E’ appena uscito il Meridiano Tutte le poesie di Wallace Stevens, a cura e con un saggio introduttivo di Massimo Bagicalupo (Mondadori, 2015). Di seguito una scelta.
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Da Armonium (1923)
ANEDDOTO DI UOMINI A MIGLIAIA
L’anima, disse, è composta
del mondo esterno.
Ci sono uomini dell’Est, disse,
che sono l’Est.
Ci sono uomini di una provincia
che sono quella provincia.
Ci sono uomini di una valle
che sono quella valle.
Ci sono uomini le cui parole
sono come suoni naturali
dei loro luoghi
come il chiocciare dei tucani
nel luogo dei tucani.
Il mandolino è lo strumento
di un luogo.
Ci sono mandolini delle montagne occidentali?
Ci sono mandolini del chiar di luna settentrionale?
Il vestito di una donna di Lhasa,
nel suo luogo,
è un elemento invisibile di quel luogo
fatto visibile.
*
IL LUOGO DEI SOLITARI
Fa’ che il luogo dei solitari
sia un luogo di perpetua ondulazione.
Si trovi in alto mare
o sulla verde, scura ruota d’acqua,
o sulle rive,
non vi deve essere alcuna interruzione
del movimento o del suono del movimento,
il rinnovarsi di suono
e molteplice continuazione;
e soprattutto del movimento del pensiero
e la sua insonne iterazione,
nel luogo dei solitari,
che deve essere un luogo di perpetua ondulazione.
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Da Idee dell’ordine (1936)
ADDIO ALLA FLORIDA
I
Procedi, alta nave, poiché ora sulla sponda
il serpente ha lasciato la pelle sulla terra.
Key West è affondata sotto nuvole massicce
e argenti e verdi hanno cosparso il mare. La luna
è in capo all’albero e il passato è morto.
La sua mente non mi parlerà mai più.
Sono libero. Alta sopra l’albero la luna corre
affrancata dalla sua mente e le onde fanno
un ritornello del serpente che ha deposto la pelle
sulla terra. Procedi nel buio. Le onde volano a poppa.
IV
Il mio Nord è spoglio, giace in un fango invernale
di uomini e nuvole, un fango di uomini a folle.
Gli uomini corrono come corre l’acqua,
quest’acqua oscura solcata da cupi marosi
contro i tuoi bordi, che strattonano e scorrono,
l’oscurità spezzata, turbolenta di schiuma.
Essere di nuovo libero, ritornare alla mente violenta
che è la loro mente, questi uomini, e che mi legherà,
conducimi, tolda nebbiosa, conducimi al freddo,
procedi, alta nave, procedi, rituffa la prora.
*
COME VIVERE. COSA FARE
Ieri sera la luna si alzò su questa roccia,
impura sopra un mondo non purgato.
L’uomo e la sua compagna sostarono
a riposare dinanzi alla sua eroica altezza.
Freddo il vento cadde su di loro
in molte sovranità di suono:
avevano lasciato il sole striato di fiamma
per cercare un sole dal fuoco più intenso.
Invece c’era questa roccia impennacchiata
che sorgeva massiccia, alta e nuda,
oltre tutti gli alberi, gettando i crinali
come braccia gigantesche fra le nubi.
Non c’era né voce né crestata immagine,
né corista, né prete. C’era solo
la grande altezza della roccia
e loro due fermi a riposare.
C’era il vento freddo e il suono del vento,
lontano dal fango della terra
che avevano lasciato, un suono eroico
gioioso e giubilante e certo.
*
RIAFFERMAZIONE DEL ROMANTICO
La notte non sa nulla dei canti della notte.
È quel che è come io sono quel che sono:
e nel percepire ciò percepisco meglio me stesso
e te. Solo noi due possiamo scambiare
ciascuno con l’altro quel che ciascuno ha da dare.
Solo noi due siamo uno, non tu e la notte,
né la notte e io, ma tu e io, soli,
tanto soli, così profondamente con noi,
così distanti dalle solitudini casuali,
che la notte è solo sfondo ai nostri io,
supremamente fedeli ciascuno al suo diverso io,
nella luce pallida che ciascuno getta sull’altro.
