Sul numero 70 di Nuovi Argomenti “Dite quel…BIP…che vi pare” (in libreria dal 26 maggio) dedicato alla libertà d’espressione, abbiamo fatto dieci domande a una settantina di scrittori, poeti e intellettuali italiani. In occasione dell’uscita del numero ne pubblichiamo qui degli assaggi. Dopo Loredana Lipperini, Erri De Luca, Walter Siti, Nicola Lagioia, e altri, pubblichiamo le risposte di Niccolò Scaffai.
1. La libertà d’espressione deve tener conto di altre libertà (per esempio legate a: religione, credo politico, ruoli istituzionali, memoria storica, ecc.) o non deve essere limitata? Quali dovrebbero essere gli eventuali limiti e chi dovrebbe deciderli?
La libertà d’espressione è una conquista civile che non può essere revocata. Come ogni forma di libertà, implica però anche una responsabilità. In certi casi, questa responsabilità appartiene al singolo, che dovrebbe esercitarla nel rispetto di persone e valori, di sé stesso e degli altri. Ma a volte la responsabilità non può essere ispirata solo dalla sensibilità etica e sociale del singolo, è necessario porre dei limiti. L’idea di limite precede in certa misura l’espressione stessa, le dà senso e ragione; non deve essere ridotta a forma di ritorsione. Come ha spiegato Tzvetan Todorov (nei saggi I nemici intimi della democrazia e La paura dei barbari, su cui è tornato nell’intervista uscita su «la Repubblica» lo scorso 20 marzo), sicurezza, giustizia, uguale dignità sono valori che, in democrazia, rappresentano il giusto bilanciamento della libertà di espressione. L’esperienza e la Storia stessa dovrebbero suggerire gli ambiti in cui oltrepassare i limiti non è solo moralmente scorretto ma anche materialmente dannoso: espressioni di razzismo e omofobia, per esempio, non possono non essere censurate. Alcuni ambiti di censura sono legati a circostanze storiche (il reato di apologia del fascismo), altri dovrebbero essere considerati irrevocabili (e sottratti perciò a speculazioni relativistiche).
A decidere non tanto quali siano i limiti, ma quali provvedimenti prendere verso chi li oltrepassa in modo grave e pericoloso, sono le leggi democraticamente approvate. Ogni forma di provvedimento e condanna che prescinde dalla dimensione legale può avere conseguenze aberranti: il caso più recente e atroce è l’assassinio dei collaboratori del giornale satirico «Charlie Hebdo». Un giornale protervo, sconsiderato, islamofobo? Se anche fosse, quel che è accaduto non ha a che fare con il rispetto e la difesa di alcun valore o libertà.
2. Rappresentazione artistica e opinione personale dovrebbero godere dello stesso grado di libertà di espressione?
Non credo si tratti di una questione di grado, quanto di una differenza di fondo tra la comune espressione personale e l’espressione artistica. Tra i fondamenti del nostro concetto di arte c’è l’idea kantiana della sua autonomia rispetto alla sfera del giudizio morale (un’idea coerente con quella crociana, che tanta influenza ha avuto nella cultura italiana). Ma la differenza non va vista solo a parte subiecti (cioè dalla prospettiva di chi giudica l’arte) ma anche a parte obiecti (cioè in base alla caratteristiche intrinseche a un’opera). Come ha insegnato Francesco Orlando, nelle migliori opere d’arte (testi letterari, in questo caso) convivono istanze opposte: quelle del represso e quelle del soggetto che esercita la repressione. L’espressione di un’istanza non esclude l’altra; ciò incide (e prevale) su eventuali trasgressioni rispetto alla morale riconosciuta e alle leggi vigenti.
Contano su questo, e ne fanno anzi una risorsa narrativa, gli scrittori che si rappresentano nei panni di un doppio amorale: penso al protagonista del primo romanzo di Walter Siti, Scuola di nudo (1994). Ma è in genere l’autofiction che intercetta problemi di questa natura. La scrittrice francese Marie Darrieussecq, ad esempio, è stata accusata di plagio e «usurpazione d’identità» dalla collega Camille Laurens, per via di un romanzo, Tom est mort, in cui racconta un trauma simile a quello vissuto realmente dalla stessa Laurens: Darrieussecq ne parla nel suo Rapporto di polizia, del 2010, su cui è apparso un mio scritto in «Between», 2 (2012) 3, cui rimando per il nesso con le questioni trattate qui e qui.
