Nell’anno del Signore 1571 si svolse la più terribile battaglia che il mare ricordi. Lo scontro del giudizio, lo chiamò qualcuno, la resa dei conti sanguinosa tra due eserciti e due mondi. Duecentocinquanta navi riunite sotto le insegne della mezzaluna incrociarono l’armata cristiana più imponente dai tempi delle crociate: poco più di duecento galee salpate da Venezia e dalla Spagna, da Genova e da Malta, e condotte in battaglia da Giovanni d’Austria, fratello di Sua Maestà Cattolica. A largo di Lepanto, nel golfo di Corinto, divampò uno scontro epico, che prometteva gloria al vincitore e celava a stento gli indizi di una fine.
Quella di Lepanto fu l’ultima battaglia combattuta da navi mosse da remi, fortezze galleggianti sulla pena di un’umanità invisibile e disperata. I rematori relegati nelle stive, sconosciuti al sole, oppure esposti senza schermo alle intemperie erano l’anima della nave, il segreto del suo movimento. Erano il vento, non più di un soffio o un’entità, un elemento della natura.
Erano, per lo stesso motivo, orde di fervidi devoti o torme di incalliti senza dio. Veneravano Cristo o Allah, o il denaro o soltanto se stessi. Alcuni veneravano simboli, idoli, stemmi, anonime divinità del focolare. Altri ancora veneravano la spada o gli armenti o le oasi e i gelsomini del deserto. E c’era chi invece venerava la velocità, l’incoscienza, il rischio. La morte, che venisse presto o tardi, non poteva fargli male. Non più male della ferita che un giorno gli aveva insegnato il dolore. Non più male dell’altra ferita, quella sì grande, che si portavano dentro.
La loro sofferenza, offerta al sole o nascosta nel buio delle stive, eguagliava lo splendore del martirio; il clangore dei ferri provocava una strana, mascolina eccitazione. La lotta combattuta tutto intorno era roba di un altro mondo e in fondo non li interessava. Non aveva niente a che fare con la loro personale disperazione.
Era cominciata da poche ore e già si annunciava un affare di schemi, di schiere e milizie e nomi senza volto, i Popoli e la Storia. I Cristiani venivano dal mare aperto in un’unica fila di navi, tranne un piccolo gruppo lasciato di riserva. I Turchi, superiori di numero, s’erano fatti imbottigliare nella baia di Lepanto e adesso cercavano di forzare il blocco, premendo con impeto sull’ala destra dello schieramento avversario.
La battaglia volgeva all’incerto quando le galee maltesi lanciarono il segnale d’allarme. La squadra di riserva, al comando del marchese di Santa Cruz, si lanciò in una corsa forsennata verso il centro della lotta. Lo scontro infuriava feroce. Soldati cristiani e musulmani erano la reciproca incarnazione del male. Tre galee dell’Ordine di Malta, tre sole, reggevano l’urto dell’intera ala sinistra della flotta turca. Una sfoglia frenava una valanga. Una piccola crepa adesso e nessuno avrebbe più potuto impedire ai Turchi di dilagare.
La squadra di Santa Cruz irruppe senza cautele, al culmine di una manovra rischiosa e disperata. I marinai dell’Ordine erano allo scontro corpo a corpo cogli infedeli, in una nuvola di fumo e polvere da sparo. Le bocche di fuoco – vicino, lontano e più lontano ancora – ruggivano con un fragore assordante. Le palle di cannone tracciavano archi perfetti nel cielo, lunghe tracce di fuoco e nuvola. Partivano lenti e lontanissimi tra l’indifferenza delle vittime, s’abbassavano dannatamente, s’abbattevano con effetti devastanti. Colpi del destino, questo sembravano: segreti nella preparazione e ormai inevitabili quando si manifestavano.
