Persefone e Demetra: “Maa Onda” di Ida Vallerugo – Poesia e Mito /3

da | Ago 25, 2015

Di Giovanni Turra

In rapporto al mito, è senza dubbio emblematico il percorso di appropriazione compiuto da Ida Vallerugo. Autrice anche di testi in lingua (La porta dipinta, 1968; Interrogatorio, 1972), a partire dal 1979 la Vallerugo scrive la maggior parte dei suoi versi nella parlata di Meduno, una varietà occidentale di friulano. L’evento all’origine di quell’improvviso affioramento del dialetto («Par te i tôrni a scrîvi»[1]) fu la morte della nonna Regina Cilia, la Maa Onda, con la quale la poetessa, rimasta presto orfana, aveva a lungo vissuto. In calce a una poesia così è riferito:

La Maa se ne è andata il 25 maggio 1979 […]. Qualche tempo dopo, nell’inverno dello stesso anno, e nella stessa baracca del dopo terremoto nella quale eravamo vissute insieme, una notte mi sono alzata ed ho iniziato a scrivere. In friulano. A lei. Di lei. […] il sorprendente passaggio al friulano è stato naturale, come se questo strumento di espressione me lo avesse lasciato la Maa andandosene. […] Era la lingua di mia nonna. Ed è diventata lo strumento ‘naturale’ per dire di lei.[2]

Poesia funebre, quindi dal dettato alto, e senza concessione alcuna all’idillio dialettale: la Vallerugo sceglie una pronuncia grave e si affida al verso libero, aggregandolo in strofe che obbediscono non tanto a uno schema formale, ma piuttosto, come ebbe a scrivere Franco Brevini, «alle scansioni interne del discorso»[3]. Ne nasce L’aureç’, che, informa l’autrice, «è un mazzo di rami di vite, con i grappoli più scelti legati insieme. Era appeso alle travi del soffitto. L’uva passita veniva mangiata d’inverno. Qui l’aureç’ è la mia nonna, la Maa Onda, morta»[4]. Nel 1997 la silloge è confluita, con altre, nel polittico Maa Onda, unanimemente riconosciuto il capolavoro della poetessa.

All’interno di questi pannelli, il dialetto costituisce il codice di una poetica catabasi che dischiude le porte alla morte. Vi confluiscono sedimenti culturali e autobiografici, trasformati in una significativa metafora esistenziale e storica. Nell’immagine della nonna, infatti – chiamata «Maa» (e «Mari», madre), a sottolinearne le valenze viscerali -, la Vallerugo raffigura anche il mondo contadino delle proprie radici, di cui i versi costruiscono una dolente saga fatta di fatiche, patimenti, emigrazioni: «Sul punt di Sydney il vint / a ti âlcia i cjavéi nêris scjampâs ai fèrmos» («Sul ponte di Sydney il vento / ti solleva i capelli neri sfuggiti alle forcine»[5]).

Regina Cilia era emigrata in Australia con i figli e il marito che la chiamava Onda. A Sydney, dove abitava vicino al porto, andava sul ponte a respirare l’aria buona, e nel fissaggio di quei ricordi da parte della nipote i capelli neri dell’ava si dispiegano al vento come un drappo funebre, diventando preciso indizio di un’imminente manifestazione di Persefone.

A Sidney, durante una grave malattia da parto, la Maa fu data per morta e portata all’obitorio, dove fu richiamata in vita dal marito e dai figli superstiti:

Onda! A ti clama lui.
Mâri a ti clàmin i fìs soravissûs.

[…]

A passa ta l’âga fonda tô mâri pensierosa.
“Mâri, unmò viva a mi àn mitût fra i muars!”[6]

[Onda! ti chiama lui. / Madre ti chiamano i figli sopravvissuti. / […] / Passa nell’acqua fonda tua madre pensierosa. / “Madre, ancora viva mi hanno messa tra i morti!”]

Maa, nella sua trasfigurazione come Persefone, ripete il movimento pendolare di un descensus ad Inferos cui succede, invariabilmente, una resurrezione. Infatti, rapita da Ade con il consenso di Zeus, Persefone, per intercessione di Demetra, sua madre, trascorre parte dell’anno nel regno dei morti e parte invece con gli dèi superi. Si spiega così l’avvicendarsi delle stagioni e il ciclo della vegetazione.

