Perché ha cominciato a scrivere? C’è un’immagine nella sua memoria che ricollega al momento in cui ha deciso di voler diventare scrittore?
La mia memoria è un colabrodo. Quando mi guardo indietro amerei tanto vedere un bimbo con la penna in mano pensosamente chino sul foglio bianco mentre fuori splende una bella giornata di ottobre come questa. Ciò che vedo è il profilo di un personaggio minore, un ragazzino talmente trascurabile che il suo nome ci metteva più del dovuto a imprimersi nella mente degli altri. Ricordo poco di lui (riposi in pace), se non che aveva un’attitudine naturale alla fantasticheria ed era sprovvisto di ogni spirito di iniziativa. Ho fatto di tutto per trovargli una professione solipsista e sedentaria.
Ci racconti il suo rapporto con la scrittura e com’è cambiato nel tempo. Cosa significa scrivere oggi, e cosa significava agli inizi? Cos’è rimasto, cos’ha perduto, e cos’ha guadagnato?
Un matrimonio complicato. Sarei un ipocrita se negassi che mi piace scrivere, e anche parecchio, ma lo sarei altrettanto non precisando che i piaceri della scrittura, per quanto mi riguarda, sono compromessi con la frustrazione e il risentimento. Un tempo credevo che il Dolore (con la maiuscola) potesse costituire un’ottima guida (la sofferenza dell’artista): oggi considero il dolore (con la minuscola) un consigliere subdolo e fraudolento. Quando si è giù di corda meglio tenere chiuso il laptop. Le belle pagine di narrativa (persino quelle che mettono in scena il funerale dell’eroina) trasudano energia, ironia e felicità. Lo squallore diffuso nei romanzi di Flaubert non ha niente a che fare con quello che deturpa le nostre vite: è elegante e prezioso come le nature morte di Cézanne.
Ho vissuto i primi quindici anni della mia vita senza il pensiero costante di dover lavorare a un romanzo. A pensarci non era poi così male. All’epoca ero coinvolto in uno smercio di figurine Panini. Oggi l’idea di un periodo (seppur insignificante) senza un romanzo da accudire è semplicemente insostenibile. Se un editto vietasse di scrivere libri sono certo che continuerei a farlo in clandestinità. Concepirli e provare a buttarli giù è la sola gioia della mia vita, e di certo il più persistente dei crucci. Il vero calvario è la pubblicazione. Se un mecenate tanto pazzo quanto munifico mi garantisse un vitalizio per scrivere un libro ogni quattro anni destinato al suo esclusivo consumo chiuderei baracca e burattini e mi metterei a suo servizio, vivendo (letteralmente) di ciò che scrivo. Ho la stoffa del parassita di corte.
All’inizio della mia carriera concepivo la scrittura come tour de force, una corsa a ostacoli verso una meta lontana. Oggi m’interessano soprattutto gli ostacoli. La scrittura pone problemi quotidiani che vanno risolti di volta in volta. Esiste sempre un modo per dire le cose che hai in testa: devi solo trovarlo. Sono come quei ballerini concentrati sulla pulizia del singolo passo o il calciatore che in allenamento prova sempre la stessa punizione a giro. Se dovessi esprimere il tenore del mio cambiamento con una battuta direi che una volta pensavo che l’apice del romanzo fosse stato raggiunto in età modernista, oggi ho un debole per un Diciannovesimo Secolo riveduto e corretto.
Qual è il suo pubblico ideale? A che lettore pensa quando scrive?
Sono un lettore esigente e schizzinoso, sensibile alle grazie dello stile e al senso del ridicolo. Ecco il solo lettore che amo compiacere.
Che relazione c’è tra la scrittura e la società, con le sue influenze politiche e culturali? E come convivono questi aspetti nella sua produzione letteraria?
Sarei tentato dal rispondere che la scrittura dovrebbe rimanere sdegnosamente distante da faccende di pubblico interesse (politica e cultura sono parole così corrive), dai cosiddetti clamori della propria epoca. Il guaio è che ogni cosa, persino la grammatica, la sintassi, i segni di interpunzione – i ferri del mestiere insomma – sono stati forgiati dal tempo in cui viviamo. Lo si voglia o no si è sempre scrittori del proprio tempo. Altrimenti perché non scrivere in aramaico? Del resto, amo quello che i francesi chiamano la couleur du Temps. Quando vedo certi film anni ’80 mi commuovono le capigliature, gli incarnati, i toni cangianti della luce. Il tempo (in tutte le sue accezioni) è il protagonista occulto delle opere d’arte che amo. Perché dovrei privarmene?
