La redazione di «Nuovi Argomenti» ricorda Pier Paolo Pasolini. Il brano che segue è l’Appendice al numero 1 della seconda serie della rivista, inaugurata nel 1966, ed ha per sottotitolo Due note per un invito alla collaborazione, a firma Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini, di cui la rivista aveva pubblicato testi decisivi come Le ceneri di Gramsci e che con la seconda serie si aggiunge a Carocci e Moravia nella direzione. La sua ultima firma è posta a 1951 nell’ultimo numero del 1975, che si sovrappone alla tragica notte all’Idroscalo di Ostia. Nell’Appendice Moravia e Pasolini si interrogano sul rapporto tra scrittura, realtà e marxismo, sulla situazione culturale e politica italiana, su “nuovi modi rivoluzionari di conoscenza”, e aprono vie cruciali per il ricco laboratorio letterario di «Nuovi Argomenti».
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La nuova serie di Nuovi Argomenti potrebbe incominciare senza alcuna introduzione. Il distacco dalla prima serie si creerebbe solo attraverso i testi. Ma crediamo che non sarà forse inutile spendere qualche parola di spiegazione. Anche perché non vorremmo che si credesse ad un cambiamento radicale e completo. L’esigenza di fondo della rivista resterà la stessa.
Ma qual era, qual è tuttora questa esigenza? Non è facile dirlo. La parola realtà potrebbe darne il senso forse non del tutto approssimativo, ma soltanto a patto di allargarne il significato molto al di là dei limiti che gli sono attribuiti così dal senso comune come dalla terminologia filosofica. Realtà, sì, ma a condizione che vi sia una effettiva presa sul reale, comunque e con qualunque mezzo ottenuta. Dunque: realtà per mimesi, per omologia, per contatto, per analisi, per allegoria, per identificazione, per trasposizione, per simbolo, per critica, come si vede, il termine, appena enunciato, diventa vago e vasto, abbraccia ogni possibile modo di espressione, ogni possibile rapporto con il mondo. In fondo esso finisce per avere una accezione soprattutto negativa; serve cioè soprattutto ad escludere tutto ciò che non comunica il reale, che lo sfugge, che lo nega, che lo teme.
Questa esigenza, durante i primi dieci anni di vita della rivista, si incontrò con quella che si è soliti chiamare la cultura di sinistra. Non c’è dubbio che nel dopoguerra le istanze di questa cultura collimarono spesso (ma non sempre, anzi, per quanto riguarda il realismo socialista, mai) con quelle della rivista. E si capisce facilmente perché: la cultura va vissuta come si vive la vita, giorno per giorno, senza troppo curarsi di prevederne le conseguenze e gli sviluppi. Ora in quegli anni vivere la cultura voleva dire, se non altro a causa della situazione oggettiva della società italiana, vivere anche le proposte che venivano avanzate dalla cultura di sinistra. Avvenne allora quello che sta avvenendo oggi: il moto di fondo della società italiana determinò direttamente e indirettamente un moto analogo della cultura; i temi della società furono i temi della cultura. E’ vero che soltanto in pochi questo processo ebbe un carattere autentico, per il maggior numero si trattò invece di un’accademia e di una retorica in più, da aggiungere alle tante del passato. Ma è anche vero che oggi, quando il moto della società italiana si è invertito ed esigenze analoghe si sono fatte sentire nella cultura, pochi sono stati coloro che hanno sentito queste esigenze come qualche cosa di reale e dunque di implicitamente rivoluzionario. Per i più, si è trattato di nuovo di una accademia e di una retorica, la solita accademia, la solita retorica italiane.