3. Dovrebbe essere diversa la libertà d’espressione di cui si può usufruire in ambito pubblico e in ambito privato? Perché?
Sì, penso che il grado di libertà in pubblico e in privato debba o possa essere diverso. Ciò che viene detto in privato (e ciò che in privato viene fatto, nei limiti della legalità) può esprimere un sentire idiosincratico, un umore transitorio, un gusto ironico e paradossale. I pensieri destinati a rimanere dentro una cerchia ristrettissima non sono vincolati al dovere di razionale condivisione che spesso ci guida nel momento in cui si prende la parola in pubblico, quando si entra in rapporto dialettico con valori e giudizi altrui.
Un problema oggi è rappresentato dal fatto che, per esempio attraverso i social network, le soglie tra pubblico e privato si assottigliano e non è raro che opinioni e altre tracce personali vengano sconsideratamente condivise in pubblico. È normale spossessarsi in parte delle opinioni che esprimiamo (a un critico può accadere spesso), tempo dopo averle espresse o quando le rileggiamo nero su bianco. Ma la moltiplicazione delle possibilità di pronunciarsi pubblicamente, unita a una debole percezione della differenza tra privato e collettivo, può produrre danni, degradando l’opinione a chiacchiera o insulto.
4. È giusto limitare la libertà di un cittadino di esporre o indossare simboli religiosi, politici, ecc.? Se sì, in che misura?
No, penso che non sia giusto, se si tratta di veri e propri simboli di una religione e se parliamo della libertà dei singoli. Ma sono incerto sulla legittimità di considerare come simboli propriamente religiosi alcuni indumenti. L’esempio cruciale è il velo, sia perché ormai molto diffuso, sia perché in Francia e altrove ha già suscitato dibattiti e provvedimenti. Personalmente, direi che la libertà di indossare un indumento come il velo diviene problematica solo se rende inaccessibile la soglia dell’incontro civile e rischia di essere uno strumento di segregazione invece che di protezione: su questo non ammetterei relativismi. Sono contrario perciò solo all’uso del velo integrale in contesti pubblici, civili, extrareligiosi. Il discorso è diverso per le istituzioni pubbliche (penso in particolare alla scuola); se, infatti, mi colpiscono le reazioni veementi di alcuni genitori che si dicono offesi dai crocifissi nelle aule (e affermano che i loro figli sarebbero spaventati da ciò che, alla lettera, quel simbolo rappresenta), è pur vero che nelle nostre scuole (come in altri ambiti della vita civile) convivono cittadini di fede diversa (o di nessuna fede) e privilegiarne in sedi pubbliche una e una sola è anacronistico.
5. Chi difende o appoggia pubblicamente atti violenti o illegali dovrebbe esserne considerato corresponsabile sotto un profilo etico e giuridico, o dovrebbe avere diritto a esprimere liberamente la propria convinzione?
Sotto un profilo etico sì, anche se la responsabilità può avere gradi diversi, in base alle circostanze in cui l’appoggio è stato espresso. Il consenso ideologico è (e vuole essere) sempre anche una forma di adesione etica.
Sotto il profilo giuridico, la questione è diversa. Il criterio di valutazione dovrebbe basarsi sulla presenza di prove inequivocabili, che colleghino direttamente l’istigazione o l’apologia del reato a conseguenze gravi e precise del reato stesso. In questi giorni, il tema è tornato di attualità a proposito del caso Erri De Luca; com’è noto, lo scrittore è stato rinviato a giudizio, in seguito a denuncia della ditta francese che costruisce la linea TAV Torino-Lione, per aver dichiarato nel corso di due interviste che i canteri per il treno ad alta velocità vanno sabotati. Trovo insensato che queste frasi possano costare a De Luca una condanna, anche se da scrittore noto e intellettuale ascoltato avrebbe potuto far di meglio per difendere la Val di Susa e i suoi abitanti. Nel pamphlet La parola contraria (Feltrinelli 2015), in cui sostiene giustamente le proprie ragioni, De Luca allinea infatti argomenti eterogenei, evocando Orwell e paragonandosi a Rushdie (che ha peraltro espresso solidarietà allo scrittore italiano). Ma non è tanto l’accostamento, certo sproporzionato, alla fatwa subita da Rushdie che lascia perplessi, quanto la contraddizione di fondo che si intravede: da un lato, De Luca rivendica il mandato morale che spetta allo scrittore, all’intellettuale impegnato; dall’altro, aggira o lascia in secondo piano le forme proprie all’esercizio di questo mandato, come l’inchiesta, il reperimento dei dati e la rappresentazione dei fatti. Bene ha fatto perciò Domenico Starnone che, prendendo la parola sull’ «Internazionale» per schierarsi proprio in difesa di Erri De Luca, ha però chiesto «al capo del governo e a quello dello stato, di prendersi le loro responsabilità e mettere subito nero su bianco, con una documentazione degna delle loro cariche, che i lavori in val di Susa sono onesti, rispettosi dell’ambiente e fanno bene al corpo e allo spirito dei valligiani».