La poesia della Vallerugo si realizza in una dimensione fuor di dubbio mitologica, e tuttavia analoga a quella del pensiero onirico della veglia, funzionando perciò anche secondo i meccanismi della condensazione e dello spostamento: ne viene che Maa si sdoppia e si sovrappone alla stessa Demetra, dea della fertilità e dei raccolti, la quale, adirata per il ratto della figlia, d’inverno trasforma gli arativi in un gerbido.

Ecco dunque l’ava colta nell’atto di chinarsi «sôra una cuiêra scûra» («sopra una terra scura»):

Imperfession

Plêta i ti vêt sôra una cuiêra scûra
come ch’i tu fasêvi simpri uchì
cuan che Proserpina a torna su la cjera

e cuiêra, cuiêra, cuiêra, i mi dîs, cuiêra

e i tu s’incjanti a la rôsa
e i tu vuârdi s’al é intat i radìc
i tu contrôli se il farc a n’al à tirât sot
una sola planta e in scûri galerîis a la cunsuma.

A na ti spoventava uchì chel Ade
il stes c’a sglonfa i siminci
e a davierç la rôsa.

Po i tu si drèci su chê cuiêra scûra
e i tu si vôlti a dîmi cun câlma meraveâ
“Ma in Australia a na son i leons”[7].

[Imperfezione – China ti vedo sopra una terra scura / come sempre facevi qui / quando Proserpina ritorna sulla terra // e terra, terra, terra mi dico, terra // e ti incanti alla rosa / e guardi se è intatto il radicchio / scruti se la talpa non abbia portato con sé / una sola pianta e in oscure gallerie la consuma. // Non ti spaventa qui quell’Ade / lo stesso che gonfia i semi / e apre la rosa. // Poi ti sollevi su quella terra scura / e ti giri a dirmi con calma meraviglia // “Ma in Australia non ci sono i leoni”.]

Il mito di Persefone, intrecciato con quello di Demetra, contiene gli opposti principi del divenire. In merito, è molto importante rilevare nella poesia della Vallerugo la fusione per così dire «ossimorica» di impulsi cristiani e riti pagani: ne La céna, una delle composizioni finali della prima sezione, una straordinaria ipotiposi della Storia depone sugli scalini dell’ossario di Redipuglia alcune uova, come una chioccia pietosa. Nonna e nipote sono insieme, per l’ultima cena («No stâmi lassâ. […] // Domàn a ti puârtin via», « Non lasciarmi […] //Domani ti portano via.»):

A son gjûs via dulcjus
i cenàn unmò insiémit ’snot.
Nissùn orloi da tirâ su
né sul scabèl né ta la Storia
c’a passa par câs di four, sul punt, direta in Centro
dopu ’vê fat i ous sui scjalìns si Redipuglia,
a si para via dal vistît, infastidîda, i rudinàs, la pôlvera.

[…]

Domàn a sarà una ’sornada perfeta
come un ouf. Come l’ouf
ch’i speli fra li mans, plan
par no disturbâ la tâ clara trasfigurassion
cul rumour da li speli c’a si distàchin.[8]

[Se ne sono andati via tutti / ceniamo ancora insieme questa sera. / Nessun orologio da caricare / né sul comodino né sulla Storia / che passa per caso di fuori, sul ponte, diretta in Centro / dopo aver deposto le uova sui gradini di Redipuglia, / si pulisce dal vestito, infastidita, i calcinacci, la polvere. / […] / Domani sarà una giornata perfetta / come un uovo. Come l’uovo / che sguscio tra le mani, piano / per non disturbare la tua chiara trasfigurazione / con il rumore del guscio che si stacca.]

Nel penultimo verso dell’ultima strofa, «trasfigurassion» vale anche più del suo corrispondente in lingua; si azzarda «transustanziazione». L’uovo diverrebbe così ostia, eucarestia, e sembrerebbe poter riconciliare gli estremi, essendo a un tempo bara e culla, simbolo di vita e di morte, quindi, come Persefone, figura di morte e di rinascita.