Alla Marquesa toccò l’ingrato compito di fare da esca. La prima nave a giungere in soccorso attirava di solito tutta l’artiglieria nemica, era fatalmente destinata al sacrificio. La Marquesa non fece eccezione. I cannoni aprirono il fuoco e uno dopo l’altro volarono via il rostro, le rembate, pezzi dell’aposticcio fino al tendale di poppa. Invece di battere l’inutile ritirata, allora, il capitano ordinò di accelerare l’incursione. Gli aguzzini affilarono le fruste, i vogatori raddoppiarono l’impeto. Sputavano sangue e bestemmiavano quel Signore che i marinai su in coperta elevavano a vessillo. La Marquesa giunse al centro della mischia sotto un diluvio di bordate, spogliata via via dell’equipaggiamento, in tutto simile a un relitto alla deriva o a una lugubre nave fantasma. L’ennesimo colpo ravvicinato la fece inclinare sul lato sinistro, dal quale imbarcò acqua a lungo prima di colare definitivamente a picco. I pochi superstiti dell’equipaggio, feriti e disorientati, balzarono dai resti delle murate fin sul ponte dell’ammiraglia turca e lì si lasciarono cadere. Forse li ingannava la bandiera dell’Ordine di Malta appena sottratta alle galee cristiane. Di sicuro credevano di trovare miglior sorte che tra i flutti.
L’azione spericolata del marchese di Santa Cruz spezzò in due lo schieramento avversario. Il grosso dell’ala sinistra turca rimase imbottigliato sul versante sud del golfo di Lepanto senza possibilità di fuga. Ma una piccola avanguardia, tagliata fuori dal combattimento, riuscì a prendere il largo. La dirigeva il capitano Uluch Alì, famigerato pirata barbaresco, sanguinario terrore dei sette mari. Ne facevano parte, loro malgrado, pochi sudditi e qualche signore del Regno di Spagna, finiti troppo in là per strappare agli infedeli la bandiera dei Cavalieri. Sul ponte dell’ammiraglia nemica guardavano in lontananza il prosieguo della battaglia, intirizziti dal terrore per la loro sorte, avvolti in una sensazione incongrua. Erano l’altra faccia della vittoria.
Mentre si allontanavano, deportati chissà dove, riuscivano ancora a vedere la flotta turca circondata e stretta d’assedio, sgominata nave per nave, ingoiata dal mare. Nell’anno novecentoquarantanovesimo dall’Egira la marina barbaresca fu sconfitta e annientata. Le poche navi superstiti se ne andavano all’avventura, cariche di odio e di disperazione. Le sorti del Mediterraneo furono decise per secoli.
Dal momento della cattura uno dei prigionieri cristiani sanguinava vistosamente. Sulle prime la cosa era passata inosservata: l’equipaggio, assorto nelle manovre per sfuggire al marchese di Santa Cruz, non se ne era dato pena. Ma nessuno poteva permettersi di perdere una preda così ghiotta. Un grande di Spagna o del Vicereame, stimarono i corsari, che oramai avevano fatto l’occhio al rango. In tasca gli trovarono un fazzoletto col suo nome ricamato a lettere d’oro, un vezzo della nobiltà ispanica, e due lettere di raccomandazione indirizzate a don Giovanni d’Austria, insozzate dal flusso della ferita. Non si capiva da dove uscisse il sangue. L’uomo se ne stava accovacciato e stringeva in grembo un cencio arrossato. Non si vedeva da dove sanguinasse né quanto grande fosse la ferita.
Nemmeno don Miguel conosceva esattamente l’entità del danno subìto. Supponeva una mancanza, lo sentiva dal cervello, ma si rifiutava di guardare. Celava la ferita dentro una benda inzuppata di sangue, tenuta stretta con la mano destra, e barcollava stremato dalle febbri.
Nell’ospedale galleggiante degli infedeli i prigionieri ricevevano ogni cura. Servivano maschi giovani e in forze, adatti a un lavoro da schiavi. Un morto giovane non conveniva neanche a loro. Quando don Miguel perse conoscenza e smise di opporsi, i portantini gli tolsero la benda dal braccio sinistro. Dalla macabra scoperta risultò che la mano era mozzata al polso, la ferita gettava sangue a rivoli e rischiava l’infezione. Un cerusico venne chiamato d’urgenza. Praticò alcune incisioni per arrestare l’emorragia e ricucì. Versò unguenti per lenire il dolore e affrettare la cicatrizzazione. Poi fasciò stretto il moncherino.
