Il reale assoluto. Luzi lettore di Novalis

da | Mar 3, 2015

di Marco Menicacci

 

Secondo Ladislao Mittner, decano della germanistica italiana, Friedrich von Hardenberg era dotato di un eccezionale tocco da re Mida in grado di trasformare in poesia qualunque materia[1]. Non stupisce, dunque, che anche per il giovane Mario Luzi l’incontro con le poesie di Novalis sia stato folgorante, uno di quegli amori rapaci che infiammano i vent’anni di uno studente. Fra i suoi libri è infatti presente un esemplare (siglato «Luzi 1934»[2]) dell’edizione Carabba del 1931, ovvero la seconda, degli Inni alla notte di Novalis nella traduzione approntata da Augusto Hermet e data alle stampe nel 1912 come venticinquesimo numero della «Cultura dell’anima», celebre collana diretta da Giovanni Papini. Molti anni più tardi, ripensando a quel volumetto, Luzi ricorda il proprio stupore nel trovarsi davanti una «poesia speculativa, arditissima, e nello stesso tempo dolcissima, con delle inflessioni interiori di una intensità incredibile…»[3].

A questo primo, intenso contatto seguirà nell’immediato dopoguerra la lettura di L’âme romantique et le rêve (1937), il fortunato saggio in cui Albert Béguin mostrava le radici germaniche del Simbolismo francese e che non solo fornì a Luzi lo spunto per L’idea simbolista (1959), ma gli permise, grazie al largo uso delle citazioni, di approfondire la conoscenza dell’opera novalisiana[4].

È proprio un caso di affinità elettive: se per l’autore della Barca guardare alla realtà significa procedere verso la fonte dell’essere, «dalle foci alle sorgenti» (Alla vita), nel quarto degli Inni alla notte nella traduzione di Hermet viene proposto un distacco dal quotidiano sotto forma di ascesi gnoseologica che permetta di cogliere il «cuor della fonte», fino a provare quello stupore davanti alla realtà nuova di cui Novalis parla anche nei Discepoli di Sais e nella prima parte dell’Enrico di Ofterdingen: «la realtà apparente non è quella ultima: di là da essa, esiste un altro piano, più ricco di significati, quello della Natura e insieme delle più profonde percezioni interiori»[5].

Novalis invita continuamente a uno scandaglio della coscienza: territorio intimo, familiare, ma anche spaventoso nella sua insondabilità, oscuro e conoscibile «solo a sprazzi, sotto forma di dialogo interiore con un essere ignoto»[6]. Di fronte all’imperfezione del mondo, la parola poetica «si propone di cogliere, attraverso le cose, fin da quaggiù, l’universale presenza dell’invisibile»[7]. In questa neoplatonica attenzione alle potenzialità conoscitive della vita terrena è forte la consonanza con la fiducia di Luzi proprio nel quaggiù, nella dimensione terrena dell’uomo restituito alla naturalezza[8]. Si profila quel rinnovato sguardo sul reale che porterà a Nel magma (1963), ma che già si avverte negli anni Cinquanta con Primizie del deserto (1952) e, soprattutto, con Onore del vero (1957), come testimonia la sobria audacia dei Versi d’ottobre («È qui dove vivendo si produce ombra, mistero / per noi, per altri che ha da coglierne e a sua volta / ne getta il seme alle sue spalle, è qui
/ non altrove che deve farsi luce»).

Per Luzi, proprio come per Novalis, non si tratta di un procedimento “ermetico”, né di un sofisticato rifiuto della realtà esterna, ma semplicemente di una diversa fonte poetica, primariamente orientata verso una dimensione interiore, nella convinzione che solo nel profondo dell’io si può davvero conoscere il mondo. Se anima umana e natura non vengono riconsiderate nella propria originaria sintesi, si va incontro a una inevitabile perdita di realtà, perché la realtà più completa e autentica esiste solo nell’unità totale dell’universo e per avvertirla è necessario «integrar tutto, […] credere alla coesistenza di tutto e a un avvenire in cui ogni separazione sia annullata in un ritorno all’armonia assoluta»[9].

Riconsiderati negli anni Cinquanta, questi pensieri provenienti da un’epoca lontana e diversa sembravano entrare direttamente nel merito del dibattito sul realismo nell’arte, cui Luzi stava dando il proprio contributo – proprio a ridosso dell’Idea simbolista (1959) – con gli articoli apparsi sulla «Chimera» e poi raccolti nel volume Tutto in questione (1965). La lettura di Novalis, sia diretta sia mediata dal libro di Béguin, può insomma influenzato decisivamente l’idea luziana di realismo, quella sottesa ai versi di Presso il Bisenzio, senz’altro fra i più noti di Nel magma, in cui si esprime il rifiuto di un realismo mimetico fine a se stesso, pago della propria programmaticità:

poni mente a che cosa questo tempo ti richiede,
non la profondità, né l’ardimento,
ma la ripetizione di parole,
la mimesi senza perché né come
dei gesti in cui si sfrena la nostra moltitudine
morsa dalla tarantola della vita, e basta.

