia come – e siamo ancora in pieno Settecento – amore del movimento.
E ritorniamo così da dove siamo partiti, a quel 1929 in cui Soldati sente, come scriverà più tardi, che la soluzione alle sue difficoltà esistenziali (il complesso rapporto con la madre) e politiche (l’opposizione al fascismo) può venire solo da una fuga. Soldati ha «solo bisogno di toglier[si] dai piedi» e si imbarca per l’America (Soldati 1967, p.119); si imbarca per l’America e trova se stesso; trova, cioè, la dimensione psicologica fondamentale della sua vita e della scrittura: la lontananza. Una lontananza che prescinde dal luogo in cui si è, poiché è «nella mente, una nuova forma, una nuova categoria» (Soldati 2011, p.11). Da quel primo viaggio, la lontananza sarà, per Soldati, la condizione irrinunciabile dell’esistenza; sarà, come nelle prime pagine di America primo amore, «un avvertirsi, sempre e comunque, lontani» (Ivi).
Lontananza come malinconia, ma anche come strumento di conoscenza del mondo. Non – o non solo – del mondo lontano, dell’esotico, bensì del familiare: «Non capisce, forse, non ama il proprio paese – scrive Soldati – chi non l’ha abbandonato almeno una volta, e credendo fosse per sempre» (Ibid., pp.11-12). È grazie alla scoperta di questa «lontananza come condizione umana» che America primo amore resta un libro aurorale e magnifico, irripetibile nella produzione di Soldati, e la vera matrice di tutta la sua scrittura.
Se Soldati è stato, per anni, poco amato dall’accademia e quasi bandito dal canone novecentesco, è proprio per questa sua ‘grazia’ di chi guarda tutto, e anche sé stesso, ‘da lontano’; una grazia che in America primo amore è anche lo stato di grazia di una prosa che fa sembrare semplice e naturale ciò che semplice non è. In realtà, come hanno mostrato le finissime indagini filologiche di Salvatore Silvano Nigro, l’apparente semplicità e naturalezza di stile nascondono, in Soldati, una perdurante angoscia di stile. Ovvero: la naturalezza, è il risultato, il punto d’arrivo di una ricerca e di un labor limae tutt’altro che scontati. Altrettanto si dica – e le differenti edizioni di America primo amore sono lì a dimostrarlo – della costruzione del libro che, lungi dall’essere immediata o cronachistica, tende invece a costruire una narrazione estremamente, e finemente, strutturata. Ma la peculiarità stilistica di Soldati è stata fissata una volta per tutte, mi sembra, da Pasolini, che ha parlato di una scrittura «fraterna». Una scrittura di fronte alla quale il lettore si trova immediatamente a suo agio: mai difficile eppure raffinatissima. Una citazione:
È noto il gioco, il giocherello: se vogliamo usare una parola più moderna, il test: che si fa tra letterati, o in compagnie dove i letterati, mescolati alle signore, prevalgono: e che si fa quasi sempre a tarda notte, quando si è stanchi di discorsi troppo impegnati e, in fondo, non troppo seri. Ecco il test: “se tu dovessi partire per un’isola deserta, e passarvi il resto della tua vita: e se ti fosse concesso di portare con te soltanto dieci libri: quali libri porteresti? (Soldati 2011b, p.781).
In realtà, poco più avanti, Soldati rende la scelta ancora più ardua, limitandosi a un libro, uno soltanto, il «libro preferito e unico: da leggere e rileggere sempre, lungo tutta la propria vita» (Ibid., p.782). È noto come, alla stessa domanda, rispose, e argutamente, Umberto Eco: l’elenco del telefono, come sorgente di infiniti personaggi da immaginare. Era, questa di Eco, sicuramente una risposta arguta, ma davvero poco più che arguta. Nulla ci diceva, cioè, sulla letteratura, o forse, addirittura, solo la sua irrilevanza. La risposta che Soldati dà in questa breve nota d’occasione – nota che è già, in realtà, l’analisi interpretativa di tutta l’opera, nonché una cristallina dichiarazione di poetica – è invece serissima. Sentite: «Penso che, in un lungo viaggio o anche sull’isola deserta del test […] io porterei l’Ariosto». Ariosto, ovvero il «poeta dell’Umanità» che dispensa una lezione capitale: che «la nostra letteratura non è tutta sublime e inaccessibile, perché ha almeno un libro sublime proprio per la sua travolgente umanità». Il passo sarebbe da citare per intero, ma si legga almeno quest’altro punto saliente:
con la memoria e con la buona volontà, riuscirei a ricostruire pazientemente frammenti abbastanza numerosi di Dante, di Petrarca, Tasso, Foscolo, Leopardi, Baudelaire: e questi frammenti mi darebbero un’idea precisa delle qualità, dell’altezza di quella poesia. Ma l’Ariosto, no. E non perché, nell’Ariosto, non esistano pezzi stupendi e anche sublimi. Ma perché la qualità più profonda, l’essenza di quei pezzi e di tutto la poesia dell’Ariosto è nel loro incalzare e concatenarsi, come i successivi paesaggi di un grande fiume serpeggiante, o come il fluire stesso, e la bellezza la tragedia il mistero l’avventura la dolcezza la crudeltà della vita umana» (Ibid., pp.782-83).