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Da L’uomo con la chitarra blu (1937)
L’UOMO CON LA CHITARRA BLU
XVIII
Un sogno (diciamo così) in cui
posso credere, in faccia all’oggetto,
un sogno non più sogno, una cosa,
delle cose come sono, come la chitarra blu
a lungo strimpellata certe notti
dà il tocco dei sensi, non della mano,
proprio i sensi nell’atto di toccare
la glossa del vento. O quando viene il giorno,
la luce in un rispecchiarsi di scogliere,
che si alzano da un mare di ex.
XIX
Poter ridurre il mostro
a me stesso, e poi essere me stesso
in faccia al mostro, essere più che parte
di esso, più che il suonatore mostruoso
di uno dei suoi liuti mostruosi, non essere
solo, ma ridurre il mostro ed essere,
due cose, le due insieme come una,
e suonare del mostro e di me stesso,
o meglio niente affatto di me stesso,
ma di esso in quanto sua intelligenza,
essendo il leone nel liuto
davanti al leone nella pietra.
XXI
Un sostituto per tutti gli dèi:
questo io, non quell’io dorato in alto,
solo, la propria ombra ingrandita,
signore del corpo, che guarda giù,
come ora e chiamato altissimo,
l’ombra del Chocorua
in un cielo più immenso, in alto,
solo, signore della terra e signore
degli uomini che vivono sulla terra, alto signore.
Il proprio io e i monti della propria terra,
senza ombre, senza magnificenza,
carne, ossa, polvere, pietra.
XXII
La poesia è il soggetto del poema,
da questo il poema ha origine,
a questo ritorna. Fra i due,
fra origine e ritorno, c’è
un’assenza nella realtà,
le cose come sono. O così diciamo.
Ma sono poi separati? È un’assenza
per il poema, che vi acquista
i suoi tratti veri, verde di sole, rosso
di nube, senso di terra, cielo che pensa?
Da questi esso prende. Forse dà,
nel rapportarsi universale
XXVIII
Sono nativo di questo mondo
e penso in esso come un nativo,
Gesù, non nativo di una mente
che pensa i pensieri che dico miei,
nativo, un nativo nel mondo,
e come un nativo ci penso dentro.
Non potrebbe essere una mente, l’onda
in cui le erbe acquose scorrono
eppure sono fisse come una foto,
il vento in cui le foglie morte volano.
Respiro qui una forza più fonda
e, così come sono, io parlo e mi muovo,
e le cose sono come penso che sono
e dico che sono sulla chitarra blu.
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Da Parti di un mondo (1943)
DAME UNITE D’AMERICA
Je tâche, en restant exact, d’être poète.
Jules Renard
Non ci sono abbastanza foglie per coprire la faccia
che porta. L’oratore parlò così:
«La massa è niente. Il numero degli uomini in una massa
d’uomini è niente. La massa non è maggiore
del singolo della massa. Ciascuna massa
produce il suo paradigma.» Non ci sono foglie
abbastanza per nascondere la faccia dell’uomo
di questa e quella massa morta. Il vento può riempirsi
di facce come di foglie, turbinare di bocche,
e di bocche che gridano e gridano di giorno in giorno.
Potrebbero tutte queste essere noi, dar voce a noi,
le nostre facce circolare intorno a una faccia centrale
e poi ancora da nessuna parte, lontano e lontano?
Eppure una faccia continua a tornare (mai quell’una),
la faccia dell’uomo della massa, mai la faccia
che l’eremita sulla scogliera nera avrebbe visto,
mai il politico nudo istruito
dai saggi. Non ci sono foglie abbastanza per coronare,
per coprire, coronare, coprire – lasciamo andare –
l’attore che in ultimo declamerà la nostra fine.
*
UOMO E BOTTIGLIA
La mente è il grande poema dell’inverno, l’uomo,
che, per trovare ciò che sarà sufficiente,
distrugge caseggiati romantici
di rosa e ghiaccio
nella terra della guerra. Più che l’uomo, è
un uomo con la furia di una razza di uomini,
una luce al centro di molte luci,
un uomo al centro di uomini.
Deve soddisfare la ragione riguardo la guerra,
deve persuadere che la guerra è parte di sé,
una maniera di pensare, un modo
di distruggere, come la mente distrugge,
un abbandono, come il mondo abbandona
una vecchia illusione, un vecchia relazione col sole,
un’aberrazione impossibile con la luna,
una bassezza di pace.
Non è la neve che è la penna, la pagina.