Alle polemiche affrontate in Tutto in questione, Luzi risponde proponendo una concezione radicalmente alternativa di realismo e rifacendosi al pensiero di Novalis, di cui due frammenti filosofici offrono una sintesi formidabile: «La poesia è il reale veramente assoluto» (Frammento 1186), poiché «rappresenta l’irrappresentabile, vede l’invisibile, sente il non sensibile» (Frammento 1208)[10].

Imperdonabile anacronismo? Potrebbe darsi, se lo sfuggire ai sistemi di riferimento e alle aspettative del proprio tempo non fosse una prerogativa delle vere rivoluzioni.  L’aderenza di Luzi a questo aspetto della Weltanschauung novalisiana emerge con particolare chiarezza in un intervento dei primi anni Settanta dedicato al concetto di “creazione poetica”, in cui tuttavia viene ridimensionata l’idea antropocentrica – romantica e simbolista – del poeta‑demiurgo che fichtianamente contrappone il proprio io al mondo. Se questo protagonismo titanico è per Luzi improponibile, l’energia creativa della poesia deve comunque mirare ad esprimere e comunicare la legge fondamentale della natura (che «non è la morte ma la metamorfosi») e a «entrare nel vivo del processo inesauribile della creazione in toto captandone il ritmo di distruzione e di origine, facendone il suo stesso respiro». La “naturalezza del poeta” consiste dunque nel tentativo continuo di cogliere il respiro del mondo nella sua realtà più profonda (il “reale assoluto” di Novalis), più vera e proprio per questo meno riproducibile:

Nel momento poetico agiscono allo stato di massima intensità le forze che dispongono dell’universo e per questo la condizione che distingue il poeta è la naturalezza. Su questo fondamento possiamo ripensare a Novalis quando dice: “La poesia è il reale, il reale veramente assoluto. Questo è il nocciolo della mia filosofia”. Egli intendeva una realtà che trascende il fenomeno, non la realtà che trasmuta di fenomeno in fenomeno manifestandosi in questo come legge consustanziata del mondo: eppure le sue parole coglievano ugualmente nel segno. Sì, la poesia è il reale, il reale assoluto se vogliamo insistere su quel fascinoso vocabolario: solo, non verità opposta a inganno, ma il reale che dal profondo della realtà del mondo trova la voce giusta per enunciarsi.[11]

 


[1] L. Mittner, Ambivalenze romantiche: studi sul romanticismo tedesco, G. D’Anna, Firenze 1954, p. 171.

[2] Così avverte Stefano Verdino in M. LUZI, L’opera poetica, cit., p. 1333.

[3] M. Luzi, Il mio incontro con la poesia tedesca, Università degli Studi di Firenze – Polistampa, Firenze 1998, p. 6 (ristampato in «il Portolano», a. XI, n. 41/42, gennaio-giugno 2005, pp. 22-24).

[4] A. Béguin, L’âme romantique et le rêve: essai sur le romantisme allemand et la poésie française, Éditions des Cahiers du Sud, 1937; trad. it A. Béguin, L’anima romantica e il sogno. Saggio sul Romanticismo tedesco e la poesia francese, trad. di U. Pannuti, Il Saggiatore, Milano 2003. Per questi aspetti si veda M. Menicacci, Luzi e la poesia tedesca. Novalis, Hölderlin, Rilke, Le Lettere, Firenze 2014, p. 57ss.

[5] A. Béguin, L’anima romantica e il sogno, cit., p. 266.

[6] Ivi, p. 278.

[7] Ivi, p. 280; corsivo mio.

[8] Cfr. almeno M. Luzi, Naturalezza del poeta (1951), in L’inferno e il limbo, seconda edizione accresciuta, Il Saggiatore, Milano 1964, pp. 42-44.

[9] A. Béguin, L’anima romantica e il sogno, cit., p. 280.

[10] La numerazione dei frammenti è quella adottata dall’edizione letta da Luzi: Novalis, Frammenti, introduzione di E. Paci, trad. di E. Pocar, IEI, Milano 1948.

[11] M. Luzi, La creazione poetica?, in Vicissitudine e Forma, Rizzoli, Milano 1974, pp. 34‑35.