Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto.
Alessandro Manzoni
I promessi sposi, cap. VIII
Era il millenovecentonovantotto. Io avevo quattordici anni. Frequentavo il quinto ginnasio. Leggevo poesie, tutti i giorni, con la metodicità di una buona medicina. Scrivevo poesie, brutte forse, ma mi piaceva molto. Ero convinta che ogni momento dell’esistenza fosse, nella sua sostanza più profonda, letteratura, perché l’essenza della letteratura era quel magma vivo che scorre dentro le cose, a volte inafferrabile, a volte pericoloso e ustionante, a volte assopito, ma comunque esistente. Era il millenovecentonovantotto, e credo fosse una domenica sera di novembre un po’ triste a Palermo. I miei genitori erano in procinto di separarsi. Mia nonna sarebbe morta alcuni mesi dopo, un pilastro della mia esistenza che prima di crollare del tutto a causa della malattia, aveva smesso di riconoscermi. Mi guardava, ma non sapeva di chi fossi. Il buio completo nella sua memoria mi rivelava che il più terribile dei rifiuti non è il diniego ma è ignorare l’altro. Avrei scoperto che la mente umana, proprio come l’anima, è un meccanismo complesso che di lineare non ha mai nulla, e che i ricordi, le immagini, le emozioni, i pensieri, i valori, tutto ciò che ci definisce come uomini in un mondo di altri uomini, può mutare improvvisamente. Che nulla è solido se è umano. Che nulla è definitivo, e nemmeno il bene.
Andai a casa di una mia amica di allora, una di quelle presenze che entrano solo nell’adolescenza per il tempo rapido di un anno o due e di cui riesco a stento a delineare il volto, ma, per esempio, ricordo perfettamente il portone a vetri smerigliati di casa sua, l’odore dolciastro di cipolla nella sua cucina verde pastello, l’ossessione di sua madre per un certo quadro a olio che spadroneggiava in salotto (un ombroso paesaggio marino del ‘700) e per il quale, sosteneva la signora, ci sarebbe sicuramente stata una guerra fratricida per averlo in eredità dopo la sua morte.
Eravamo un gruppo di sette o otto amiche. Un gruppo molto mal assortito, come avrebbe poi dimostrato il tempo poco dopo, quando i contatti tra noi si sarebbero sciolti rapidamente. Il film dell’anno era Armagaddon. Ne parlavano tutti. Per questo, il film della nostra serata sarebbe stato Armagaddon. Bruce Willis, Ben Affleck e altri devono salvare la Terra dalla minaccia un gigantesco meteorite. La tragedia imminente viene sostanziata dalla possibile distruzione della storia d’amore tra Liv Tyler e Ben Affleck. Si amano ma ci sono due ordini di ostacoli: Bruce Willis, il padre di Liv Tyler, non benedice questa unione; e moriranno tutti se l’asteroide non viene fermato. Ovviamente il mondo viene salvato e l’amore trionfa. Finita la visione la mia amica senza volto riaccende le luci. Occhi rossi e lucidi, guance rigate. Tutte hanno pianto. Tutte, tranne me. Ma l’evidenza non basta a confermare la cosa, quindi una di loro sente impellente e necessaria la domanda:
Simona, tu non hai pianto?
No. Mi limito a rispondere, senza cogliere lo sviluppo del disegno che si sta formando.
Come hai fatto a non piangere? Ci siamo commosse tutte. E si gira verso le altre guardandole, nella conferma retorica dell’esattezza della propria frase.
Non saprei, non mi ha commosso niente del film. Non ho pianto e basta.
Assurdo! Fa’ lei, ancora scossa dall’unica lacrima che Bruce Willis padre versa mentre saluta Liv Tyler figlia dallo spazio cosmico del suo eroismo, ancora scossa dall’inaspettato ricongiungimento dell’innamorata Liv Tyler con l’innamorato Ben Affleck, ancora scossa dal patriottismo americano che salva il pianeta terra e le nostre vite tutte, e aggiunge: È perché sei arida, per questo non piangi.
Aveva reso immediatamente assoluto e senza tempo, com’è senza tempo l’eterno presente contenuto in “non piangi”, un fatto che riguarderebbe invece il tempo specifico di quel film specifico in quella specifica domenica di novembre dei miei specifici quattordici anni.
La mia risposta fu che possedevo senso critico, per quello, e non perché fossi arida, non avevo pianto. Una risposta esatta, una considerazione al limite dell’ovvio.
