Pepi Merisio: “Decisivo non è l’attimo, ma lo sguardo”

da | Lug 20, 2015

Questa intervista è uscita sul numero 23 di Il Reportage.

“In fotografia, decisivo non è l’attimo, ma lo sguardo di chi sa cogliere l’istante irripetibile di un momento, il dettaglio di ciò che appare. È sempre il fotografo che decide quando è il momento decisivo”.

Pepi Merisio, il fotografo amato da Mario Luzi. Con il poeta fiorentino Merisio ha condiviso lunghi anni di amicizia e di frequentazione. Insieme hanno pubblicato il volume Mi guarda Siena, dedicato alla città toscana con testi e poesie di Luzi e fotografie del maestro bergamasco. Che ha sempre avuto una sensibilità particolare per la poesia e la letteratura. Merisio ha collaborato anche con Guido Piovene, con il quale ha esplorato e messo in luce angoli nascosti del nostro paese. Nel lavoro di questo fotografo decisivo è l’intreccio dell’immagine con la parola, a partire dall’attenzione per il dettaglio; le sue fotografie, al pari di una poesia, possono essere lette a diversi livelli di significato.

Decano del fotogiornalismo italiano, Pepi Merisio, cresciuto nel pieno della disfatta fascista e testimone critico della rinascita nazionale, ha vissuto direttamente l’abbandono delle campagne e l’esplosione della società dei consumi. Per questo, divenuto protagonista della stagione d’oro del fotoreportage italiano (assieme a Berengo Gardin, Giacomelli, Dondero e al poco più giovane Scianna), nella sua indagine sociale ha scelto di rappresentare non i lustrini del Boom, ma la cecità di uno sviluppo che ha strappato il nostro Paese alle sue radici contadine. Proprio questa ferita è il cuore filosofico della sua ricerca fotografica. Attento osservatore del contesto antropologico e del paesaggio meno monumentale, Pepi Merisio ha reso leggibile la complessità del mondo con quel suo modo diretto e senza scorciatoie di guardare dritto negli occhi. La sua grandezza è la semplicità. “I fotografi della mia generazione pensavano tutti la stessa cosa pur essendo diversi. L’originalità non era per noi un’ossessione, come invece mi pare sia oggi per le nuove generazioni”.

Quando ha deciso di diventare un fotografo professionista?

Ho sempre avuto una grande passione per la fotografia. A venticinque anni ho cominciato a diventare un dilettante evoluto fino a quando, a trent’anni, all’inizio degli anni Sessanta è iniziata la mia collaborazione con “Epoca”, che allora in Italia era come la rivista “Life”. Tutto è cominciato dopo il mio servizio “In morte dello zio Angelo”: il direttore di allora, Nando Sampietro, rimase molto colpito da questo mio lavoro, mi volle conoscere e mi chiese se volevo entrare nello staff della rivista; così è iniziata la mia collaborazione decennale con “Epoca”. Per questo settimanale ho seguito il papato di Paolo VI in Italia e nel mondo, oltre a molti reportage in Africa e in Asia.

Quali sono stati i suoi punti di riferimento?

La grande fotografia americana. Allora i miei maestri ideali erano i fotografi di “Life” e soprattutto della “Farm Security Administration”, molto famosa a quell’epoca. A questa scuola mi sono molto ispirato per fotografare il nostro Paese negli anni Sessanta, in un momento di grandi mutazioni per la società italiana. Ho sempre preferito Eugene Smith rispetto a Cartier-Bresson: il primo molto più impegnato mentalmente nella sua ricerca sul linguaggio fotografico.

Quali sono i suoi soggetti preferiti?

La presenza umana tutta. Nel senso che io fotografo allo stesso modo il contadino come il Papa. Il rapporto che stabilisco con il soggetto è umano, appunto; non inseguo effetti particolari o spettacolari. Nelle foto cerco di essere il più realista possibile.

Tra i suoi lavori più conosciuti ci sono le fotografie che ha dedicato al mondo del lavoro. Come è nato questo progetto?

