Dal 17 novembre in libreria il n. 72 di «Nuovi Argomenti» con una sezione monografica dedicata a Giorgio Bassani, a cura di Francesco Longo. Di seguito il contributo di Flavio Santi su Bassani poeta.
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1.
Una serata tra amici. Un ameno gioco di società. Indovina chi. Chi è l’autore di questa poesia?
Brindisi per l’anno nuovo
Da oggi in poi le mie poesie voglio farle
giuro
sulla prima cosa che mi verrà in
mente sul
niente
di tutti i minuti d’ogni mia
ora d’adesso sul nulla
del mio
futuro
Un aiutino? Eccone un’altra:
Negli spogliatoi del tennis
Quest’oggi – borbotta invisibile – è meglio di
no mi
riposo
Ma domani gioco però e
con
coso
Qualcuno rompe il ghiaccio e dice “Sanguineti”. Altri “Pagliarani”. Altri ancora “Balestrini”. Insomma, tra un’ombra cinese e l’altra tira aria di Gruppo ’63.
Voi sogghignate. “No, no. L’autore delle due poesie è la Liala della letteratura italiana.”
(Ecco, prove alla mano, Bassani è stato più sperimentale di Sanguineti e di tutto il Gruppo ’63 messo insieme.)
2.
Ma riannodiamo il filo.
Bassani poeta. Anzi, dovremmo dire Bassani tout court, visto che lui stesso si è sempre definito “poeta”. Oggi una dichiarazione secca come questa “Sono un poeta, sostanzialmente un poeta” suonerebbe perlomeno curiosa. Perché? Perché i romanzieri di oggi non leggono più poesie, né tantomeno le scrivono (e si vede, verrebbe da aggiungere: vogliono tanto imitare gli americani, ma non hanno capito che probabilmente l’unico modo per dare velocità e icasticità alla propria prosa – velocità e icasticità così insite invece nella lingua inglese, mono e bisillabica – è usare le armi retoriche della poesia. L’italiano è lungo ed enfatico per natura. Lo si può sveltire solo con la poesia. Pena quella sensazione di ingolfamento, affaticamento, ingrippamento di tanta prosa italiana di oggi. Ma chiudiamo la parentesi e passiamo oltre.)
Altre dichiarazioni che colgono Bassani in piena flagranza? Eccole, sparse in diverse sedi e decenni, tra interviste e appunti: “Chi ero, io, in fondo? […] Un poeta”; “Non pensare, anche tu, che il poeta sia soltanto colui che va a capo!”; “il consistere del minimo, del pressoché inesistente, accanto al sublime, mi fa sperare d’avere scritto dei libri che, in qualche modo, abbiano a che fare con la vita, con la vita nella sua realtà, e quindi con la poesia” ecc. Praticamente in ogni riflessione sulla scrittura fa capolino la parola “poesia”, come missione a cui essere intimamente fedeli. A tal punto fedeli da spingersi addirittura a dichiarare che “non avrei mai potuto scrivere niente se non avessi, prima, scritto Te lucis ante. In un certo senso è dunque questo il mio libro più importante”. La prima edizione di Te lucis ante, in effetti, è del 1947. All’epoca Bassani non ha pubblicato quasi niente (Una città di pianura sotto pseudonimo e i versi di Storie dei poveri amanti), ha 31 anni, e sta lavorando ad alcune delle Cinque storie ferraresi – date alle stampe soltanto nove anni dopo, nel ‘56. (Che c’entri Orazio, tra l’altro amatissimo da Bassani, e il suo nonumque prematur in annum?) E comunque, prima delle Cinque storie ferraresi, nel ’51 escono per Mondadori ancora delle poesie, Un’altra libertà. Insomma, la prosa viene cesellata e temprata al fuoco costante della poesia.
Se confrontiamo le cadenze di pubblicazione, vediamo come la poesia accompagni a intervalli più o meno elastici la prosa: L’alba ai vetri esce nel ’63, un anno dopo Il giardino dei Finzi-Contini, Epitaffio è del ’74 e si cala in pieno negli anni della costruzione del romanzo di Ferrara, così come In gran segreto del ’78, fino alla raccolta definitiva di tutte le poesie, sorta di analogo poetico del Romanzo di Ferrara, dall’emblematico titolo In rima e senza del 1982.
Dunque prosa e poesia si alimentano a vicenda, in un moto circolare, momenti in rima e momenti senza rima, due ventricoli di un unico cuore pulsante. Ai filologi il compito di stabilire cosa venga prima e cosa dopo, cosa abbia influenzato cosa. A noi il piacere di leggere i due momenti, in rima e senza, in un flusso continuo, suggestivo, atemporale.
3.