Ero profondamente scossa non perché mi sentissi incompresa, la comprensione degli altri aveva fortunatamente già smesso di interessarmi. Ero scossa perché mi sentivo giudicata. Il tribunale del pianto contro l’imputato senza lacrime. Mi sono alzata senza fare scenate. Ho preso il cappotto. Ho salutato e sono andata via giurando a me stessa che non avrei mai più avuto a che fare con loro.
Allora ero molto più forte di adesso, e molto più capace di adesso di rendere reali quel tipo giuramenti un po’ infantili.
Quello che è accaduto allora con Armagaddon, oggi accade frequentemente con i testi. Esiste un’immensa schiera di libri che ingaggiano un particolare rapporto con il lettore, sostanzialmente fondato sull’emotività.
Che testi sono? Di che emotività si tratta? Sono letteratura?
Definire cos’è la letteratura è un compito immenso e, direi, soprattutto si tratta di un fardello privato. Definire cos’è in assoluto la letteratura presta il fianco alla stupidità e alla menzogna. Ciò che interessa sempre tutti noi, sia che scriviamo o leggiamo o guardiamo un’opera d’arte o la ascoltiamo, è che la spinta esterna (libri, quadri, sculture, una musica o un film sono oggetti estranei a noi stessi) si trasformi in una spinta del tutto interna che riguarda il nostro Io profondo, la nostra anima, il cuore e la mente. Riguarda noi stessi in un modo talmente personale che ogni cosa la definiamo sempre rispetto a noi. Siamo soggetto e oggetto allo stesso tempo. E questa è una forza potentissima ma anche un’enorme debolezza. Gli sciocchi credono che il proprio modo di vedere il mondo sia lo stesso per tutti, una stortura questa, che fa innalzare giudizi e barricate di idiozia rispetto alle quali le scelte non sono tante, anzi sono davvero pochissime: difendersi o lasciare correre. A quattordici anni avrei proteso per la prima, poi ho disimparato a farlo e ho spesso proteso per la seconda.
Ma allora come adesso le tendenze (artistiche) erano riconducibili a due grandi filoni: da una parte il filone emotivo, dall’altra quello razionale. Volendo banalizzare ancora di più: da una parte il filone emotivo e dall’altra quello serioso (perché ridicolizzare la serietà e il rigore significa sempre trasformarli nel loro doppio farsesco). Puntare alla pancia del lettore (o dello spettatore) diventa una caratteristica così importante da trasformarsi in stile, un modo di fare letteratura (sorvolando sul fatto che il termine letteratura qui è ovviamente usato in modo improprio). Puntare alla pancia, anche se il cuore si trova più in alto, e lì, nella pancia, ci sono invece pancreas, intestino e stomaco, fegato ecc… tutti organi che, tecnicamente, sono legati al consumo energetico e non a quello emotivo.
Un dato che si può notare facilmente è che al centro dei libri scritti puntando all’emotività, e quindi i libri considerati emotivi, c’è sempre l’amore. Niente è più emotivo dell’amore. Niente è più doloroso di una storia d’amore che finisce, di un amore rifiutato, di un amore inseguito. Davvero niente è più doloroso?
Nessuna fine di una storia è stata per me più dolorosa di quando ho capito che con ogni probabilità io sarei stata per sempre un’estranea per mio padre. Nessun amore non corrisposto è stato per me più doloroso dei tanti rifiuti ricevuti sul mio secondo romanzo. Nessun ex è stato per me più importante di mia madre. Nessuna dichiarazione d’amore in un momento sereno è stata per me più importante della lettura di Nel sonno di Vittorio Sereni in un momento per me complicato. È una lista personalissima e per questo è una lista nella quale non è semplice che qualcun altro possa ritrovarsi. Ma la grande sfida della letteratura è rendere universali i particolari. Il contrario, invece, ha sempre un retrogusto banale.
I libri non salvano, sono convinta invece che i libri disvelino qualcosa che ci riguarda profondamente. Che era già nostro, e che riemerge.
Sono in mare con Celan. Sono in Germania insieme a Sebald. Sono nell’istituto Benjamenta con Walser. Sono con Rosemary, nel Bronx di De Lillo. Non posso pretendere di essere Celan, di essere Sebald, di essere Jakob von Gunten o Rosemary. Li amo perché non sono io. Li amo perché mi permettono di accantonare il mio io per un po’. E allo stesso tempo, mentre leggo e seguo le loro vicende, il mio io è amplificato, decuplicato, risuona di me stessa come mai prima. Sono il tempo che passa, i miei sogni e le mie colpe, sono le cose che ho visto, che ho amato e che ho odiato. Sono tutte le idee che ho cambiato e molto di più.
Non è forse emotivo tutto questo?
