L’allusione. Valerio Magrelli e Umberto Fiori – Poesia e Mito /4

da | Nov 3, 2015

Di Giovanni Turra

Finora sono state passate in rassegna alcune riprese letterali e riscritture di miti. La memoria dei classici, però, agisce a più livelli nella creazione poetica; uno di questi è l’allusione, il livello dallo statuto teorico più incerto. A partire dagli anni Ottanta, la tecnica dell’allusione è stata impiegata, fra gli altri, da Valerio Magrelli e Umberto Fiori (della cui poesia ci si occuperà nei paragrafi a seguire), e si registra un cospicuo numero di attualizzazioni non troppo vaghe di loci communes classici.

E’ quindi doveroso almeno segnalare la presenza del topos del puer-senex, e del suo contrario, nella poesia di Anna Maria Carpi (si legga il testo intitolato Caproni, «vecchio-bambino, di pepe e di vaniglia», corsivo mio, in Compagni corpi, Milano, Scheiwiller 2004), quella dei cosiddetti arborum brachia, i rami antropomorfizzati degli alberi, nella produzione in dialetto di Luciano Cecchinel (Al tragol jèrt, Milano, Scheiwiller 1999), infine la presenza del topos del nemus, il bosco sacro in cui Fabio Pusterla ha ambientato la sua seconda raccolta poetica (Bocksten, Milano, Marcos y Marcos 1989).

La cifra “espressionistica” e la vocazione al pauroso e all’orrido degli ultimi due autori citati – particolarmente accentuate dalla scomparsa di presenze umane – sono senz’altro imputabili alla memoria della Farsaglia di Lucano e delle Metamorfosi di Apuleio, alla lettura di Tasso, ai Cinque canti di Ariosto; e tuttavia si declinano in una forma accondiscendente di rispetto alla dimensione di sacralità e mistero insita nella natura e nelle entità (divine e animali soprattutto) che l’hanno popolata e continuano a popolarla.

Valerio Magrelli

In Nature e venature (1987), che è la seconda raccolta di Valerio Magrelli, lo sguardo del poeta abbraccia e dispone, accanto alla sostanza delle cose more geometrico demonstrata, anche archetipi e figure mitiche, a rappresentare, come ha osservato Marco Forti, un mondo che «sottoposto a una costante corrosione […] vuole durare in un lume che declina»[1].

Il sistema di pacate equazioni logiche che è la scrittura del poeta romano, definita da Giovanardi «pura lirica della ragione e delle facoltà conoscitive dell’individuo»[2], si trova tuttavia a dipendere da forze non pienamente controllabili, come le eredità antropologiche, i nodi dell’inconscio, i sovraccarichi dell’espressività.

Si tratta perciò di situazioni di lucido squilibrio, dell’uso non ortodosso di una ragione attratta dall’eccezione piuttosto che dalla regola. L’allusione all’episodio omerico della gara con l’arco e del conseguente scacco dei Proci da parte di Ulisse (Od., XXI), ad esempio, unitamente alla variatio di un celeberrimo attacco montaliano, non ha altro scopo che quello di rimarcare, per contrapposizione, l’inanità di ogni sguardo d’insieme e l’impotenza del poeta contemporaneo.

Al contrario di Ulisse, dunque, quelle di Magrelli sono armi sfilate, e l’autore non riceve alcun segno della benevolenza divina. Non più, allora, poesia come suprema ambizione umana, ma unico rifugio consentito nello sprofondamento della vita, nella riconosciuta disintegrazione dei valori:

Rosebud

Non pretendo di dire la parola
che scoccata dal cuore traversi
le dodici scuri forate
fino a forare il cuore del pretendente.
Io traccio il mio bersaglio
intorno all’oggetto colpito,
io non colgo nel segno ma segno
ciò che colgo, baro,
scelgo il mio centro dopo il tiro
e come un’arma difettosa
di cui conosco ormai
lo scarto, adesso
miro alla mira.[3]

L’effetto è quello di una scrittura che sulle proprie vertigini e ombre, sui propri capovolgimenti prospettici e vertiginose mise en abyme, definisce il cortocircuito dei movimenti minimi e appena percettibili dell’anima e del tempo che l’attraversa. Al fondo si annida la minaccia di minuscole e improvvise deflagrazioni, sottili e inquietanti «venature» che sottopongono tutte le cose, e la storia letteraria da Omero a Montale, all’azione corrosiva di variabili impazzite.