Il paziente trascorse la convalescenza nella stiva, in un’infermeria improvvisata, con un’espressione immutabile di offesa nei confronti del destino. Contro ogni previsione il suo corpo reagì presto e bene, il che lo offese ancor di più. Aveva immaginato di lasciarsi sprofondare in un vortice di disperazione senza uscita, fidando sui malanni che sempre accompagnano la convalescenza di un ferito grave. Ma il suo stesso corpo si prendeva gioco di lui. Imprigionava un’anima malata in un recipiente di salute fin troppo salda.
Nei primi mesi, peraltro, don Miguel fu afflitto da un’apatia snervante e una completa inappetenza. Gli misero di guardia un “giannizzero” per evitare che commettesse spropositi. Di notte ululava chiedendo vendetta della donna che l’aveva tradito e perdono per sé, per il sangue che aveva versato. S’incalliva a cercare se la sua vita fosse un corso necessario o un terribile scherzo del destino. Se avesse tenuto a freno l’ambizione, se avesse scelto altro partito, se avesse domato l’istinto e rispettato le regole della cavalleria, se si fosse trattenuto dal lavare con la morte il disonore, se almeno avesse visto partire quella palla di cannone che gli aveva portato via la mano… Sarebbe stato più felice, sì, sarebbe stato felice. Figlio di un grande di Spagna, promesso sposo alla principessa Salazar y Palacios, guardia d’onore di Sua Maestà Cattolica: forse un tempo la sua felicità aveva a che fare con tutto questo. Ma avrebbe potuto rinunciarvi senza rimpianti in cambio dell’altra felicità che inseguiva adesso. Anche da povero pastore di greggi della Meseta sarebbe stato felice.
Si alzò dal letto dopo una settimana. Tremava e soffriva ancora i dolori della piaga purulenta. Gli misero davanti uno specchio, per radersi e rassicurarlo sui progressi del suo stato, e non sapevano di gettarlo nella Gehenna.
Guardarsi allo specchio fu come riconoscere un marchio d’infamia, come leggere su una pagina ancora fresca, la carta ruvida e tagliente, la sua condanna. Era scritta. Molto prima di lui si tramandava per voce e sulle pietre, su fogli ingialliti, dentro rotoli di pergamena. Si guardò e lesse di una colpa oscura, ma precisa, che trascinava nascosta al sole; si chinò per reggere il tono di legge implacabile. “Nessuna remissione per quello che il tempo travolge”. Il suo senso di perfezione – umana, fisica, mortale perfezione – doveva morire per sempre. Fuori dal bozzolo di suppliche e superstizioni, don Miguel cominciava la marcia dello scherno: la pena poggiata sul petto, gli errori svelati nelle borse dei suoi occhi.
Allo scadere della quarta settimana fu destinato al suo impiego. Le porte delle stive furono aperte per cacciarlo tra i banchi, nella bolgia dei rematori che fissavano, come ipnotizzati, la sua mano mozza. Per ovviare alla menomazione, gli Arabi infilarono il moncherino in un anello di ferro e lo incastrarono nel remo, in modo da assecondare il movimento della spalla. Anche senza la mano, il braccio sinistro di don Miguel “remava”.
Per l’uomo non aveva alcun valore. Che uno stratagemma lo rendesse fintamente uguale agli altri non serviva a niente. Vedere il vuoto della mano mozza gli faceva male. Decise di non guardarla più, ma era impossibile col remo perennemente sotto gli occhi. Allora cominciò a remare con gli occhi chiusi.
Remava come un forsennato. Seguiva gli incitamenti degli staffilatori, faticava il doppio di modo che la nave arrivasse prima. Perché, e dove, non era importante. Qualunque cosa fosse, bisognava farla “prima”.
E’ difficile dar conto del carattere di don Miguel. Il fatto è che prima dell’incidente sembrava un’altra persona. L’ambizione, la gioia di vivere e l’aspirazione personale all’avventura formavano in lui un miscuglio irrisolto. Dalla prospettiva dell’osservatore, dal suo stato d’animo, dipendeva la possibilità di considerarlo uno sbruffone insopportabile o uno squisito esempio di gaudente.
Era carnale, irruento, captava gli impulsi dal mondo e li rovesciava sul suo corpo. Questo almeno gli era rimasto. Di più, s’era esasperato. Fino a trasformarlo in un grumo di forza cieca, una massa incandescente di furore.