Leggere passi slegati dell’Orlando furioso – continua Soldati con una metafora tutta fisica e quotidiana, come gli è usuale, e luminosissima – sarebbe come fare un’ascensione in montagna con una seggiovia, mentre «chi è alpinista sa che la gioia di un’ascensione è proprio nel lento, attento, paziente progredire […] così che quando arriviamo alla vetta, ci pare di possederla, di conoscerla nella sua realtà: perché ne abbiamo misurato l’altezza e guadagnato a poco a poco l’aere inebriante con le lunghe ore della nostra marcia». Il concetto-chiave è qui «ci pare di possederla» (Ibid. pp.782-83). In effetti, ci pare di possedere cosa? la vetta, certo, ma anche la poesia dell’Ariosto e, soprattutto, la vita. La scrittura di Soldati, la sua profonda “umanità” (la sua qualità «fraterna» per Pasolini) è qui, in questa idea che la letteratura esista dopo e per la vita, per darci l’illusione che sia possibile – almeno un istante – comprenderla, possederla. Il concetto di lontananza del quale ho parlato prima acquista, così, nuova luce e nuovi significati: l’occhio che guarda non può mai essere troppo vicino al suo oggetto, altrimenti non vede nulla; per vedere la città a fondovalle è necessario salire sulla vetta. Per conoscere – e per comunicarci questo sapere – Soldati ha quindi bisogno di porre un diaframma tra sé e il mondo che ama e vuole conoscere. Un primo elemento di lontananza, quello fondamentale e ineliminabile, è quell’«avvertirsi, sempre e comunque, lontani» scoperto nel primo viaggio americano; il secondo elemento di distanza è, ovviamente, la scrittura stessa, che non è l’esperienza del mondo ma la sua descrizione. Spesso, però, Soldati ne aggiunge un terzo: non è raro, infatti, che l’io narrante riporti il racconto di un altro, di un amico, vero o finzionale poco importa; è il caso, ad esempio, degli Anni del Corconio o dei Racconti del maresciallo. Attraverso questo espediente, Soldati mostra non tanto l’evento in sé bensì la sua rappresentazione, e allude così anche a una qualità essenziale del mondo umano: il suo essere, shakespearianamente, sempre teatro. In effetti, più ancora che registrare cronachisticamente i fatti, Soldati mira a indagarne le connessioni emotive e psicologiche con la vita dell’uomo. In questo, la scrittura di Soldati è essenzialmente ricordo: mentre si avvicina emotivamente al fatto narrato, allo stesso tempo lo analizza – se ne discosta – attraverso il rigore di un’intelligenza fortemente analitica.
Quando viaggia per raccontare, Soldati ha uno sguardo sempre a fuoco: egli tutto vede e tutto annota, del proprio io e degli altri, del mondo interiore come di quello esteriore. E da tutto prende spunto per ragionare sull’esistenza concreta dell’uomo, sul suo vivere quotidiano e i suoi sentimenti. Con uno stile in cui la ricerca del mot juste serve alla costruzione di periodi ariosi ed equilibrati, la sua prosa segue senza sforzo apparente i mille rivoli del pensiero e le innumerevoli sensazioni di viaggio; si sofferma con eguale leggerezza e precisione a notare un cinghietto da polso di «cuoio, punteggiato di bulino» o a ragionare sui misteri e le oscillazioni della fede.
