Perché ha cominciato a scrivere? C’è un’immagine nella sua memoria che ricollega al momento in cui ha deciso di voler diventare scrittore?
Era un tardo pomeriggio del 1977 e stavo vedendo in televisione I programmi dell’accesso. Veniva mostrato un intervento su un gruppo di disabili da parte di un illuminato operatore sociale, che insegnava testo e sottotesto di Felicità raggiunta…, una lirica dagli Ossi di seppia di Eugenio Montale. Rimasi folgorato da quella poesia. In breve riuscii a leggere Montale, andando di pari passo con Papillon di Henri Charrière, pensavo a come si potessero unificare quei movimenti e quelle immagini in prosa e in versi. Da lì a due anni, fu determinante l’ascolto de L’era del cinghiale bianco di Franco Battiato, fu pura seduzione testuale.
Ci racconti il suo rapporto con la scrittura e com’è cambiato nel tempo. Cosa significa scrivere oggi, e cosa significava agli inizi? Cos’è rimasto, cos’ha perduto, e cos’ha guadagnato?
Ho una formazione prevalentemente poetica ed è in poesia che speravo di depositare testi. Tuttavia, poiché tra poesia e prosa esiste un continuo, non ho mai smesso di ragionare testualmente secondo canoni estranei a quelli poetici. A metà anni Novanta provai a lavorare sulle narrazioni, in un frangente in cui mi sembrava che fosse intollerabile ciò che nella narrativa allora contemporanea andava non facendosi: mi pareva che fosse bloccato il processo di traduzione linguistica del movimento fantastico. Mi sono trovato a lavorare con generi che, ai tempi, erano considerati periferici o antiletterari. Mi sono quindi spostato in una zona che, per mie idiosincrasie, costituisce un’avanguardia, nel tentativo di stare in quel continuo prosa-poesia e di abolire qualunque steccato di genere.
Qual è il suo pubblico ideale? A che lettore pensa quando scrive?
Non penso ad alcun lettore e ho un pubblico minimo dal punto di vista effettivo, mentre non ne ho alcuno idealizzato.
Che relazione c’è tra la scrittura e la società, con le sue influenze politiche e culturali? E come convivono questi aspetti nella sua produzione letteraria?
Si misurò secondo intervalli più o meno lunghi un simile rapporto, nella nostra tradizione. Dante o Tasso o Foscolo o Leopardi o Carducci o Pascoli o D’Annunzio o Fortini o Pasolini: sono molte opzioni ed esiti diversi di una simile reciprocità tra realtà storica e lavoro letterario, che sortirono effetti secondo durate variabili. Al momento non credo esistano rapporti espliciti e risultanze storiche del lavoro letterario. Si potrebbe dirlo di Houellebecq (ma anche del DeLillo di Mao II, tanto per fare un nome e un titolo) ma non è così, è piuttosto il contrario: ciò che viene trascelto come “storico” nel momento presente forgia parte della materia di una narrazione. È per me ovvio che sempre, prima e durante e dopo il lavoro di scrittura, ciò che faccio ruoti intorno al nucleo politico, che non sempre è storico. Non sto nemmeno a pensare a una prospettiva di influenza del letterario sul mondo, tantomeno in un passaggio come l’attuale. D’altro canto, la società non influenza in nulla l’intenzione e la pratica silenziosa che, per quanto mi riguarda, impulsa alla scrittura e che sono di carattere metafisico. Ciò non significa che non sia immerso nello storico. Quanto al lavoro intellettuale e alla militanza che in esso è implicita, il carattere è per l’appunto quello di una testimonianza e di un’esposizione continua della propria voce.
In che misura gli incontri (con altri scrittori, poeti, intellettuali) hanno influito nella sua poetica?
Sono stati decisivi. L’incontro con poeti e artisti e intellettuali in giovane età si è rivelato determinante. Meno che ventenne, avvertii come formazione decisiva l’incontro con Antonio Porta e con certo situazionismo di stanza a Milano. Poco più che ventenne, ebbi a lavorare a Poesia, la strepitosa e storica iniziativa del visionario editore Nicola Crocetti, e si trattò di un autocondizionamento letterario pervasivo, sia nella mia vita di allora sia in questi giorni. L’amicizia col grande poeta italiano Mario Benedetti e la traduttrice e teorica Donata Feroldi ha completato e rilanciato l’educazione al testo.
Quali autori l’hanno formata maggiormente e com’è arrivato a loro?