A un bel momento, però, Persefone non risuscita più. Le si sostituisce Euridice: a Sidney, Maa era tornata tra i vivi, richiamata dalla voce del marito – un inedito Orfeo che trionfa sull’Orco -; il 25 maggio 1979, la nonna se ne va per sempre.

L’ava ri-creata dalla memoria anche culturale dell’autrice (le si sovrappongono, s’è visto, Persefone, Demetra ed Euridice, le cui gesta sono state apprese dalla Vallerugo ai tempi della scuola) continua a trasferire nella vivente le proprie parole medunesi e le proprie movenze: è come se morti e vivi camminassero in parallelo su due sponde opposte, i cui confini però sono soltanto dipinti.

Maa racconta le sue storie; ad esempio ne Il macèl («Il macello»): «“Uchì, una volta”, e i tu sègni il prât, / “uchì al era un macèl a l’aria”» («“Qui, un tempo ”, e indichi il prato / “qui c’era un macello all’aperto”»). La nipote, incredula, guarda l’erba, la siepe, i confini, e si chiede dove siano i quarti di bue, il capro, «i agnei al fil spinât» («gli agnelli al filo spinato»), dove «li vìtimi c’a vàdin al curtìs» («le vittime che vanno al coltello»). Infine constata amaramente:

Ma nissun nissun a s’impênsa.
Nissun nissun a voul impensâssi, Mâri.
Oh, crôdi a un macel tal prât…[9]

[Nessuno nessuno ricorda. / Nessuno nessuno vuole ricordare, Madre. / Oh, credere a un macello nel nostro prato!]

Il capro espiatorio, gli agnelli dissanguati, vittime innocenti passate a fil di spada…: vien fatto di pensare, anche per motivi di vicinanza territoriale, a Trieste, alla Risiera di San Sabba più esattamente, e di lì ai Lager tedeschi, ai forni crematori.

Tornano alla mente il celebre attacco del The Waste Land di Thomas S. Eliot («April is the cruellest month, breeding / Lilacs out of the dead land»), il nosocomio di Via Lazzaretto assurto da Giovanni Raboni a simbolo della Storia («è tutto diverso dai viali / dove le ragazze sono sane e sottili»[10]), una lapidaria sentenza di Edmond Jabès («Il y a eu les charniers et l’herbe dessus, le champ. Les fleurs sont dans le coup. Elles ont été nourries d’os et de pensées d’os. Leur parfum est un parjure»[11]). Forando un po’, affiorerebbe anche la chiusa di una poesia di Durs Grümbein, simpateticamente tradotto da Anna Maria Carpi:

Là vidi Anteo mutato
in scavatrice

[…]

e fra orme di cingoli rimase questo
tracciato per cavi come una bruttura e
il giorno dopo scolpita nella memoria
la mattutina certezza:
che tanfo viene da questa terra se l’aprono.[12]

Noi si camminerebbe dunque su di un suolo cavo, sopra secoli di morte e di sepolture di morti, gli affaticati per eccellenza, senza riposo alcuno, anche se per loro si vuol sempre parlare di pace. La scomparsa della Maa Onda viene pertanto a coincidere non solo con la distruzione del mondo contadino, ma con le immani catastrofi della Storia del Ventesimo secolo. Tuttavia, limitatamente al mutamento antropologico che ha travolto il Friuli nel secondo dopoguerra – che dilata sul piano collettivo l’esperienza di sradicamento sofferta a livello individuale dalla poetessa -, scrive la Vallerugo:

Una grande leadûra
a tegnêva vissìn ogni cjo fâ dentri
il cuiét massàcr del cjo mont contadin
accetât come la ploia e il sec.[13]

[Un grande legame / univa ogni tuo fare dentro / il quieto massacro del tuo mondo contadino / accettato come la siccità e la pioggia]

Finisce così per prodursi una serie di rovesciamenti: “io” e “tu” si confrontano, spesso addirittura si confondono, a produrre un effetto “couche”[14], ovvero a tradurre il desiderio da parte della poetessa di un’autosepoltura, intesa come totale immedesimazione con l’ava defunta. Da L’aureç’:

i ràpis pì madûrs e viludâs
i ài leât in un mac pesant
e i lu puârti e i ti puârti
fia mê ta la muart
par blancj stradi c’a si dîsfin
bandonadi da la rasòn. (21)

[i grappoli più maturi e vellutati / ho legato in un mazzo pesante / e lo porto e ti porto / figlia mia nella morte / per bianche strade che si disfano / abbandonate dalla ragione.]