Detto questo nutro avversione per qualsiasi scrittore che si dia arie da educatore o, Dio non voglia, da profeta. Coltivo un’idea edonista e gratuita della letteratura. Come sa qualsiasi bambino non c’è niente di più serio e difficile che organizzare il proprio divertimento. Se mi è concesso un commento impertinente trovo che oggigiorno ci siano parecchi scrittori (non solo italiani) che prendono troppo sul serio sé stessi e non abbastanza ciò che scrivono. Altrimenti in circolazione non ci sarebbero tanti impostori.
In che misura gli incontri (con altri scrittori, poeti, intellettuali) hanno influito nella sua poetica?
Ho avuto un mentore. Si chiamava Enrico Guaraldo. Era il professore con cui mi laureai e che mi introdusse all’università. Insegnava ai suoi allievi a stare con il naso (così diceva) attaccato alle parole (già, come un segugio). Era un connaisseur impareggiabile. Ricordo ancora una lezione sul mancato duello ne L’educazione sentimentale: nessuno mi aveva mai parlato di libri in quel modo, nessuno lo avrebbe più fatto.
Quali autori l’hanno formata maggiormente e com’è arrivato a loro?
Leggo da che ho memoria. La mia mente è una macedonia ricca, variopinta e freschissima, non mi faccia scegliere un frutto in particolare.
La storia è piena di libri rifiutati dalle case editrici e di libri che non sono stati immediatamente compresi dai lettori. Lei che rapporto ha con il rifiuto? E in che modo è cambiato nel tempo? Quanto conta, oggi, l’apprezzamento dell’opera nel suo approccio al testo, e che rapporto ha con il mercato?
Come tutti detesto essere rifiutato, anche se tendo subito a mitizzare chi lo fa. D’altra parte fin qui, tra alti e bassi, ho avuto una carriera fortunata. Forse anche per questo non guardo con sospetto i libri di successo. Non è detto che un libro che piace a tante persone disponga sicuramente di qualità letterarie, ma non è detto neanche il contrario. Di certo si tratta di un oggetto interessante, spesso disgustoso ma comunque interessante. Scrivere un libro di successo è come scoprire un nuovo giacimento energetico. Molti mandarini amano affettare disprezzo per i best seller. Io non dimentico che i libri di Dickens e Tolstoj a suo tempo furono straordinari best seller internazionali (e cosa c’è di meglio di Dickens e Tolstoj?).
Quando si parla di certi argomenti, il mercato svolge sempre la parte del pianista nei film western: è il primo a essere impallinato. In realtà, sebbene sia un errore trattare i libri come dentifrici e saponette, il mercato svolge una compito essenziale. Lasci che le faccia un esempio che conosco. La saggistica accademica è sempre più irrilevante, nessuno è più interessato a comprare un trattato di filosofia e di letteratura. Non è sempre stato così. Sartre, Barthes, per non dire di Edmund Wilson o Benedetto Croce, pur non avendo i numeri di Dan Brown, potevano contare su un pubblico solido di lettori più o meno eruditi. In un certo senso erano sul mercato. Ora che il mercato non esiste più, l’offerta è diventata tanto vasta quanto scadente. Se nessuno ti compra, se nessuno ti legge, se nessuno ti giudica puoi scrivere qualsiasi stronzata.
Che rapporto ha con il mondo letterario? Esiste ancora un luogo ideale di incontro/scontro tra autori?
Il mio rapporto con il mondo culturale si esaurisce nell’amicizia con una manciata di scrittori. Il cicaleccio dei giornali e dei blog (la morte del romanzo, le serie tv sono meglio di Guerra e pace, che schifo i colossi editoriali, Adorno aveva ragione, torniamo a scrivere sulle periferie, chi ha ammazzato Pasolini e via dicendo) mi annoiano quasi quanto le disquisizioni sul 4-3-3 e il 4-4-2.
In che stato si trova la letteratura italiana oggi? Vede delle mancanze rispetto al passato, trova che ci siano delle fioriture interessanti?
Ho sempre più difficoltà a ragionare per categorie astratte e altisonanti. Non so cosa sia la “letteratura italiana” né di oggi né di ieri. Amo o detesto il singolo scrittore, anzi il singolo libro, il singolo capitolo, il singolo passo… Al Liceo avevo qualche problema con Ariosto, adoravo Tasso. Ancora oggi ci sono scrittori italiani che leggo volentieri, altri di cui mi privo con sollievo. I nomi degli uni e degli altri hanno importanza solo per me.
E per finire, un gioco: se potesse scegliere solo tre libri da consigliare, quali sarebbero?
Restando alla narrativa direi senza indugio David Copperfield, Anna Karenina e la Recherche, ma grazie al cielo nessuno (tranne lei adesso) mi ha mai chiesto di scegliere.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).