In breve, a bordo di quel galeone e sulle navi di tutta la marineria turca, si diffuse la leggenda di uno Spagnolo indomito che vogava per dieci e non pativa gli stenti e la fatica. Grazie a lui il feroce Uluch Alì, l’ultimo discepolo dei fratelli Barbarossa, compì imprese memorabili.
Da quando era incatenato al banco, l’immaginazione di don Miguel viaggiava a briglia sciolta. I pirati barbareschi si avventuravano lungo rotte favolose, visitavano i porti più fiorenti dell’Africa settentrionale, dell’Asia minore e del Vicino Oriente. Al prigioniero era concesso di scendere a terra per partecipare alle aste degli schiavi (le sue andavano puntualmente deserte); raramente aveva anche il permesso di salire in coperta, a guardare un paesaggio più vasto del cerchio di un oblò. Lui, però, preferiva seguire con la fantasia gli spostamenti della nave. Sognava da sempre quei luoghi, se li era figurati, li aveva accarezzati con la mente; e ora quei luoghi uscivano dalla sua testa perfino più belli di quanto fossero in realtà.
Nelle ore di riposo, nelle soste di rifornimento o nelle notti di calma al largo, don Miguel scriveva. Si chinava e stava intento al lume di lucerna. Nell’inchiostro cercava la materia delle stelle.
Era magari al corrente che nelle lontane Fiandre artigiani costruivano un congegno ottico per vedere da vicino gli astri, la luna, il sole e tutti i non più certi satelliti della Terra. Pochi eretici, come gli apostoli in Palestina, contestavano il sistema di Tolomeo, ma la loro follia aveva il profumo inconfondibile della verità. Un’autentica rivoluzione scuoteva le fondamenta del mondo conosciuto e don Miguel la sentiva prima di conoscerla e voleva esserne parte. Una mano mozzata non poteva certo impedirglielo.
A bordo, invece, circolavano strane credenze sulle occupazioni di don Miguel. I membri dell’equipaggio pensavano che consultasse cabale o compilasse effemeridi e in breve si ritrovò circondato da un denso alone di mistero, quasi fosse un negromante o un grande maestro di alchimia. Una sera, sul finire del turno che aveva elemosinato a un vecchio cretese, gli apparve il volto grifagno di Uluch Alì.
“Sei tu lo spagnolo con la mano mozza?”
Don Miguel rigirò il moncherino nell’anello fissato sul remo.
Il capitano riprese minaccioso.
“Nell’Islam la mano sinistra è ostaggio degli spiriti maligni. E’ la mano malvagia, la mano del diavolo. I fedeli la usano solo a contatto con le parti intime e impure. A qualcuno, qualche bigotto del mio credo, la tua mano mozza potrebbe perfino sembrare un segno di elezione e tu saresti un prescelto per la conversione. Ma non per me, sfortunatamente. Io seguo un’altra dottrina”.
Gli occhi di Uluch Alì mandarono un bagliore rossastro e accattivante. “L’ambizione… il piacere… il piacere sublime… la ricerca della perfezione. Trova il tuo demone e lasciati guidare”.
Don Miguel aveva smesso di seguirlo. Qualunque cosa avesse un tono di consolazione non gli interessava. Fissava la schiena dell’uomo che gli remava davanti con gli occhi acquosi, l’espressione vagamente assente.
Alì rimase a guardarlo. Il male, anche in lui il male era frutto di una ferita.
Nello sguardo grifagno si aprì un abisso di compassione.
“Conosci Avicenna, cristiano? Pare si sia ispirato a certi tuoi progenitori. Mai sentito parlare di Platone, di Aristotele? L’esperienza porta a un grado superiore di coscienza: si perde qualcosa per acquistare qualcos’altro. E’ la logica del commercio, dopotutto, e la legge dei predoni. Va a finire che siamo tutti dei filosofi…”.
Don Miguel aveva studiato in uno dei migliori collegi di Spagna e conosceva alla perfezione il greco antico, ma preferì non rispondere. Con un po’ di fortuna sfoggiare cultura gli avrebbe fruttato un posto di aiutante presso gli alchimisti di bordo. O forse le sue teorie sarebbero parse troppo stravaganti e gli avrebbero solo attirato sospetto e una pena esemplare. A conti fatti, il prigioniero preferì il silenzio. Stare al banco, con tutto il furore che covava dentro, era il modo migliore per dar prova di sé.