In Didascalie per la lettura di un giornale (1999), lo sguardo che prima vegliava sul farsi della propria poesia si volge ora agli accadimenti esterni: il giornale quotidiano assurge perciò ad angolo di rifrazione della realtà contemporanea e delle infinite sfaccettature in cui essa si scompone negli inesausti ripetitori massmediatici.

Il poeta romano punta la sua lente anche sulle trasformazioni della materia. Il nesso capitale del quarto tempo della sua poesia risulta dunque essere quello tra forma e mutazione, tra una determinata effigie e il suo passaggio a un nuovo stato. Di qui l’occorrenza del nome di Dafne, che non avvicina le estremità della Storia occidentale (origini mitiche e devastato presente) ma ne approfondisce l’irriducibile iato.

La ninfa si trasferisce in una cartiera del Québec e qui prosegue la sua metamorfosi, da alloro in pagina:

Dal nostro inviato a:
Trois-Rivières, Québec,
capitale mondiale della cellulosa

Questo odore di pesce e di zolfo,
quest’aria dove come fuochi fatui
guizzano zolfanelli
e pesciolini celesti,
non ha a che fare con reti
né con fiamme,
bensì una lenta metamorfosi
del legno, con tronchi
macerati che diventano zuppa
e pappa e magma e fibre: la carta.
Sento il mondo corrompersi, disfarsi
e Dafne proseguire la sua corsa
per diventare, dopo fronda,
pagina.[4]

In Didascalie tornano dei luoghi montaliani altri rispetto a Nature e venature: se nella raccolta del 1987 Magrelli guardava a Ossi di seppia, ora la fonte è costituita da Le occasioni. È questo, non a caso rovesciato di segno, l’attacco del componimento che porta il titolo di Fotografia: «Recide, quella forbice, / il filamento lento e lungo dello / sguardo […]». È evidente la manomissione del mottetto Non recidere, forbice, quel volto…

Più avanti, nel medesimo testo, si legge: «quella pupa d’ombra, / quel bozzolo»; sarà, presumibilmente, la pupa dell’Acherontia Atropos di gozzaniana memoria, la farfalla notturna che svolazza e sibila nei Vecchi versi di Montale (da Le occasioni, coerentemente), con sul dosso «il teschio umano». Tramite il poeta ligure, anche Magrelli s’inserisce nel prolungamento della linea Pascoli-Gozzano individuata da Isella per Montale[5] e allude al mito delle tre Parche, di Atropo specialmente; ma l’alone del simbolismo psicologico, già dimidiato nell’autore degli Ossi e delle Occasioni, in Magrelli subisce un’ulteriore riduzione: il tecnicismo da entomologo «pupa» definisce una realtà autonoma, non partecipabile, qual è appunto quella restituita dalla fotografia, in cui «l’immagine» viene al mondo «dividendosi dalla madre».

Scandendo una dizione volutamente monocorde, in tutto rispecchiata dalla rigorosa atonalità della versificazione, Magrelli riesce nell’impresa di conferire alla sua radiografia di una civiltà in secca compattezza argomentativa e pathos; un pathos, comunque, più sottile, e insinuante, che diffuso. L’ironia del poeta romano, tenuta a un passo dal sarcasmo, mette a nudo, secondo la partecipe lettura che ne dà Testa, «il nostro orrore quotidiano e la sua indecenza»[6].

Umberto Fiori

Umberto Fiori, nato a Sarzana ma milanese d’adozione, è poeta di non comune sobrietà e decoro, che nella voluta assenza di colori forti dei suoi versi riesce a cogliere i risvolti nascosti di una realtà minore, la quale passa inosservata ai più: la facciata di una casa, un diverbio per la strada, un litigio in una banale conversazione intorno a un tavolo, con la voglia di mettere le cose in chiaro.