La figlia diviene così madre a sua volta e sorregge e conduce, come Enea il vecchio padre, l’anziana nonna, non attraverso una città in fiamme, ma lungo cammini che si presumono bianchi: «Indenant Rigjna, ava mê, canaùta / ch’i tu puârti su li spâli la tô fin»[15] («Avanti Regina, ava mia, bambina / che porti sulla spalle la tua fine»). Si tratta dei bianchi cammini di quella morte più vera e patita che è lo stillicidio del vivere giorno dopo giorno («i na pos pì da murî», «non ne posso più di morire»):

Ce tant dûre la muart?
No, la fin a é finîda.
A é finîda la fadîa
Da rinâssi ogni dì in cualchi mout.
Il murî di ogni dì, Maa, a é la muart
E jo i na pos pì da murî, Mâri.[16]

[Quanto dura la morte? / No, la fine è finita. / È finita la fatica / di rinascere ogni giorno in qualche modo. / Il morire di ogni giorno, Maa, è la morte / e io non ne posso più di morire, Madre.]

La «scura fadia / che dut ’a puarta e ’a trasforma»[17] («oscura fatica / che tutto spinge e trasforma») è, per citare ancora Brevini, «la musica profonda degli adagio della Vallerugo»[18], che ha saputo saldare con una efficacia straordinaria, ottenuta anche in virtù del recupero degli episodi mitici di cui sopra, sindrome psicologica e tragedia collettiva.

 

 


[1] I. Vallerugo, Maa Onda, Meduno, I quaderni del Menocchio 1997, p. 23. Le traduzioni in italiano sono dell’autrice. Una silloge della poetessa è stata inserita in *Nuovi poeti italiani 5, a c. di F. Loi, Torino, Einaudi 2004.

[2] I. Vallerugo, Maa Onda, cit., p. 40.

[3] F. Brevini, Le parole perdute. Dialetti e poesia nel nostro secolo, Torino, Einaudi 1990, p. 359.

[4] I. Vallerugo, Maa Onda, cit., p. 20.

[5] Ivi, p. 53.

[6] Ibidem. Si legga a questo proposito anche A dô vous, ivi, p. 115.

[7] Ivi, p. 31. La rôsa del v. 11 torna più volte all’interno della raccolta, e significativamente in un testo dal titolo Bucolica (Ivi, p. 135). Il commiato ultimo della Maa si compie la «lungja not del vinjancinc di mai» (Ivi, p. 185), la lunga notte del 25 maggio 1979, ed è maggio, non a caso, il mese delle rose. Questa frequenza di rosa e maggio, oltre a riportarci una ossessiva e celeberrima sequenza di Gertrude Stein («Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa»), ci ricorda che – in Mandel’stam, ad esempio – la rosa è simulacro del sole, quindi della vita.

[8] I. Vallerugo, Maa Onda, cit., p. 61.

[9] Ivi, p. 89.

[10] G. Raboni, Il catalogo è questo, in Id, Le case della Vetra (1966), ora in Id, Tutte le poesie (1951 – 1993), Milano, Garzanti 1997, p. 62.

[11] E. Jabès, Le Livre des questions, Paris, Gallimard 1973, p. 102. In italiano, la traduzione suona pressappoco così: «Ci furono i carnai, e l’erba sopra, un campo. Lo sanno bene i fiori: si sono nutriti di ossa e di pensieri di ossa. Il loro profumo è uno spergiuro».

[12] D. Grümbein, A metà partita (1988, 1991, 1994, 1999), traduzione di A.M. Carpi, Torino, Einaudi 2000, p. 25.

[13] I. Vallerugo, Maa Onda, cit., p. 183.

[14] Cfr. A. Nicoloso Ciceri, Presentazione a I. Vallerugo, Maa Onda, cit., p. 12.

[15] I. Vallerugo, Maa Onda, cit., p.119.

[16] Ivi, p. 183.

[17] Ibidem.

[18] F. Brevini, op. cit., p. 361.