6. Si può ricorrere alla violenza fisica per l’affermazione di un ideale? Quali sono, se ci sono, i valori per la cui difesa varrebbe la pena ricorrere alla violenza o sacrificare la propria vita?
No, in una società democratica, non si può ricorrere alla violenza fisica per nessun ideale. Trovo ammissibile l’uso della forza solo come reazione a limitazioni della libertà gravi, ingiuste e altrettanto violente (come nei regimi totalitari) e alle aggressioni fisiche dirette (in assenza di altri mezzi efficaci e immediati di difesa).
7. I valori della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 sono assoluti e universali o tutto è soggetto alla storia e non esistono valori indiscutibili?
Tutto è soggetto alla storia e tutto è, alla lettera, discutibile. La stessa libertà d’espressione, nel senso chiarito da Todorov, non sarebbe un valore intangibile, bensì negoziabile e perfino alienabile. L’idea stessa di ‘universalità’ non può, del resto, non avere anche un risvolto utopico. Ciò detto, la Dichiarazione universale dei diritti umani segna un progresso irreversibile (e questa irreversibilità deve essere difesa). È vero che la storia, come ha scritto Montale, «non si snoda come una catena di anelli ininterrotta»: tutto viene superato e adattato, anche per vie impreviste. La Dichiarazione universale, per esempio, afferma che la «famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato» (art. 16, comma 3), ma è evidente che ciò che intendiamo oggi per ‘famiglia’ è diverso da ciò che si pensava nel 1948. Si tratta perciò di adeguare i princìpi a una realtà in trasformazione, non di negarli, di rovesciarli, di recedere da ciò che è stato conquistato pagando il prezzo secolare di laceranti divisioni, con la scusa che la Storia non procede in linea retta.
8. Si può dire che è in atto uno scontro fra due o più civiltà diverse e inconciliabili? E se sì, quali sono le cause di questo scontro (culturali, religiose, politiche, economiche, ecc.)?
Trovo che il concetto di ‘civiltà’ sia un’astrazione, il cui uso è più sensato quando dobbiamo circoscrivere le caratteristiche di popoli, società o culture estinti, che non quando ci troviamo a riflettere sul mondo attuale. L’idea stessa di scontro fra civiltà presuppone l’esistenza di polarità nette; ma l’esempio dello Stato Islamico mostra come l’origine del risentimento possa essere interna a una ‘civiltà’: la nostra, cosiddetta occidentale o europea. L’idea di scontro implica un conflitto tra due istanze opposte ma omologhe, ciascuna a sua modo portatrice di un modello. Mi pare non sia questo il caso degli attuali conflitti che classifichiamo sì come religiosi, ma che riguardano più che altro i sistemi sociali ed economici. Anche per questo, oltre che per la nazionalità europea e l’immaginario mediatico occidentale di molti assassini dell’ISIS, si tratta di uno scontro più interno che esterno a una ‘civiltà’ comune. Forse non è corretto nemmeno parlare di scontro, ma di rovesciamento, di tragica e criminale parodia, che trae forza dall’effetto distruttivo esercitato sul modello (la libertà e l’incolumità personale, violate brutalmente nel contesto di macabre rappresentazioni ispirate dalle immagini di Guantanamo; e, su un piano diverso, l’esibita cancellazione dei reperti archeologici).