È razionale, certo, ma è anche emotivo. Non esiste alcun dualismo tra mente e corpo, tra corpo e anima, tra anima e corpo. Esiste Kant, è esistito Cartesio, non esiste, adesso, Cartesio.
C’è spesso, dietro la bandiera dell’emotività (sempre legata all’affetto e all’amore), la tendenza a essere insinceri. Come dicevo prima, i giudizi sommari e assoluti portano con sé sempre la menzogna. Le infinite declinazioni dell’amore non possono essere banalizzate nei soliti sei o sette schemi, o meglio, è possibile che ciò accada perché in effetti accade, ma io, come lettore, ho solo una responsabilità e cioè devo sapere cos’ho di fronte.
Esiste una scala di qualità da cui non si può prescindere. Per esempio esiste una differenza tra Dylan Thomas e Alda Merini. Esiste, come esiste la realtà tangibile. Ci sono lettori che la accettano, che ne sono consapevoli. Ci sono lettori che la negano proprio in virtù del fatto che non ne sono consapevoli: se non lo conosco, allora non esiste. E in più: se non lo conosco, se è necessario uno sforzo di scoperta e di riformulazione delle mie credenze sul mondo, allora mi accontento di ciò che mi è familiare, e il poco che mi è familiare lo trasformo nel mondo intero. E questa mi sembra una tendenza abbastanza recente.
E questa tendenza ha a che fare con la grande considerazione che il mondo contemporaneo riserva alla sfera emotiva elevandola ad assoluto criterio di giudizio. Se ne colgono gli effetti nella produzione cinematografica e letteraria. È nell’emotività che il testo ancora funge da connettore e unificatore sociale, cosa che non riesce più a fare sul piano culturale. L’emotività prima di tutto, emozionare prima di tutto. Ma quale emotività?
Il racconto piano di una gamma sentimentale già decodificata, prima ancora che la lettura cominci, è una delle attrattive maggiori dei libri emotivi. Il rapporto del lettore al testo prescelto è sempre un rapporto di perfetta corrispondenza: l’autore usa gli artifici letterari per “produrre” un’emozione e il lettore, nel pieno rispetto del gioco delle parti che non mette mai in discussione, risponde allo stimolo provando proprio quel tipo di emozione sollecitata.
Affinché la corrispondenza funzioni sempre, chiunque sia il lettore e qualunque sia il suo stato emotivo specifico, è necessario che il testo non apra ad altre possibili emozioni. È un sistema binario che per funzionare ha bisogno di essere solido, granitico, e quindi cieco anche agli stessi impliciti richiami della trama. Non è solo una questione di semplicità del testo, è una questione di chiarezza nell’obiettivo. Divagazioni, lungaggini, riflessioni interne, tutte le strade secondarie che arricchiscono la storia e complicano il carattere dei personaggi sono assolutamente da evitare perché deconcentrano dal risultato finale: produrre un’emozione in chi legge (apprensione, ilarità, il ricordo di un amore ecc…). L’identificazione è la conseguenza più desiderata, ma non la più scontata. Il processo di identificazione (il fatidico: parla di me) in una storia piana, il cui sviluppo segue solo la via della trama principale senza perdersi in snodi secondari o divagazioni (mentre di sole divagazioni è praticamente fatta la nostra vita), in cui la lingua è semplificata e funzionale (mentre solo di lingua complessa e stratificata è fatta la nostra unica possibilità di arricchire la conoscenza di noi stessi e del mondo) non coinvolge chi ricerca in un libro la propria complessità e la propria diversità. Ma coinvolge, invece, chi nei testi cerca una formula facilmente enunciabile di sé stesso, una definizione unica, capace di esaurire ciò che si è nella rapidità di un paio di frasi, cioè una sicurezza su cui far poggiare la propria personalità. E in più, sotto il vessillo dell’emotività. In tanti possono dire di qualcosa che “mi ha emozionato” o che “mi piace”, ma non tutti sanno argomentare in modo ragionevole la natura di quell’emozione e di quel piacere. E all’incapacità di un’argomentazione consapevole del proprio giudizio si unisce la tendenza a essere insinceri su un doppio piano. Da una parte la menzogna riguarda il proprio modo di sentire, il personale modo di emozionarsi, insomma, il proprio universo emotivo. Leggo qualcosa perché mi interessa e perché mi riguarda. Di certo il fatidico Fabio Volo riguarda superficialmente molti perché è una cronaca della vita comune. A una generazione intera accadono lo stesso tipo di vicende che interessano il protagonista di Il tempo che vorrei. Ma siamo sicuri che il piano emotivo così semplificato sia davvero universale? Sono invece convinta che ciascuno viva il precariato, la difficoltà a impegnarsi in una relazione, la paura dell’abbandono all’altro (i temi del libro) in modo del tutto personale, e in modo molto più complesso rispetto a quello presente nel romanzo. Si è insinceri sul modo in cui si guardano i propri sentimenti, nell’inconsapevole tentativo di adattarli a ciò che si legge, di semplificarsi in ciò che si legge, di svagarsi e disimpegnarsi sempre in ciò che si legge.
