Dal numero 72 di «Nuovi Argomenti».
Credo che di ogni romanzo che leggiamo – mentre gli anni passano, la trama si fa sempre più opaca, il nome di alcuni personaggi si dimentica, molti episodi scompaiono completamente dalla memoria – una sola immagine, ma quella indistruttibile, sia destinata a rimanere per sempre. Magari è una immagine alla quale lo scrittore si è affidato senza pensare, o credendo che avesse un significato secondario: invece, è quella dalla quale il romanzo mai potrebbe prescindere, quella che illumina di sé tutti gli eventi che si sono succeduti e quelli che accadranno; quella in cui ogni personaggio trova la sua radice, ogni nome il suo timbro.
L’immagine-chiave, fondamentale del Giardino dei Finzi-Contini, il capolavoro di Giorgio Bassani (autore di altri libri importantissimi nella letteratura del secondo Novecento: Le storie ferraresi, Gli occhiali d’oro, L’airone) è probabilmente questa. Siamo ai tre quarti del racconto. Il narratore e protagonista delle vicende che fin qui si sono svolte, il ragazzo ebreo di Ferrara dagli occhi cerulei, studente alla facoltà di Lettere, sta lavorando alla sua tesi nella biblioteca della grande villa con giardino e campo da tennis che l’aristocratica famiglia ebrea dei Finzi-Contini – tanto aristocratica da mostrare di non voler dare troppo peso ai primi episodi di discriminazione razziale – possiede alla periferia della città. Lavora in quella silenziosa biblioteca privata, fornita di ogni libro, perché glielo ha offerto il professor Ermanno Finzi-Contini, a sua volta studioso del Carducci, di cui possiede numerose lettere.
Di tanto in tanto, Ermanno interrompe le sue ricerche e viene a trovarlo per chiedergli come va la tesi; qualche volta, dopo lo studio, l’accogliente camera di Alberto Finzi-Contini, con il grammofono e le pipe, è teatro delle accese discussioni giovanili che si svolgono, insieme al prediletto amico di Alberto, il lombardo Malnate, sulla politica, sui libri e su tutto. Però, l’epoca felice nella quale il gruppo dei “ragazzi bene” di Ferrara si riuniva nel giardino della villa per le interminabili partite a tennis e le merende, è ormai lontano. Tempi scuri colorano l’orizzonte, sottraggono al mondo – e in particolare a chi ha la colpa di essere ebreo – ogni certezza. Infine, la persona che di questa stagione spensierata era stata il faro e l’essenza, la persona che aveva illuminato la vita del narratore con i suoi capelli biondo cenere, con i suoi capricci sul campo da tennis, coi suoi bronci, le sue ambigue promesse, i suoi sorrisi: Micòl Finzi-Contini, pur essendo a pochi metri di lì, nella sua camera da letto, è infinitamente lontana. Nella gelida notte di Peshar, è vero, sotto la luna, quando, esile figuretta, è apparsa al portone della villa di ritorno da Venezia, aveva consentito di essere baciata sulle labbra. Ma poi, molto rapidamente, nei giorni che erano seguiti, si era rinchiusa dentro di sé: e, col garbo, la perfidia, il sorriso, la tragica, involontaria seduzione di chi all’amore si sottrae, aveva dichiarato, senza possibilità d’equivoco, che quell’amore, ancora prima di nascere, andava considerato concluso. Per cui, adesso, il ragazzo ebreo con gli occhi cerulei soffre terribilmente.
Un giorno, il maggiordomo della famiglia Finzi-Contini – segno nel romanzo, questo, insieme a molti altri, della dolorosa differenza sociale – gli comunica che Micòl, ammalata a letto, vorrebbe incontrarlo, e lui col cuore in gola si precipita nella sua stanza. Dove la vede, pallida, il pullover verde, il libro fra le mani, la remissione scontrosa dei malati non gravi costretti a letto; vede soprattutto il letto; intuisce le sue forme sotto le coperte. Finché, in un impeto incontrollabile, dopo poche chiacchiere strozzate, sconvolto da quella intimità imprevedibile che gli è stata concessa, compie l’unico gesto che può infrangere la distanza: con tutto il corpo le si getta addosso, si dimena in un abbraccio convulso, cerca di baciarla. Invece, Micòl rimane inerte. E, rimanendo inerte, fa sì che questa distanza, un attimo dopo l’altro, diventi una barriera insuperabile; la fa crescere nel cuore con la inesorabilità di una condanna. Poi, quando il disperato studente di Lettere si accascia sulla poltrona accanto al letto e con le mani si copre gli occhi, dice quelle tre parole terribili: «Tanto è inutile», che rimbombano nella stanza; e così, sul romanzo che comincia con una visita a un cimitero, la necropoli etrusca di Cerveteri, cade davvero una pietra tombale.
Perché è «inutile»? Cosa è «inutile»? Qual è il motivo che impedisce a Micòl di accettare l’amore, verso il quale forse era anche propensa, che il narratore le offre? Paradossalmente, forse ancora più della tragedia razziale che sta per abbattersi sul mondo e sulla comunità israelitica di Ferrara, il dramma sentimentale si pone sul proscenio del romanzo, e rimane senza risposta. È un mistero che il carattere ebraico dei protagonisti – il senso della sconfitta, quello della nostalgia per una perdita che non si riuscirà a colmare – spiega solo parzialmente. È il mistero profondo e insolubile della vita che non si coglie, che sfugge, che amiamo con tutte le nostre forze, che vorremmo stringere in un abbraccio convulso, e, insieme, come dietro una lente, dietro un vetro, vediamo passare inesorabilmente, fino a che non si allontana. Ma questo, contenuto nella breve scena della stanza da letto, è il tema centrale di tutta l’opera di Bassani: due miti occhi azzurri che scrutano la vita, nei quali, senza ragione, la vita si disperde.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).