Il poema sferza più selvaggio del vento, mentre la mente
distrugge abitazioni romantiche di rosa e ghiaccio
per trovare ciò che sarà sufficiente.
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Da Trasporto all’estate (1947)
GIGANTOMACHIA
Non potevano portare molto, come soldati.
Non c’era passato nel loro dimenticare,
nessun io nella massa: l’essere più coraggioso,
il corpo che mai poteva essere ferito,
la vita che non sarebbe mai finita, non importa
chi moriva, l’essere che era un’astrazione,
un cuore di gigante nelle vene, tutto coraggio.
Ma spogliarsi delle inezie compiacenti,
espellere le seduzioni onnipresenti,
rifiutare il copione per il suo non-tragico,
affrontare con l’occhio più ordinario i cambiamenti,
questo era guardare ciò che la guerra accresceva.
Era incrementato, ingrandito, reso semplice,
reso singolo, reso uno. Questo non era negare.
Ogni uomo in sé diveniva un gigante,
circonfuso di ampiezza, sostenendo il pesante
e l’alto, ricevendo dagli altri,
come da un’inumana elevazione
e origine, un’inumana persona,
una maschera, uno spirito, un equipaggiamento.
Per i soldati la luna nuova misura venti piedi.
*
UOMO CHE PORTA UN OGGETTO
La poesia deve resistere all’intelligenza
quasi con successo. Illustrazione:
Una figura bruna nella sera d’inverno resiste
all’identità. La cosa che porta resiste
al senso più necessario. Si accettino, dunque,
come secondarie (parti non proprio percepite
del tutto ovvio, particelle incerte
del solido certo, il primario libero da dubbi,
cose fluttuanti come i primi cento fiocchi di neve
da una bufera che dobbiamo subire tutta la notte,
da una bufera di cose secondarie),
un orrore di pensieri che a un tratto sono reali.
Dobbiamo subire i nostri pensieri tutta la notte, finché
l’ovvio luminoso svetta immoto nel freddo.
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Da Le aurore d’autunno (1950)
LE AURORE D’AUTUNNO
II
Addio a un’idea… Una capanna sta,
abbandonata, su una spiaggia. È bianca,
come per un costume o conforme
a un tema ancestrale o quale conseguenza
di un corso infinito. I fiori contro il muro
sono bianchi, un poco secchi, una sorta di segno
che ricorda, cerca di ricordare, un bianco
che era diverso, un’altra cosa, l’anno scorso
o prima, non il bianco di un pomeriggio invecchiato,
più fresco o più spento che sia, di nuvola invernale
o di cielo invernale, da orizzonte a orizzonte.
Il vento soffia la sabbia sull’impiantito.
Qui, essere visibile è essere bianco,
è essere del solido del bianco, l’esito
di un estremista in un esercizio…
La stagione cambia. Un vento freddo raggela la spiaggia.
Le sue lunghe linee diventano più lunghe, più vuote,
un’oscurità si accumula ma senza cadere
e il biancore diviene meno vivido sul muro.
L’uomo che cammina si volta attonito sulla sabbia.
Osserva come il nord vada sempre espandendo il [cambiamento,
con i suoi bagliori frigidi, le sue distese rosso-blu
e folate di grandi falò, il suo verde polare,
il colore del ghiaccio e fuoco e solitudine.
III
Addio a un’idea… Il viso della madre,
lo scopo del poema, riempie la stanza.
Sono insieme, qui, ed è caldo,
senza nessun presagio di sogni imminenti.
È sera. La casa è sera, per metà dissolta.
Solo la metà che non possono mai possedere rimane,
sotto tacite stelle. È la madre che possiedono,
che dà trasparenza alla loro pace presente.
Ingentilisce quel che ingentilire si può.
Eppure anche lei è dissolta, distrutta.
Dà trasparenza. Ma s’è fatta vecchia.
La collana è un intaglio non un bacio;
le mani morbide movimento non contatto.
La casa crollerà e i libri bruceranno.
Riposano in un riparo della mente
e la casa è della mente ed essi e il tempo,
insieme, tutti insieme. La notte boreale
sembrerà gelo avvicinandosi a loro
e alla madre mentre si addormenta e mentre
dicono buonanotte, buonanotte. Di sopra
le finestre saranno illuminate, non le stanze.
Un vento spargerà le sue folate grandiose
e percuoterà la porta come il calcio di un fucile.
Il vento li comanderà con suono invincibile.