La sua poesia mutua dalla prosa immediati valori di referenzialità, ma non rinuncia al proprio potere di fulminante trasfigurazione del reale. Così, in Parlare al muro – la breve silloge di raccordo tra Chiarimenti (1995) e Tutti (1998) – le case possono addirittura mettersi a cantare:

Due case

In piazza, un pomeriggio, sotto le piante
l’asfalto fresco fumava.
Davanti a quel mare di nero
mi sono fermato.
Allora sopra le cime dei platani,
dove finiva l’ombra, in alto,
due case
si sono messe a cantare.
È stato lì che ho visto la distanza
dov’erano così chiare
com’era grande,
com’era santa.[7]

Fiori allude alla notizia poco nota, e tramandata unicamente da Erodoto[8], di Eupalino, che assurge pienamente alla statura di mito soltanto nel Novecento, grazie al recupero di quella remota vicenda da parte di Paul Valéry: in un dialogo, il poeta francese fa di Eupalino l’architetto per antonomasia.

In Eupalinos, o l’Architetto, gli attanti, Socrate e Fedro, vivono la propria inconsistente vita di trapassati nel pallido soggiorno di Ade. Fedro rievoca l’incontro con Eupalino e riferisce a Socrate le parole che questi avrebbe proferito: «Non hai osservato, andando per la città, che tra gli edifici che la popolano alcuni sono muti altri parlano e altri ancora, i più rari cantano[9]. Gli edifici possono dunque cantare, come le case in Parlare al muro.

Nella poesia di Fiori, quasi tutta informata a una sorta di feticismo laterizio, l’accrescimento della dimensione per così dire “ontologica” delle case conferisce loro una vibrazione nuova, una crescita di sovrasensi, e provoca un movimento rovesciato nei confronti del poeta; un movimento che, anziché andare dal poeta verso gli oggetti, investendoli di significati simbolici o metaforici o psicologici, com’era ancora per il correlativo oggettivo, va dagli oggetti stessi e dal loro fremito verso il poeta:

Col sole, una mattina, ho visto come
la vostra forza vi ha fermato,
care case.
Voi non andate da nessuna parte.
Restate qui,
a portata di mano,
ma guardate lontano,
via, laggiù, dove siete
veramente fondate.[10]

In questo mondo, le case testimonierebbero di un altro mondo, incorruttibile, ideale; e sebbene al fondo di tutto resti sempre intuibile qualcosa che somiglia terribilmente a una sostanziale mancanza di senso, nella poesia di Fiori si compie una sorta di teofania laica che sconfessa lo scorrere del tempo, la transitorietà del tutto, l’inarrestabile rovina delle cose.

 

 


[1] M. Forti, Introduzione a V. Magrelli, Nature e venature, Milano, Mondadori 1987, p. 6.

[2] S. Giovanardi, Valerio Magrelli, in *Poeti italiani del secondo Novecento, cit., p. 943.

[3] V. Magrelli, Rosebud, in Id, Nature e venature (1987), ora in Id, Poesie 1980-1992 e altre poesie, Torino, Einaudi 1996, p.177.

[4] V. Magrelli, Dal nostro inviato…, in Id, Didascalie per la lettura di un giornale, Torino, Einaudi 1999, p. 47.

[5] Cfr. D. Isella, commento ai vv. 79-84 di Vecchi versi, in E. Montale, Le occasioni, a c. di D. Isella, Torino, Einaudi 1996, p. 13.

[6] E. Testa, Valerio Magrelli, in Dopo la lirica, cit., p. 359.

[7] U. Fiori, Due case, in Id, Parlare al muro, Milano, Marcos y Marcos 1996, p. 29.

[8] Cfr. Erodoto, Storie, III, 39-60 e 120-126.

[9] P. Valéry, Eupalinos, o l’Architetto (1921), in Tre Dialoghi, trad. di V. Sereni (1947), Torino, Einaudi 1990, p. 54. In Eupalinos, o l’Architetto, il nesso tra Architettura e Musica diventa oggetto di riflessioni attentissime, soprattutto da parte di Socrate: «Ad altro che a se stesse ci fanno pensare la Musica e l’Architettura; nel mezzo del mondo esse stanno come i monumenti di un altro mondo» (ivi, p. 69). Il fine è quello di imporre alle pietre, di comunicare all’aria «forme intelligibili», e di ridurre, nel contempo, ogni elemento mimetico al minimo. Fedro può allora concludere: «La musica non fa pensare alla musica né una costruzione a un’altra costruzione. Per questo […] una facciata può cantare!» (ivi, p. 70).