Tutto quello che sta avvenendo oggi poteva forse essere preveduto fin dal lontano 1945, cioè fino dalla sconfitta definitiva della Germania che non fu soltanto la sconfitta del nazismo ma anche quella di certa cultura tedesca idealistica, dogmatica e sistematica dell’Ottocento. Si poteva cioè prevedere che la vittoria delle ideologie di sinistra non era che apparente; che la concezione materialistica della storia, proprio perché ridotta a propaganda, a precettistica e a dogma dell’Unione Sovietica, non avrebbe retto al colpo obliquo che le veniva dal disastro della cultura tedesca. Così, paradossalmente, la sconfitta di Hitler portava a lunga scadenza alla sconfitta delle ideologie storicistiche di ogni indirizzo. S’intende che tutto ciò valeva e vale per il solo Occidente. Nel momento stesso che perdeva l’Europa, la filosofia della prassi, proprio nell’accezione dogmatica e precettistica che le aveva dato Stalin, conquistava la Cina e i paesi sottosviluppati dell’Asia.
L’idea di Stalin che il proletariato vittorioso dovesse raccogliere e rialzare le bandiere delle culture nazionali lasciate cadere dalla borghesia cosmopolita e decadente, era a ben guardare, un’idea anticolonialista e imperialista, la quale presupponeva un mondo ridotto a colonia sotto il dominio di una sola cultura egemonica. Quest’idea aveva certamente un significato in Asia, in Africa, nell’America del Sud, dove capitalismo e colonialismo erano indistinguibili e si presentavano con il volto ibrido e corrotto della pseudo cultura cosmopolita di contro alle arretrate ma autentiche culture locali. Ma in Europa, nell’Europa delle culture nazionali e delle patrie, in cui non si poteva parlare di egemonia culturale del cosmopolitismo imperialistico neppure in senso metaforico o come si diceva allora “oggettivo”, l’idea staliniana applicata con pedanteria si rivelò un disastro. In Italia, per esempio, la cultura, nel suo complesso, voltò le spalle alla concezione provinciale e anacronistica di una letteratura nazional-popolare basata sopra immaginari valori della Resistenza (la quale era stata altra cosa, come vedremo tra poco) e tornò alla sua tradizionale vocazione europea ed occidentale. Il tentativo di rialzare la bandiera della cultura nazionale lasciata cadere dalla borghesia, non era riuscito. Anche perché nel frattempo si era verificato un fenomeno che ancora una volta gli staliniani non avevano preveduto: la sclerosi dell’idea di nazione, in occidente; e la creazione, da parte del neocapitalismo, di una grande società consumatrice, sopranazionale ma non necessariamente cosmopolita. Così l’interpretazione staliniana del materialismo storico si ritrovava ancora una volta in ritardo sull’andamento generale della storia stessa; e la Resistenza si rivelava qualcosa di profondamente diverso dalle guerre di liberazione dei paesi ex coloniali: questi lottavano contro il cosmopolitismo imperialistico per una cultura nazionale; quella invece aveva lottato contro il nazismo per una cultura europea e occidentale. E infatti, dieci anni dopo la fine della guerra, si vide che le culture nazionali sfuggivano allo schema staliniano e che l’Occidente si trovava una volta di più sulla strada dell’unificazione culturale.
La crisi della cultura di sinistra non deve tuttavia farci dimenticare che questa crisi non è che la crisi di un certo marxismo; che è avventato parlare di crisi del marxismo finché ci sono nel mondo centinaia di milioni di uomini che si dicono marxisti; che infine il marxismo è tuttora e sarà ancora per molto tempo se non il solo certamente uno degli strumenti più idonei ad afferrare il reale. Abbiamo detto: se non il solo. In queste quattro parole sta racchiuso, probabilmente, il programma della nuova serie di Nuovi Argomenti. Sì, il marxismo non è il solo mezzo di conoscenza, il solo metodo di approccio e di comunicazione del reale che la cultura occidentale abbia elaborato; sì, esso va integrato con altri strumenti, altri mezzi o meglio esso deve saper far proprie le esperienze più lontane, soprattutto queste. Sono infatti le simbiosi più arrischiate e incredibili quelle che col tempo si rivelano le più feconde.
Nuovi Argomenti propone dunque non soltanto di non rinunziare al contributo del marxismo ma anche di integrarlo con tutto ciò che nella cultura occidentale può sembrare a prima vista che gli sia estraneo o addirittura ostile.