Alì cominciò a pensare che davvero lo Spagnolo fosse in qualche modo “benedetto”. Per venti giorni gli fece recapitare una porzione del suo pranzo, in segno di rispetto, e poi, all’ennesimo rifiuto, lo fece frustare a sangue e poi gli fece versare sulle ferite un lenimento miracoloso venuto dall’Oriente. Agiva con l’istinto possessivo di un innamorato ma covava altri propositi. S’era messo in testa di compiere un’impresa che lo avrebbe consegnato agli annali della pirateria e aveva bisogno di quell’uomo.
Nell’anno del signore 1572, novecentocinquantesimo dall’Egira, le galere di Uluch Alì puntarono la prua verso il più remoto baluardo dell’Europa cristiana: le isole Canarie, quelle stesse che servivano da base di rifornimento per le navi in rotta verso le Americhe e poi le accoglievano al ritorno, cariche di tesori favolosi. Per i corsari barbareschi era un tragitto inconsueto e l’esperienza di don Miguel, la sua conoscenza delle carte nautiche e delle rotte oceaniche, poteva tornare assai utile. Nondimeno il viaggio si fece in condizioni avverse e fu tormentato da intralci di ogni genere.
Per circa una settimana i pirati lottarono con venti contrari e poi, quando il vento girò, sopraggiunse dall’Africa un calore asfissiante. Uno dopo l’altro i rematori cadevano stremati. Vogavano da giorni a rilento e l’afa delle stive li faceva dannare. Soffocavano. Il brivido della frusta riusciva perfino a portare sollievo.
Di tanto in tanto gli aguzzini bagnavano la schiena ai galeotti, con stracci intrisi d’acqua e infissi in lunghe pertiche. Ogni mezz’ora un mozzo si infilava tra i banchi e versava da una borraccia alcune gocce nella bocca degli schiavi. I sorveglianti continuavano a lanciare richiami sopra il coro dei lamenti, ma inutilmente. Nel rogo delle ore più calde la nave pirata sembrava ferma sull’acqua, in balia delle correnti.
Per la stiva improvvisamente si faceva silenzio. La pena dei dannati sfiorava l’autentica dannazione e gli aguzzini maledicevano, solo allora, il mestiere di dare il tormento. Don Miguel remava cogli occhi chiusi. Ognuno si aggrappava a ciò che gli restava: tornavano i devoti di Cristo e i marrani convertiti ad Allah, i predicatori di velocità, gli adoratori della morte.
Per la stretta dell’afa don Miguel aprì gli occhi. Dal cerchio dell’oblò vide il mare aperto e libero, vuoto di chiglie e approdi e fantasmi e mostri. Un deserto profondo, proprio come la sua anima. Gli venne il sospetto che il vetro incrostato di salsedine catturasse un riflesso.
Una proiezione lontana e sfuocata.
Vista da vicino, invece, la sua anima somigliava a un caos di forze elementari o un presagio di fine del mondo. Dune sgretolate al sole, torba e carbon fossile e vinaccia a fermentare, tracce e residui di una mutazione, il bolo d’ispidi bocconi avviato a percorrere sentieri segreti. Prima ancora che qualcuno la teorizzasse, nell’intimo della sua coscienza, don Miguel aveva fatto “tabula rasa”. Adesso si portava in giro un’anima vuota.
Niente più restava. Niente, se non forre e precipizi e vie sottili come steli di alabastro. Dopo il grido, dopo la preghiera e la disperazione, era venuto il momento della resa.
“La mano non ricresce”. “La mano non è una coda di lucertola”.
Si chinò sul foglio e scrisse quelle poche frasi.
Ci aveva creduto davvero. Solo credeva che ci volesse del tempo, quando aveva scoperto che non succedeva tutto in una volta. Quando si rese conto che non era così fu un brutto colpo.
Si alzò intontito, quasi barcollando. Resisté all’impulso di voltarsi.
Da molto tempo non si guardava più allo specchio. L’immagine che vedeva riflessa sul vetro non stava in nessuna parte della sua testa. Per questo lo disturbava, lo offendeva perfino. Non riusciva a vedersi come avrebbe desiderato. Osservava le sue pecche, i suoi difetti ormai irrimediabili: l’immagine proiettata sullo specchio era l’enciclopedia di tutti i suoi sbagli.