Mi sembra che alcune di queste osservazioni possano essere messe a confronto con l’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, Soumission (‘Sottomissione’). Il libro ha avuto un’eco che non merita (anche a causa della tragica coincidenza cronologica tra la sua uscita e gli atti terroristici di matrice islamica integralista compiuti in Francia); trovo infatti che sia un’opera poco riuscita, che sembra aprire direzioni, nello sviluppo del tema e nella gestione della narrazione, troppo presto abbandonate o frettolosamente concluse. In Sottomissione, Houellebecq immagina una società islamizzata moderata, che non è un’altra civiltà rispetto a quella europea: la Francia rimane la Francia, con i suoi simboli e isituzioni (tra cui la Sorbona: il romanzo è o vorrebbe essere, tra altre cose, anche un campus novel), l’Europa resta Europa, mantenendo anche la sua funzione ideale di entità politica molteplice. L’Unione Europea, nel romanzo, non viene infatti abolita ma anzi estesa ai paesi islamici del Mediterraneo, fino a raggiungere più o meno i confini meridionali dell’antico Impero romano. Quel che cambia sono semmai alcuni valori; ma non si tratta, anche in questo caso, di nuovi valori, radicalmente diversi dai grandi princìpi dell’Europa moderna. Ciò che la ‘sottomissione’ facilita è invece il pieno riconoscimento dei costumi che il disadattamento e la misoginia del francesissimo protagonista ritengono auspicabili e confortanti: le donne – più d’una e giovanissime – devono restare in casa, a farsi belle per il marito, gratificandolo e insieme liberando il campo dalla concorrenza professionale. Ecco risolto, così, anche il problema della disoccupazione. L’Islam diviene perciò un pretesto per immaginare una rivoluzione sociale compatibile con le istanze più regressive interne alla ‘civiltà’ di cui facciamo parte.
Direi che il terrorismo di questi anni mostra una matrice regressiva e reazionaria interna simile a quella appena descritta, più che un’istanza di scontro, di proposta anche traumatica di un’alternativa. Le radici di questa condizione affondano certo in un atto di violenza che ha opposto gli Stati europei a Paesi e nazioni colonizzate (del resto, la storiografia più recente vede nel colonialismo e nella decolonizzazione i fenomeni di maggior rilievo nell’epoca contemporanea: penso soprattutto al recente La genesi del mondo contemporaneo. Il crollo degli imperi coloniali 1945-1965 di Michael Burleigh). Ma le conseguenze di quel ‘peccato originale’ superano ormai il paradigma che oppone, in base a coordinate di appartenenza o differenza etnico-geografico-culturale, conquistatori e conquistati, carnefici e vittime.
9. È possibile mettere a confronto e stabilire quale sia il migliore tra sistemi di valori di differenti civiltà?
In assoluto no, anche per quel che scrivevo prima sull’ambiguità del concetto di ‘civiltà’. Ma, dovendo dare una risposta diretta, credo che il sistema migliore sia semplicemente quello che favorisce le migliori condizioni di vita morale e soprattutto materiale al maggior numero possibile di persone, indipendentemente dalle differenze che le caratterizzano.
10. Qual è lo stato della libertà di espressione in Italia? Ci sono argomenti tabù su cui risulta difficile o impossibile esprimersi liberamente?
Le classifiche sulla libertà di stampa (legata evidentemente a quella di espressione) collocano l’Italia piuttosto in basso: nel 2015 è al 73° posto. La Svizzera, il Paese dove lavoro, è al 20°; i Paesi scandinavi sono al vertice, la Cina al 175° posto. Non saprei bene quali conclusioni trarre da quest’indicatore, né dalle posizioni relative. Certo, in linea di massima, maggiori sono il laicismo (non solo religioso, ma anche politico-ideologico) e la possibilità di vivere al riparo dal guazzabuglio della Storia, maggiore è anche il grado di libertà.
Quanto all’Italia, forse non ci sono veri e propri tabù, ma alcuni argomenti sono più delicati di altri: non tanto la religione in sé, quanto piuttosto la morale cattolica, che la nostra società ha fortemente introiettato. C’è poi una questione di registro: tutto o quasi può essere detto, in Italia, se viene urlato, buttato in rissa o burletta; il vero tabù forse è la possibilità di un dibattito ampio, serio e informato sui temi che riguardano davvero la convivenza civile.
Marco Cubeddu (Genova, 1987), ha pubblicato i romanzi «Con una bomba a mano sul cuore» (Mondadori, 2013) e «Pornokiller» (Mondadori, 2015). Scrive su diverse testate, tra cui «La Lettura» del «Corriere della Sera», «Link - idee per la tv», «Il Secolo XIX», «Panorama», «Il Giornale» e «Linkiesta». È caporedattore della rivista letteraria «Nuovi Argomenti». Vive tra Roma e Milano. «L'ultimo anno della mia giovinezza», reality letterario sulla vita di Costantino della Gherardesca, esce per Mondadori il 30 gennaio 2018.