La poesia insegna a Bassani come controllare l’andamento sintattico. La sintassi della prosa di Bassani è un’avveniristica opera d’ingegneria grammaticale, piani, sottopiani, livelli, dislivelli, linee e spezzate, da Cicerone a Frank Gehry tutto d’un fiato, un corpo così complesso e così lineare. La scansione metrica della poesia dà a Bassani un ritmo da utilizzare per la prosa: è come se Bassani costruisse i periodi non per snodi grammaticali ma per versi e moduli ritmici. In questo modo la prosa può reggere anche pesi esorbitanti. Questo periodo tratto da Una notte del ’43, apparentemente lunghissimo (126 parole), scorre via leggerissimo:
Che fosse l’unico figlio del dottor Francesco Barillari, morto nel ’36, lasciandogli in eredità una delle migliori farmacie cittadine, questo sì, questo era un dato di fatto noto perfino ai ragazzi delle leve più recenti, sui quali, come a valutare le future possibilità di ciascuno (le mattine che, diretti a scuola, passavano correndo lungo il portico del Caffè, e nel frattempo tiravano dalle cicche ridotte al minimo le ultimissime boccate), si era posato tante volte lo sguardo ironico e penetrante dell’anziano, sempre meditabondo, ossuto farmacista, da loro stessi soprannominato Bilancino, e al cui proposito, del resto, tranne che fosse stato un autorevole “trentatré”, che avesse nutrito in principio qualche simpatia per il fascismo, e che da tempo immemorabile fosse rimasto vedovo, c’era ben poco da aggiungere.
Fatto piuttosto insolito, a dirla tutta. Di solito la poesia insegna il dominio lessicale, la perizia metaforica e immaginifica. Sono le armi della retorica quelle che di solito offre la poesia a un narratore. A Bassani la poesia offre una via nuova per la sintassi. Un dono speciale, che la poesia può offrire solo ai suoi più strenui frequentatori.
4.
C’è una varietà di temi (e di toni) nella poesia di Bassani infinitamente maggiore che nella prosa. In poesia Bassani può permettersi di tutto. Può parlare di trilocali camuffati da villini: “un cancelletto / verniciato di rosso il cereo / lussureggiare d’una buganvillea”. Di morbida carta igienica: “crespatina soffice va’ la / che per stavolta te la sei cavata / splendidamente anonimo / confratello finito / nella Pubblicità!”. Di geopolitica: “È l’America ad averti / fatto male / gli U.S.A.”. E, beninteso, di tennis: “penso ad un prato / echeggiato come questo dal feriale zip-zip soltanto / di invisibili irrigatori a pioggia automatici”. Passa da Zanzotto, esplicitamente menzionato in Campus, a “il cazzo la figa il culo / la droga”. Da Parigi a Maratea. Da Central Park al Caffè Folchini. Dalla pornografia alla teologia a strettissimo giro di versi: “Prenderlo nel didietro – lo dico in tutti i / sensi – risulta sempre / proficuo o quanto meno / evento sublimante che può portare e contrario / dritti filati a Dio”.
Si può divertire come un pazzo ad attaccare un critico: “Ben volentieri te lo darei / mio caro un calcio nel / culo // Ma ti farebbe / poi / male?”. E dire a un secondo critico (controbilanciando nel frattempo con una secca volée, una sprezzante lezione di poetica): “Comunicare tramite l’arte del resto fu ognora / la mia ambizione suprema / pur se non giunsi mai e poi mai / a sperare di riuscirci persino con te / coglione”. O sbeffeggiare illustri colleghi: “Non ti piaccio eh? Figùrati la tristezza / gli sbadigli se ti / piacevo”. E può toccare il sublime: “Al vecchio, umano viso del mondo il sole torna, / muove muto tra i fiori. Signore, cieca mano / che rapisci, ed assumi, ed ignori…”. Può persino cambiare il corso della lingua, e fare il plurale di sangue (che, com’è noto, non ha plurale): “Fra i due sangui il rosso e il nero / che mi corrono arterie e vene”.
5.
Ecco due esecuzioni, in rima e senza, di una stessa partitura.
La partitura è l’annoso trasformismo italiano che ha visto i fascisti prima diventare ex fascisti e poi lentamente rispettabili cittadini come tutti gli altri.
Gli ex fascistoni di Ferrara
invecchiano
alcuni
di quelli che nel ’39
mostravano di non più ravvisarmi
traversano mi buttano
come a Geo le braccia al collo
gaffeurs incontenibili
sospirano eh voi
propongono
dopo la dolorosa
pacca sulla spalla mancina
l’agape casalinga
Geo è Geo Josz, l’unico superstite delle camere a gas tornato a Ferrara, enigmatico e sfuggente protagonista di Una lapide in via Mazzini. Così veniamo alla seconda esecuzione, senza rima, tratta da quel racconto:
(c’era nel numero i soliti avvocati, medici, ingegneri, eccetera, i soliti commercianti, i soliti proprietari di terre: non più di una trentina, a contarli uno per uno…): tutti bravi signori che per esser stati convinti fascisti fino al luglio ’43, e poi, a partire dal dicembre dello stesso anno, per aver detto in qualche modo di sì alla Repubblica Sociale, da oltre tre mesi non fiutavano che insidie e trabocchetti ovunque.
È vero – ammettevano –, loro avevano preso la tessera di Salò. Tuttavia per civismo, l’avevano presa, per pura carità di Patria.
Come un geniale maestro di cappella, Bassani si dà ora alla musica rarefatta, suonata alla spinetta della poesia, ora a quella plastica, all’organo della prosa.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).