Ho iniziato fotografando proprio il luogo dove ero nato: Caravaggio, nella bassa bergamasca, un mondo di contadini e gente semplice, i norcini che andavano in tutte le case, anche nella mia, ad ammazzare il maiale. Allora il lavoro lo si vedeva con gli occhi, soprattutto nell’ambiente popolare. Ho poi fotografato il mondo dell’industria, soprattutto a Milano. Proprio qui ho scattato molte foto della Darsena, che adesso è tornata di moda con Expo; allora c’erano enormi barconi di sabbia, le gru ed era il terzo porto d’Italia per tonnellaggio, con decine di scaricatori. Funzionava ancora secondo il progetto di Leonardo da Vinci. Milano allora era molto democratica, era molto “paese”, potremmo dire, rispetto ad oggi.

Ha sempre scelto di fotografare un mondo del lavoro particolare, quello della tradizione popolare. Perché?

Soprattutto per il “Touring” ho fotografato il lavoro degli operai dell’Ansaldo di Genova, della Fiat di Torino, della Magneti Marelli di Milano, ma anche i lavoratori della Borsalino. Ho sempre scelto di fotografare il mondo dell’industria con l’occhio dell’operaio, non del dirigente o dell’ingegnere. Ho sempre visto il lavoro attraverso l’uomo, la sua opera; non mi ha mai interessato il risultato, il prodotto della sua fatica. Mi sono calato dentro i luoghi, nei reparti delle fabbriche. E il mio rapporto con chi ci lavorava è sempre stato chiaro e onesto.

Oggi riuscirebbe ancora a fotografare il mondo del lavoro?

È molto più difficile, perché tutto si è standardizzato. Lo standard è contro la fotografia, forse ha più a che vedere con il cinema che è movimento, dove la persona quasi tende a scomparire. Allora c’era una differenza quasi di classe anche all’interno degli operai stessi, che dipendeva da dove si lavorava. Per esempio, un conto era lavorare alla Fiat, un altro alla Magneti Marelli. Oggi tutto si è livellato.

Lei una volta ha detto che un tempo fotografare era più facile e che ora c’è bisogno di didascalie per dare identità alle persone. Ci spieghi meglio.

Oggi non è più possibile distinguere i diversi mondi del lavoro, sembra venuta meno una dignità, un orgoglio del lavoro. La fotografia di allora documentava proprio questo. Oggi è difficile fare dei saggi storici sulle fotografie di adesso, mentre si studiano le fotografie di quarant’anni fa, che sapevano cogliere le differenze dei luoghi, delle persone.

In che modo una fotografia può raccontare la complessità del mondo?

Ogni fotografia è una narrazione. In ogni immagine fotografica sussistono fatti, situazioni, oggetti proposti con minuzia di particolari: una somma di dati interna concatenati tra loro in virtù del fatto d’essere stati presenti, realmente esistiti, al momento dello scatto. Un fotografo racconta la complessità di ciò che sta intorno quando meno pensa di raccontarla. Per questo deve andare sui luoghi con un animo libero pronto a cogliere senza pregiudizi quello che accade.

In che rapporto stanno testimonianza ed estetica nel suo lavoro?

Sono due aspetti che vanno assieme. L’estetica è dentro la testimonianza e ha a che fare con l’etica. Quando ho fotografato il mondo dei pastori in Valtellina o in val di Mello avevo un’idea precisa di estetica: componevo le foto vedendo le scene prima dentro di me e rifacendomi inconsapevolmente a tutta una cultura di arte e scultura.

Che importanza ha per lei la scelta della fotografia in bianco e nero? È solo un fatto estetico?

Quando ho iniziato a fotografare è stata una scelta di necessità perché allora esisteva solo il bianco e nero. Poi è venuto il colore che nel tempo si è affinato fino ad oggi in cui abbiamo un colore oggettivo che possiamo usare come vogliamo. Poi ci sono state tante mode, come il cibacrhome, che ha liberato da schemi angusti le prime fotografie a colori. Il bianco e nero è stato per me una scelta fondamentale, anche perché allora stampavo direttamente io le fotografie scegliendo nei dettagli l’intensità che volevo dare all’immagine. Il bianco e nero era per me una forma di creazione: si partiva dal nulla, dal negativo, dall’ingrandimento fino allo sviluppo e alla nascita della fotografia vera e propria. La forza del bianco e nero è irraggiungibile. Ogni fotografo esprime nel bianco e nero la propria personalità e resta ancora oggi la spina dorsale della fotografia.

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Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).