IV
Addio a un’idea… Le cancellazioni, le negazioni
non sono mai definitive. Il padre siede
in uno spazio, dovunque sieda, di tetra vista,
come uno forte nei cespugli dei suoi occhi.
Dice no al no e sì al sì. Dice sì
al no, e nel dire sì dice addio.
Misura le velocità del cambiamento.
Balza di cielo in cielo più rapidamente
degli angeli malvagi da cielo a inferno in fiamme.
Ma ora siede nella quiete e verde-giorno.
Assume le grandi velocità dello spazio e le agita
da nuvolo a schiarita, schiarita a sereno terso
in voli di occhio e orecchio, l’occhio più alto
e l’orecchio più basso, l’orecchio profondo che discerne,
a sera, cose che lo scortano finché ode
i preludi soprannaturali suoi propri,
nel momento in cui l’occhio angelico definisce
i suoi attori che sopraggiungono in compagnia, in [maschera.
Maestro oh maestro seduto presso il fuoco
eppure in spazio e immoto eppure
del moto la sempre-più luminosa origine,
profondo, eppure re eppure corona,
guarda questo trono presente. Quale compagnia,
in maschera, può far coro col vento nudo?
*
IMAGO
Chi solleverà il peso dell’Inghilterra,
chi smuoverà il carico tedesco
o dirà ai francesi qui è di nuovo Francia?
Imago. Imago. Imago.
Non è nulla, niente di grande, nemmeno un uomo
dalle dieci lucentezze d’oro ammaccato
e pietra portafortuna. Sciorina la sua parata
di movenze nella mente e nel cuore,
una magnifica fortezza. L’uomo medio
a febbraio ode gli inni dell’immaginazione
e vede le sue immagini, le sue movenze
e moltitudini di movenze
e sente le clemenze dell’immaginazione,
in una stagione più che di sole e austro,
un ritorno da un luogo più profondo,
un ghiacciaio che scorre nel delirio,
che fa di questa pesante roccia un posto,
che delle nostre vite non è composto…
Lieve, lieve, o terra mia,
va’ ancora una volta lievemente per l’aria.
*
METAFORA COME DEGENERAZIONE
Se vi è un uomo bianco come il marmo
che siede in un bosco, nella parte più verde,
meditando suoni delle immagini della morte,
così vi è un uomo nello spazio nero
che siede in nulla che conosciamo
meditando suoni di rumori di fiume;
e queste immagini, queste riverberazioni,
e altre, danno certezza che l’essere
include la morte e l’immaginazione.
L’uomo di marmo rimane se stesso nello spazio.
L’uomo nel bosco nero discende immutato.
È certo che il fiume
non è Swatara. Il fiume scuro
che scorre intorno alla terra e per i cieli,
serpeggiando fra gli spazi universali,
non è Swatara. È l’essere.
Questo è il fiume variamente variegato, l’acqua,
la luminosità increspata… o è l’aria?
Come sarebbe, allora, degenerazione la metafora,
se Swatara diviene questo fiume ondoso
e il fiume diviene l’oceano senza terra, senz’acqua?
Qui le viole nere scendono fin sugli argini
e i muschi memori vi appendono sopra
il loro verde, mentre continua a scorrere.
***
Da La roccia
UN VECCHIO ADDORMENTATO
I due mondi sono addormentati, dormono, ora.
Un senso muto li possiede in una sorta di solennità.
L’io e la terra: i tuoi pensieri, sentimenti,
le convinzioni e negazioni, tutto il tuo spazio;
il rosso dei tuoi castagni rossastri,
il moto del rivo, il moto sonnolento del rivo R.
*
LA ROCCIA
II
IL POEMA COME ICONA
Non basta coprire la roccia di foglie.
Dobbiamo guarirne con una cura della terra
o una cura di noi stessi che sia eguale a una cura
della terra, una cura oltre la dimenticanza.
E tuttavia le foglie, se venissero in boccio,
se venissero in fiore, se dessero frutto,
e se noi mangiassimo i colori incipienti
del fresco raccolto, potrebbero curare la terra.
La finzione delle foglie è icona
del poema, la figurazione della beatitudine,
e l’icona è l’uomo. La corona perlata di primavera,
l’ampia ghirlanda d’estate, la cuffia autunnale del tempo,
la sua copia del sole, queste coprono la roccia.
