La prima volta che un vero scrittore ha commentato un mio racconto avevo ventitré anni, lui ne aveva qualcuno di più, e la situazione era molto semplice: se intendevo rimettere le mani sul racconto che avevo scritto – che aveva alcuni problemi – la sua rivista mi avrebbe pagato il racconto duecentomila lire. Io tra me dissi: correggere il racconto?, e non lo feci.
Non sapevo ancora che la riscrittura è la cosa più bella della letteratura. La riscrittura è l’incontro di scrittura e lettura. Diventi lettore del tuo testo, ma puoi ancora modificarlo, e il testo, scritto magari in un rapimento creativo o, meglio, in un mero stato di esaltazione, si fa invece creta plasmabile: te ne puoi distanziare, dargli un’occhiata, immaginartelo finito, o immaginartelo diverso, riavvicinarti, provare a trasformarlo in qualcosa di voluto piuttosto che semplicemente, disarmatamente partorito.
Un anno dopo, mi pare, conobbi per la prima volta un editor. Gli feci leggere un romanzo che avevo scritto. Ero orgoglioso dell’idea: parlava di un’orgia fallita in una casa al mare, l’avevo chiamato Romanzo rosa e lo amavo. Non avevo corretto una riga, era tutto come mamma l’aveva fatto. Questo editor lo lesse, mi convocò (oppure mi convocò, ne sfogliò una parte e capì subito – non ricordo, probabilmente la seconda), mi disse: “Ma scusa, perché qui il personaggio spende tre righe ad aprire una lattina? Perché devi dire pure che sta tirando la linguetta della lattina?” “Be’”, risposi, “mi piace far vedere il meccanismo dell’apertura della lattina”. “Sì, d’accordo, ma non è che serva molto in questa situazione. I personaggi stanno facendo tutt’altro, la lattina e la sua apertura non hanno alcuna importanza…”
Me ne andai illuminato. Romanzo rosa era lungo 270 cartelle. Poche settimane dopo fui contattato da una casa editrice cui l’avevo spedito. Stavano sperimentando una collana di ebook in cui l’autore pagava le spese, e il prezzo andava per cartella. Mi dissi: proviamo a correggerlo, così risparmio. Poi non se ne fece più niente, amici e parenti mi fecero capire che non era una grande idea pubblicare a pagamento, ma di lì a un mese il romanzo era sceso a 180 cartelle. Un terzo della versione precedente, mi ero accorto, era composto di pensieri espliciti del narratore o del protagonista. Non l’avevo mai notato. La mia inconsapevole sfiducia nella narrazione era tale che ogni passaggio andava commentato fino a esaurirlo. Cominciai ad annotare: che merda!, equeste cose le sta pensando anche il lettore, non le scrivere!
Avrei trovato il mio primo editore solamente un anno dopo, per un altro romanzo, appena scoperti i piaceri perversi della correzione fraterna e della riscrittura: non sarei morto se mi criticavano. Anzi: magari avessi incontrato prima qualcuno capace di convincermi che ciò che scrivo non è sacro.
Mi sono talmente spinto in questo piacere che una volta i miei editor mi dissero che preferivano non pubblicarmi un romanzo perché era troppo freddo e non ci si riusciva a legare in nessun modo ai personaggi né a trovare la forza per terminare la lettura e io, dopo essermi sentito per un intero giorno un genio diabolico e spietato del romanzo contemporaneo, uno sperimentatore dei limiti della sopportabilità letteraria, tornai a leggere il romanzo e decisi che avevano ragione. Venne fatto sparire.
Racconto la mia esperienza personale perché quel che vorremmo fare qui sul sito di Nuovi Argomenti potrebbe sembrare un po’ brutale. Pubblicare i racconti che uno manda alla rivista pensando tanto non me lo pubblicheranno mai, e non limitarci a piazzarlo in bella mostra sul sito, ma aggiungerci i consigli e le osservazioni di qualcuno della rivista. La rivista è composta di persone che conoscono da tempo la fatica di dover meditare su una critica, di dover capire se accettare o meno un consiglio. Siamo tutti scrittori che hanno storie frustranti da raccontare, che il romanzo nel cassetto non ce l’hanno intonso, ma sempre pieno di orrendi sbreghi di penna, gogne fosforescenti d’evidenziatore e commenti ingiuriosi.
Se spedite racconti alla redazione potreste andarci di mezzo voi la prossima settimana. Qualcuno vi consiglierà anche dei romanzi da leggere! Ma un giorno questo dolore vi sarà utile.
Carlo Carabba è nato a Roma nel 1980. Ha pubblicato le raccolte di poesia Gli anni della pioggia (peQuod, 2008 – Premio Mondello per l'Opera Prima), Canti dell'abbandono (Mondadori 2011 – Premio Carducci e Premio Palmi) e il memoir Come un giovane uomo (Marsilio 2018 – selezionato al Premio Strega). Lavora nell'editoria.