Smise di guardarsi, allora, di pensarsi. Smise di amarsi e si amò in un modo nuovo. Con compassione, dell’anima per il corpo. Della sua anima, alta anima a forma d’aquila, per il suo povero corpo.
Di lì a poche ore la flotta di Uluch Alì giunse a destinazione. Dopo settimane di cambi di rotta e tribolazioni, la vedetta sull’albero più alto avvistò la Gran Canaria. Un villaggio apparve sull’orizzonte: una fila di case bianche lungo la costa e un nugolo di altre all’interno, strette intorno a una specie di fortezza. A guardia della marina stava un torrione di forma quadrangolare, coi merli e cinque caditoie per ogni lato, non ancora finito.
Dal punto in cui erano, al largo, Alì guidò le navi – con le insegne nascoste – fuori dalla visuale del villaggio, dietro una punta dalla quale uscirono all’ora dell’avemaria, per sferrare l’attacco. I capitani barbareschi si consultarono rapidamente. Piazzarono le navi in formazione di tiro di fronte alla costa, a quella che doveva sembrare una distanza di sicurezza, e aprirono il fuoco. Dalla torre e dal castello, sotto un diluvio di schegge e pietrisco, risposero; ma i colpi dell’artiglieria difensiva non arrivavano nemmeno a scalfire le navi ormeggiate al largo.
Il diavolo di Uluch Alì aveva visto giusto. Le bocche di fuoco del torrione avevano una gittata inferiore rispetto alle batterie dei corsari: in breve vennero neutralizzate senza infliggere il minimo danno. Poi dalle navi pirata uscirono altre piccole imbarcazioni – gli “schiffi” – e percorsero il tratto fino alla costa e sbarcarono un gran numero di assalitori. I primi a sbarcare sparavano all’impazzata, per proteggere la discesa degli altri che approdavano man mano. Scendevano con quell’energia che sembrava furia animalesca e schiacciava ogni forza che provasse a fermarli.
Si faceva avanti un battaglione cristiano di settanta elementi, col solito capitano dall’elmo lucente, e restava a scaramucciare per buone due ore e poi si ritirava per manifesta inferiorità. I Turchi potevano dilagare. Avanzavano confusi e gridando. Roteando le sciabole e gridando. E sembrava che non andassero da nessuna parte, che non cercassero nulla, solo di fare chiasso. Una specie di sanguinosa baldoria. E invece, avvicinandosi al villaggio, mettevano le bandiere “alberiate”, che voleva dire considerarsi soldati invece che predoni, combattenti in lotta perenne contro i “nemici della fede”. Volevano farsi conoscere come i paladini di una guerra santa e intanto si arrampicavano sui muri di cinta e spuntavano tra i merli, pronti a essere centrati dalle guardie. E sapevano di morire e il furore ne lasciava alcuni incredibilmente vivi dopo il colpo e la caduta rovinosa.
Ai piedi delle mura i capi già escogitavano il modo di entrare nella rocca. E i Turchi si ammassavano come formiche davanti alla porta della città e cacciavano scuri nel legno e premevano forte e spingevano gli arieti sulla schiena dei compagni caduti a faccia in giù, e quando non bastava appiccavano il fuoco con le torce. I soldati all’interno provavano a resistere, a rabberciare la cinta costruita per rintuzzare ogni assalto e alla fine si davano alla fuga, di posto in posto, fino all’estremo nascondiglio della rocca. I Turchi restavano padroni del campo: vagavano e prendevano bottino e davano al fuoco e non andavano da nessuna parte.
Sulle navi, al largo, non era rimasto più nessuno. La galea di don Miguel era vuota, a parte un paio di sentinelle. Schiavi e marrani erano scesi a terra e seguivano l’assalto nelle retrovie. Partecipavano al loro primo assalto ed erano impazienti di vedere.
Ma non lui. Lui aveva fatto il suo compito e ora non voleva vedere.
Meglio godersi la luna in quinto decimo, lucente come fosse giorno. Meglio immaginare.
I Turchi che restavano padroni del campo e vagavano e prendevano bottino e non andavano da nessuna parte. Andavano a caccia di cristiani e i cristiani non volevano farsi prendere, e allora succedevano le cose che lui non sopportava. Per ore, con sprezzo. E sempre più disgusto e stanchezza. Fino a una pace strana, che sapeva di distruzione.