Alberto Moravia
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La nostra è, anzitutto, «una rivista che serve a preparare una rivista». Come tale non ha un programma. Al posto del programma ha una formula, che è la seguente: una serie di quattro-cinque «ricerche parallele», a puntate, condotte liberamente da quattro-cinque collaboratori fissi (Moravia, Pasolini, Leonetti, Siciliano, Fortini,…). Ognuna di queste «ricerche parallele», può avere un tema o più temi, può essere di ampiezza disuguale (dalla nota al saggio), può essere stesa sotto forma di diario o di studio, può toccare argomenti particolari o argomenti generali ecc.
All’inizio queste «ricerche» che hanno in comune solo il fatto di svolgersi insieme, in una stessa sede, sono del tutto libere, ossia, secondo il sistema sperimentale, ricercano prima di tutto se stesse. Inoltre, come un corpo vivo, nell’evolversi, possono anche modificarsi, correggersi o negarsi. Tutto ciò è giustificato dal fatto che, in qualche modo, questa «rivista per preparare una rivista» si trova nella necessità di ricominciare tutto daccapo, e quindi nessuno dei collaboratori «sa» a cosa di pubblico lo porterà la nuova elaborazione del suo pensiero. Non ci sono programmi, come dicevamo. Gli unici dati comuni sono delle indicazioni o semplicemente ideologiche o schematicamente contenutistiche, per esempio, «la crisi del marxismo» (su cui c’è in realtà da precisare tutto, le cause, la fenomenologia, le conseguenze ecc.).
Può darsi che i risultati di un simile lavoro che si presenta e si svolge come preparatorio siano alla fine scoraggianti e irrimediabilmente divergenti: si dà tuttavia la necessità di dover «ricominciare» un dibattito culturale, la cui inevitabile interruzione ha portato al vuoto e alla confusione di questi anni: di ricominciare con la massima libertà e la massima sincerità. Da ciò la «tecnica» della rivista. Che se consiste, ripetiamo, in una serie di «ricerche parallele non programmate se non dalla definizione nominale di una crisi», vuol dire che ogni altra tecnica è insieme esclusa e resa possibile; restando fermo il punto che ogni rivista di gruppo, asseverativa, si presenta in questo momento come irrealizzabile.
La prefazione di Moravia indica meno sommariamente – benché sempre attraverso dati esteriori e con finalità di massima – quelle che potranno essere le condizioni interne alla rivista. Nessuno di noi sa ora con esattezza di che tipo sia l’integrazione del marxismo – che pure ognuno di noi ha in mente – né – elencando a caso – quali siano gli oggetti veramente rilevati della «nuova sociologia» del neocapitalismo, né con che nuova linea culturale sia possibile sostituire la vecchia linea culturale dei partiti marxisti, né se ci sia qualcosa di realmente nuovo nella riadozione della «lingua della poesia» ai danni della «lingua della prosa», con la conseguente riadozione di una visione «talqualistica» ai danni della visione «ideologica», né fino a che punto si spingerà l’assunzione di un codice strutturalistico ecc.: e tutto questo per restare sempre ai dati esterni, ai temi correnti e volgari dell’attuale dibattito culturale.
Dopo uno o due anni di queste ricerche (la tecnica della rivista contempla la massima elasticità: il numero dei collaboratori fissi può raddoppiarsi e triplicarsi, e, non esistendo un numero stabilito di pagine, le collaborazioni a cui il tessuto sperimentale è aperto, sono le più varie e le più vaste), cercheremo di vedere, in una specie di dieta, che cosa di comune e quanto di pubblicamente valido abbiamo ottenuto. Se esisteranno o no le premesse di un rifondamento della cultura marxista che parta dal marxismo, nel massimo e più completo momento del suo sviluppo – e della sua crisi come fame delusa di nuovi modi rivoluzionari di conoscenza.
Pier Paolo Pasolini
(da «Nuovi Argomenti», 1, gennaio-marzo 1966, pp. 231-236)
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).