D’altro canto, un tale sguardo sa sempre ritrovare l’incanto e lo stupore della prima volta: è uno sguardo che seduce perché sempre si lascia sedurre da un paesaggio verdeggiante, da una parlata regionale, o dalle spalle nude e il riso vivace di una ragazza incontrata per caso e mai più rivista. Perfettamente settecentesco e libertino, per Soldati il ragionamento nasce solo a seguito della sensazione, e anzi questo (ragionamento) è già contenuto in nuce in quella (sensazione).
Potrei concludere qui. Ma se ho insistito su un Soldati settecentesco vorrei accennare ad almeno uno dei motivi per i quali Soldati è uno scritture che “resiste”, che “ci parla” ancora oggi. Da America primo amore, passando per Fuga in Italia fino e Vino al vino, fino a Ah, il mundial!, Soldati ha praticato una scrittura altamente sperimentale. Una sperimentazione che ha saputo preservare un senso vivo e profondo della nostra tradizione letteraria senza però mai cadere nell’illeggibilità e nel semplice gioco intertestuale così à la page durante qualche decennio novecentesco. Inoltre: questa differente linea della sperimentazione è tutt’altro che esaurita. I «reportages esistenziali» (Falcetto 2011, p.XXI) di Soldati mi sembrano, anzi, un esempio italiano già perfettamente riuscito di romanzo ibrido; ovvero di un romanzo che, attento al dato reale, si contamina con altre forme di prosa quali l’autobiografia, il saggio sociologico e culturale, o l’articolo giornalistico in vista di una più completa intelligenza della vita.
Mi sembra giusto concludere, allora, con un passo di America primo amore che bene mostra quel piacere – tanto più profondamente e dolcemente provato quanto più velato di malinconia – quel piacere, dunque, della vita nei suoi momenti umili e quotidiani. Un piacere, aggiungo, che la lettura di Soldati ci restituisce intatto e vivo pagina dopo pagina:
Un’altra volta, passeggiando […] capitai in un quartiere di negri. Fu la medesima ebbrezza. Avevo in tasca un quarto, rimanenza di un dollaro che il mio amico mi aveva imprestato. Entrai in una botteguccia, comprai un pacchetto di Old Gold, 10 centesimi, e un Ivory Soap, 15 centesimi. Uscii a tasche vuote; ma le sigarette e il sapone che stringevo fra le mani mi parevano, non capivo perché, un tesoro.
Erano un tesoro. Nulla come l’oggetto comune e di vile prezzo, una scatola di fiammiferi, un giornale, un pacco di sigarette, racchiude, nel ricordo, un paese che abbiamo lasciato […] Il migliore souvenir di viaggio è un biglietto tranviario che, una mattina, rivestendo un vecchio abito, troviamo in fondo al taschino del gilet […] All’improvvisa scoperta balza il cuore, quel pezzettino di carta è una metafora concisa e straziante.
Così allora, Old Gold, Ivory Soap, ero ancora in America. Ma chi si sente di dover partire ricorda già. Guarda intorno come se immaginasse quello che vede. E la realtà che stringe, la ama come se non la stringesse: con la semplicità negata a qualunque possesso, e unica del desiderio (Soldati 2011, p.212).
Questo saggio è stato pubblicato originariamente in “Lettera zero 2” (2015).
Bibliografia
Soldati, Mario. Prefazione alla quarta edizione, in Id., America primo amore, Palermo, Sellerio, 2003.
Soldati, Mario. America primo amore, in Id., America e altri amori, Milano, Mondadori, 2011.
Soldati, Mario. Un viaggio a Lourdes, in Id., America e altri amori, Milano, Mondadori, 2011a.
Soldati, Mario. Notes, saggi, recensioni. Letteratura, in Id., America e altri amori, Milano, Mondadori, 2011b.
Soldati, Mario. Rami secchi, Milano, Rizzoli, 1989.
Soldati, Mario. I panni neri. Atto primo (con una lettera dell’Autore), “Paragone”, a. XVIII, n.110/30, agosto 1967.
Soldati, Mario. Le sere, in Id., Sere, Milano, Rizzoli, 1994.
De Blasi, Giorgio, in Mario Bonfantini. Saggi e ricordi. “Lo Strona”, Valstrona (Novara), 1983.
Falcetto, Bruno. Mutuare visuali, in Soldati, Mario, America e altri amori, Milano, Mondadori, 2011.
Grassi, Manuela (a cura di). Garofano e gelati la ricetta di Soldati, “L’Europeo”, 9 luglio 1983.
Lajolo, Davide. Conversazione con Mario Soldati in una stanza chiusa, Milano, Frassinelli, 1983.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).