Le foglie sono poema, icona, uomo.
Sono una cura della terra e di noi stessi,
nel predicato che altro non c’è.
Sbocciano, fioriscono e fruttano senza mutamento.
Sono più di foglie che coprono la sterile roccia,
germogliano con l’occhio più bianco, il getto più pallido,
nuovi sensi nelle generazioni del senso,
il desiderio di giungere al termine delle distanze,
il corpo ridesto, la mente in radice.
Fioriscono come un uomo ama, come vive e ama.
Danno frutto perché l’anno possa conoscersi,
come se comprenderlo fosse buccia bruna,
il miele nella polpa, l’ultimo trovare,
la pienezza dell’anno e del mondo.
Nella pienezza il poema cava sensi dalla roccia,
con moti tanto vari e tali immagini
che la sua sterilità diviene mille cose
e non esiste più. Questa è la cura
delle foglie, della terra e di noi stessi.
Le parole sono insieme icona e uomo.
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Da Opus postumum
AMERICANA
I primi aruspici della terra, l’uomo
nel campo, l’uomo sul lato del colle, tutti
in una salute del clima, che sanno alcune vecchie cose
(remoti dal mortifero uomo in generale,
la sovrappopolazione dell’idea, le voci
difficili da distinguere dai pensieri, il rimbombo
di altre vite che diviene un totale rimbombo,
un senso separato che riceve e trattiene gli altri,
quel che è umano eppure conclusivo, come
uno che si guarda nello specchio e trova
che è l’uomo nello specchio quello vivo, non lui.
Egli è l’immagine, il secondo, l’irreale,
l’astrazione. Abita in un altro uomo,
altri uomini, non quest’erba, quest’aria valida.
Non è se stesso. Soffre d’una privazione essenziale…)
A questo pensa mentre la kermesse scamosciata,
in un ritorno, una sembianza di ritorno,
sbandiera quella prima fortuna, che tanto desiderava.
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Da Adagi
La relazione fra la poesia dell’esperienza e la poesia della retorica non è lo stesso che la relazione fra la poesia della realtà e quella dell’immaginazione. L’esperienza, perlomeno nel caso di un poeta di qualche spessore, è assai
più vasta della realtà.
Ci sono due opposti: la poesia della retorica e la poesia dell’esperienza.
Non tutti gli oggetti sono eguali. Il vizio dell’imagismo è che non l’ha riconosciuto.
Tutta la poesia è poesia sperimentale.
L’immagine nuda e l’immagine come simbolo sono il contrasto: l’immagine senza significato e l’immagine come significato. Quando l’immagine è usata per suggerire dell’altro,è secondaria. La poesia, in quanto prodotto dell’immaginazione, consiste di più di quanto sta in superficie.
In poesia devi amare le parole, le idee e le immagini e i ritmi con tutta la capacità del tuo amore.
Le cose viste sono cose come viste. Reale assoluto.
La poesia non è un fatto personale.
La poesia si legge con i propri nervi.
Il poeta è l’intermediario fra le persone e il mondo in cui vivono e anche fra le persone fra di loro; ma non fra le persone e qualche altro mondo.
L’immaginazione è il romantico.
La poesia non è la stessa cosa dell’immaginazione presa da sola. Niente è se stesso se preso da solo. Le cose sono in virtù di interrelazioni e interazioni.
La fede ultima è credere in una finzione, che si sa essere una finzione, non essendoci nient’altro. La verità squisita è sapere che è una finzione e che vi si crede volontariamente.
La poesia è l’espressione dell’esperienza della poesia.
Vivere nel mondo ma al di fuori delle concezioni esistenti di esso.
Sono le spiegazioni delle cose che diamo a noi stessi che svelano il nostro carattere: i temi delle proprie poesie sono i simboli del proprio io o di uno dei propri io.
La poesia deve essere qualcosa di più di una concezione della mente. Deve essere una rivelazione della natura. Le concezioni sono artificiali. Le percezioni sono essenziali.
Leggere una poesia dovrebbe essere un’esperienza, come fare esperienza di un’azione.
Non si scrive per nessun lettore tranne uno.
Il valore ultimo è la realtà.
Il realismo è una corruzione della realtà.
Tutta la storia è storia moderna.
La poesia è la somma dei suoi attributi.
Non credo si debba sostenere a tutti i costi che il poeta è normale o, del resto, che lo sia chiunque.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).