Ma l’essere insinceri riguarda anche il giudizio espresso che spesso, come per il caso di Armageddon, non ha che fare con l’opera in sé ma con il suo fruitore. Chi legge Fabio Volo è uno stupido? Ovviamente no. Ma allora perché chi non legge Fabio Volo deve essere considerato presuntuoso o snob?
L’esempio di Fabio Volo è molto facile, mentre esistono mille altri esempi più complessi. Vie di mezzo libresche che la vox populi ha proclamato capolavori in virtù della loro carica emozionale e sui quali è molto difficile esprimere un giudizio senza che schiera degli emotivi non si sollevi contro.
Ed essere insinceri riguarda ovviamente anche questa persistente e stolida volontà di allinearsi a ciò che è percepito come pensiero dominante, dimenticando sé stessi, dimenticando il proprio gusto. Perché anche il gusto richiede studio e tempo. Ciò che amavo a quattordici anni oggi non mi piace più, e non solo perché io sono cambiata ma perché il mio complesso universo emotivo e il mio immaginario sono cambiati. Per questa ragione è senz’altro molto più semplice giudicare secondo la pancia, giudicare secondo “le emozioni”.
La diffidenza verso i testi rigorosi è uno degli ostacoli più alti che uno scrittore oggi è costretto ad affrontare. Perché si parte dal presupposto insolente e cieco che i testi rigorosi non “parlino” all’emotività. Forse è vero se ci limita all’amore raccontato nei suoi aspetti più superficiali e piani, ma il romanzo non può essere solo questo come l’emotività non può essere solo quella amorosa. Non è forse emotiva la pietà? Non è emotivo l’odio? Non è emotiva la rabbia? Non è emotiva l’invidia? Non è emotiva la misericordia? Non è emotiva la sensualità? Non è emotivo il dolore? Non è emotivo il senso di colpa? E non sono infinite le sfaccettature di queste emozioni?
Perché sono arida se non piango per Armageddon, e non è arido, invece, chi non si abbandona alla visione di The tree of life?
I libri letti aiutano a comprendere una cosa semplice ma difficile da digerire, e cioè che tutti noi siamo capaci di odiare, di uccidere, di amare, di provare pietà, invidia, rabbia, e che i sentimenti umani non sono così incasellabili e comprensibili, che il bene e il male sono compenetrati l’uno dentro l’altro, che le parole possiedono una forza enorme, che le parole non possiedono nessuna forza. Che possiamo provare a essere chiunque e in qualunque modo, e che saremo sempre noi stessi.
Bisogna essere colti per sapere chi sono gli uomini, chi siamo noi. Bisogna essere colti per sapere cosa provano gli uomini, e noi cosa proviamo. E bisogna essere empatici per comprendere le cose del mondo, e quindi noi stessi.
Chi, consapevolmente o no, si fa sostenitore solo del piano emotivo della narrazione crede spesso di poter vantare maggior diritto di giudicare chi non lo fa. La schiera di emotivi giudicanti mi spaventa più di ogni altra cosa perché è impossibile incrinare le fondamenta delle loro certezze. L’emotivo giudicante non dimentica mai chi è, mentre io sono disposta a farlo spesso perché questo è l’insegnamento più persistente dei libri: mettersi da parte, non credersi tanto importanti, non credersi sempre i protagonisti della storia.
Ho paura di questa emotività rabbonita e diluita perché ho paura di chi sceglie la strada della spersonalizzazione. Ho paura di chi resta comodo nel dire “noi” e non è disposto a dire “io”.
Uno dei recenti incontri più emozionanti (uso il termine consapevolmente) è stato con Franco Loi. Forse è vero che i poeti hanno un legame con il divino perché gli è bastato parlarmi pochi minuti per dirmi due cose fondamentali sulla mia vita, una era questa: persino Einstein, che era un uomo di scienza e credeva nella scienza, pensava che per risolvere i problemi più complessi fosse necessario intrattenere un rapporto simpatetico con la realtà.
Quando ho dei dubbi sulla strada da percorrere penso a questo, alla ricerca di un rapporto simpatetico con la realtà, e per me è questa oggi la definizione più perfetta della letteratura, e quindi della vita.
Immagine: Mike Dargas, Into the sun, 2015.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).