Don Miguel conosceva già tutto. E sapeva anche quello che sarebbe successo dopo.
Avrebbero fatto un processo, quasi certamente. Per dire che i soldati erano abbastanza e avevano fatto il loro dovere. Che l’allarme era stato dato e l’artiglieria sparava abbastanza lontano e non si vedeva l’esigenza di un reparto di cavalleria o di una squadra navale che sorvegliasse il porto. Avrebbero assicurato che il bottino dei pirati era magro, ignorando i panni e le vesti di lino, i calici e il tabernacolo d’oro che quella sera stessa vennero caricati sulle navi. Avrebbero giurato, sulla parola d’onore di un soldato, che non c’erano state perdite tra i cittadini e la milizia. Qualche ferito, tutt’al più. Dagli atti sarebbe scomparsa ogni traccia del cadavere di una sentinella cristiana, scoperto sulla spiaggia accanto al luogo dello sbarco, ogni accenno alla sorte dei deportati: un vecchio, una manciata di bambini sconosciuti all’autorità, un paio di uomini adatti al lavoro tra i banchi. E una donna bellissima, che Alì avrebbe fatto schiava e don Miguel vide una volta sola, essendo certo di conoscerne il destino.
“Dovrai rimpiangermi”.
Di un’altra donna conosceva quasi certamente il destino.
“Puttana”.
Era quella che l’aveva tradito e costretto a lasciare la Spagna.
“Dovrai rimpiangermi”. Parlava come se l’avesse davanti.
Doveva rimpiangerlo.
Non ancora, non adesso che era lui a logorarsi nel ricordo. Ma un giorno, quando il sangue si sarebbe fermato e col sangue lo slancio un po’ ottuso che dà il desiderio, allora l’avrebbe rimpianto.
L’avrebbe chiamato di notte, alla luce delle stelle, accanto a un uomo che non riconosceva; l’avrebbe cercato con la furia di un assedio.
E lui sarebbe rimasto dov’era. L’avrebbe sentita chiamare e disprezzata da lontano. Sarebbe cresciuto come un albero, grande e forte, con le radici piantate nel buono della terra.
Mentre la donna bellissima spariva, e con lei nel fruscio della veste l’ombra di quell’altra donna, don Miguel ne era sicuro. Cacciò la mano mozza dall’anello e la batté sul remo e quasi non sentì dolore. Sapeva che non era vero. Guardò il vuoto della mano e pianse.
Giorno dopo giorno i prigionieri si adattarono a vivere come potevano. Alcuni scelsero il proprio destino, altri lo subirono. Il vecchio si finse un medico e si convertì all’Islam prima che i Turchi scoprissero l’inganno, che in realtà stava a un medico non più di quanto un asino sta a un purosangue. I bambini provarono la sferza e le tavole ruvide del ponte nelle ore di preghiera comandata e tutto quanto servisse a farne guerrieri risentiti e implacabili.
La donna si accarezzava la pancia cresciuta con un misto di imbarazzo e tenerezza. Voleva diventare la moglie di un dignitario della corona e adesso voleva solo essere la brava moglie di un corsaro.
Nel viaggio di ritorno don Miguel la vide di nuovo, ancora bellissima, e barcollò quando lei gli sorrise. Lo spettro di quell’altra donna lo sfiorò e svanì nel nulla. Si trattenne, anche se avrebbe voluto rispondere. Sorridere. Non per finta, stavolta, per un moto di nervi o cos’altro. Qualcosa gli premeva su per l’esofago e s’era fermato a un centimetro dalla bocca. Ora don Miguel cominciava a capire.
Calcato sopra il nome del suo amore stava scritto “sopravvivenza”. La speranza, come un cielo azzurro, aveva spezzato la croce. La speranza, come un sepolcro svuotato, un sudario svestito e deposto, aveva vinto la morte.
Non avrebbe più provato un amore così puro. Ma ancora, lo sapeva, la bellezza sarebbe tornato a ferirlo. Ancora avrebbe girato nei cerchi della vertigine, cinghiato alle orbite dei suoi stessi occhi. Avrebbe pianto, urlato, sfregato le fibre del suo cuore fino a consumarle. E alla fine sarebbe rimasto vivo.