Per quanto concerne la poesia, come raccontavo sopra, è Montale l’incipit. Agrammaticalmente, segue Milo De Angelis, salto subito alla contemporanea. Rubai il suo Somiglianze in una libreria in centro a Milano, non avevo i soldi, proprio mi resi responsabile di furto. Ci delirai sopra anni. La poesia di Andrea Zanzotto fu un altro ladrocinio, di cui vado molto fiero, che è per me una pietra miliare della mia storia personale. Paul Celan, Thomas Stearns Eliot e Wallace Stevens accompagnarono una formazione irregolare e piuttosto furibonda. Sulla scorta della filosofia, che era poi la materia centrale in cui spesi gli anni universitari, la prosa veniva assorbita attraverso griglie non precipuamente stilistiche. Non esiste un prosatore che mi abbia squassato come hanno fatto i poeti, a parte Victor Hugo e ovviamente Franz Kafka, i quali non sono affatto prosatori. Da qualche anno mi colpisce a fondo Don DeLillo, che non mi squassa, poiché nulla più mi squassa: agisce nel gelo, agisce a freddo.
La storia è piena di libri rifiutati dalle case editrici e di libri che non sono stati immediatamente compresi dai lettori. Lei che rapporto ha con il rifiuto? E in che modo è cambiato nel tempo? Quanto conta, oggi, l’apprezzamento dell’opera nel suo approccio al testo, e che rapporto ha con il mercato?
Letteralmente: non me ne frega niente.
Che rapporto ha con il mondo letterario? Esiste ancora un luogo ideale di incontro/scontro tra autori?
Attualmente, no. L’unico “luogo” di elaborazione letteraria e pensativa e politica è secondo me la zona in cui il collettivo Wu Ming ha concentrato la consistenza del proprio discorso, cioè il blog Giap!. Poi esistono, come sempre, le mafiette, i gruppetti, i dispettucci, i nome à la page, i piccoli irrilevanti protagonismi, le egoità, le gomorre e le suburre, la grottesche élite, le opposizioni di stampo populistico ma senza popolo, le masturbazioni collettive, la gricia umana, il residuo di ciò che fu editoriale, la comica involontaria, la parodia in atto, la mostruosità piccina, l’autolegittimazione del milanese imbruttito, la finzione che fa tirare innanzi una povera esistenza, l’egoità che merita una casellina nel DSM, l’arrivismo e l’ingiustizia. Tutto ciò accade anche nell’ingegneria aeronautica. Non sono tuttavia pessimista: l’elaborazione è collettiva ed è enorme, non esiste forse più il paradigma del “luogo”, ma il discorso prosegue, ha vita. Non è che non lavori per attrezzare un ulteriore luogo, sia chiaro, lo sto persino facendo in queste ore. Ciò che serve è il rigore: in Italia a mio parere manca il rigore, c’è uno studio grottesco e al massimo uno specialismo malignetto, condizionato da meschinerie e partitelle di pallone letterario, di cui francamente non mi occuperei nemmeno se mi pagassero per farlo.
In che stato si trova la letteratura italiana oggi? Vede delle mancanze rispetto al passato, trova che ci siano delle fioriture interessanti?
A me l’attuale letteratura italiana fa schifo. Bisogna però contestualizzare geograficamente questa reazione: mi fa schifo l’intera letteratura mondiale. Gli Stati Uniti non regalano al mondo un grande autore da più che un decennio. Se dovessi lavorare a un’antologia della prosa italiana, sarei in grande imbarazzo: non c’è lingua, ci sono piuttosto tic, si cita una visionarietà che non è per nulla visionaria, uno sperimentalismo che non è sperimentale, un illuminismo che è pura inconsistenza. In poesia le cose vanno meglio, ma non per le ultime generazioni, che a questo punto si rinnovano ogni cinque anni: qui io vedo una nebula testuale, ma assolutamente non autoriale. Mi pare che la consapevolezza linguistica, storica, politica, immaginale in Italia sia o sfumata o praticata irregolarmente o misinterpretata. Ciò stona con il fatto che, a mio modestissimo parere, noi italiani disponiamo del migliore tra i filosofi viventi, Giorgio Agamben, e di uno dei massimi poeti viventi, Milo De Angelis. Per quanto concerne la narrazione, il deficit che vedo è di ordine poetico: i prosatori non conoscono, non sento e non immaginano la poesia – e così non si va da nessuna parte, non è che hai Truman Capote senza che Capote studi Emerson o Frost.
E per finire, un gioco: se potesse scegliere solo tre libri da consigliare, quali sarebbero?
È un gioco impossibile e che mi crea imbarazzo. Diciamo Moby Dick di Melville, L’uomo che ride di Hugo e tutto Kafka.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).