Il giorno del solstizio d’estate dell’anno 1572 la flotta barbaresca approdò nel porto di Costantinopoli. Sazio e scapricciato, Uluch Alì aveva percorso il Mediterraneo in parata per ricevere dal sultano la carica di quapudan pascià, comandante in capo della flotta ottomana.
Furono indette feste pubbliche, per riconoscenza ad Allah si liberarono schiavi e prigionieri. Ma non lo Spagnolo, che ormai faceva un tutt’uno con la plancia della nave, e non gli ostaggi delle isole Canarie, il simbolo vivente del trionfo di Alì. Vennero condotti in parata – il falso medico, la moglie bellissima e i futuri guerrieri dell’Islam – e don Miguel fu vestito come un bey e gli furono accordati privilegi straordinari per qualunque suddito, con l’unica eccezione della dignità di uomo libero.
Non protestò, e non per indifferenza o eroismo o sete di martirio. Non gli dispiaceva. Scontando la sua pena, nel mentre, aveva imparato la virtù delle maree. Passare e lasciarsi attraversare. Ora le cose meno familiari, quelle che meno gli appartenevano, erano diventate la sua vita.
Restò invischiato nei festeggiamenti il minimo indispensabile: il chiasso dei banchetti e l’odore penetrante di spezie gli davano alla testa. Non gliene importava niente. Voleva celebrare soltanto se stesso. E la “moira”. La carezza del diavolo, il giro di sorte che lo aveva portato fin lì. Scese negli abitacoli dei galeotti e si fermò, così com’era, davanti allo specchio, a guardare i segni del dolore che ancora resistevano. Fissò gli occhi nel vetro opaco, come passato a smeriglio, e gli sembrò di vedere un tramonto.
Nel momento esatto in cui lo contemplava, don Miguel scoprì la provvisorietà del suo dolore. Non era né poteva essere una fine, ma un passaggio, la figura di una mutazione. Il dolore, quella stessa indicibile sofferenza, partoriva la calma che l’avrebbe soppiantato. E qualcosa di più… Dentro la calma, come un branco di novellame in acque placide, c’era la gioia. Era passato tempo dall’ultima volta ma ancora si ricordava com’era fatta.
Un mare azzurro e immobile, lo splendore della Meseta arroventata dal sole. La gioia era il miraggio di se stessa. Cercava la pace ma non poteva trovarla. La gioia era fatta di istanti: un deserto di milioni di granelli, un mare di gocce infinite. La gioia era “ogni” istante, “ogni” granello. Ferma non poteva resistere, come il mare sempre s’increspa sotto le brezze e le dune ondeggiano al vento. La gioia era voglia che rinasce di continuo e si tende, allo spasmo, finché la sorte, o la stessa disperata tensione, l’appagano.
Il passaggio, il ritorno, un attraversare stanze: questa era la gioia. La scoperta dell’ignoto e la conquista dell’instabile. Ogni nuova isola.
Ora don Miguel leggeva il suo cuore nel profondo. La gioia era sé e il suo contrario. Era se stessa e tutto il resto. La gioia era dolore.
Nei mesi successivi tornò a sputare sangue e a soffiare l’anima nella galea di Uluch Alì. Mentre salpava dai moli del porto di Costantinopoli e scorrazzava nel Mediterraneo e poi riconquistava Tunisi per farne di nuovo la roccaforte dei pirati barbareschi, giorno e notte, lo Spagnolo era al suo posto.
Riprese a vogare con la solita lena, verso nuove mete. Ma tutto era diverso. Senza l’ansia di cercare, l’assillo di qualcosa da raggiungere, la sua corsa forsennata si trasformò in libertà.
Partì e tornò alla base, molte volte, coi galeoni carichi di prede e di tesori oppure infranti, squassati da scontri e tempeste. Scese nei porti e accettò di farsi vendere all’asta con gli schiavi. Le sue ferite adesso catturavano la luce.
Partì e tornò molte volte. E man mano, senza nemmeno accorgersene, conobbe il senso. E poi il riscatto e poi il frutto della redenzione. Un giorno qualunque, nel porto di Algeri, un moncherino salutava il sole.
Immagine: Andrea Vicentino, Battaglia di Lepanto (particolare).
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).