Le strategie linguistiche e strutturali mediante le quali Consolo costruisce la densità della propria parola letteraria, torcendola e caricandola nella sfida impossibile alla consistenza della realtà, e la stessa idea consoliana della parola, mettono capo a tensioni e aspirazioni solitamente rubricate sotto il segno della «poesia», nella costellazione, per intenderci, che si muove tra simbolismo e modernismo. La stessa ricorrente tentazione dell’afasia come esito della volontà di troppo dire è del resto segnale non dubbio di queste ascendenze. Non a caso già dal romanzo d’esordio, e fino alle ultime prove, T.S. Eliot è uno dei numi tutelari di Consolo. Allo stesso modo, per tutta la vita Consolo non ha smesso di sottolineare il proprio rifiuto radicale di appartenere alla tradizione propriamente romanzesca, sospetta perché troppo incline a cedere alle lusinghe di una facile leggibilità, ad usum commercii. Prove narrative le sue, quindi, ma protese verso la poesia. D’altro canto, non ci sono dubbi sulla necessità di accostare il suo progetto, letterario ma anche politico-culturale, alla tradizione meridionalistica, nel cui solco si forma, e che non ha mai smesso di operare, anche quando Consolo è andato prendendo strade assai diverse: come già negli anni Ottanta, con libri decisamente atipici come Lunaria e lo stesso Retablo, e sempre più negli anni Novanta. Stiamo così toccando l’altra questione di fondo: quella dell’ossessione della Sicilia. «Scrivo sempre di Sicilia perché non ci si può allontanare dagli anni della propria memoria» ha dichiarato lo scrittore: il che vuol dire, ed è un altro punto decisivo, che l’invenzione letteraria deve nascere dall’esperienza, con la quale entrerà in tensione, sforzandosi di esorcizzare i propri fatali limiti con l’accumulo e la pluralizzazione della forma.
Certo, Consolo parla di tutto sub specie Siciliae, tenendo insieme, in modo decisamente peculiare, la proiezione verso una dimensione di esemplarità e la messa a fuoco dettagliata di tratti storicamente identificati, ricostruiti con precisione maniacale. La sua sicilianità concede in questo senso abbastanza poco alla fuga per la tangente di una a-storica condizione universale, così caratteristica invece di altri autori siciliani, da Pirandello a Vittorini. In innumerevoli occasioni Consolo ha ricordato la sua ferma volontà di approdare alla metafora per via di storia, secondo il sempre attuale, magistrale modello manzoniano: «La lezione del Manzoni è proprio la metafora. Ci siamo sempre chiesti perché abbia ambientato il suo romanzo nel Seicento e non nell’Ottocento. Oltre che per il rovello per la giustizia, proprio per dare distanza alla sua inarrestabile metafora. L’Italia del Manzoni sembra davvero eterna, inestinguibile». L’esemplarità della Sicilia fa tutt’uno in Consolo con la sua peculiarità: che ci fa capire com’è l’Italia proprio perché è un caso estremo. Si potrebbe persino ipotizzare che, mutatis mutandis, a quello che egli scrive della Sicilia possa accadere in futuro qualcosa di simile a quanto già accaduto con la Lucania di Carlo Levi: ridiventata fruibile e attuale perché ricontestualizzata in «un quadro afroasiatico e latinoamericano». La Sicilia di Consolo vale come un’Italia estrema, e però anche come campione fin troppo vero di innumerevoli Sud del mondo. Per altri versi, la Sicilia di Consolo esibisce un cortocircuito di opposti, oscillando fra il vagheggiamento memoriale di un luogo che avrebbe potuto conciliare bellezza storica e naturale, vitalità e cultura, desiderio e conoscenza, e la constatazione, sempre più addolorata e indignata, dell’orrore reale, dell’ingiustizia perpetuata, della collusione eterna fra violenza criminale e violenza istituzionale. La Sicilia è un inferno, insomma, tanto quanto avrebbe potuto essere un paradiso. E la Sicilia è sempre solo la Sicilia: anzi no, è dappertutto.
Il progetto, ma forse dovremmo parlare piuttosto di dovere e di esigenza insopprimibile, di scrivere sempre di Sicilia coincide con la ferma convinzione che l’impresa della scrittura letteraria debba farsi portatrice di uno sguardo critico nei confronti della realtà, e implichi una dimensione etica, implicitamente o esplicitamente politica. Consolo ha infatti svolto per quasi cinquant’anni anche un’intensa attività giornalistica, della quale una larga percentuale è espressione di una diretta militanza civile. Restando però nell’ambito della scrittura letteraria, egli ha delineato, con un’originalità e un rigore teorico che hanno pochi termini di paragone in Italia, una possibile coincidenza fra espressività ed eticità, dove il permanente impegno civile deve identificarsi con la specificità della scrittura, cioè con l’impegno formale. Chiusa la stagione dell’engagement, per Consolo lo scrittore deve fare il proprio mestiere, fino in fondo, senza compromessi: solo così la scrittura può guadagnare lo spessore etico adeguato alle proprie aspirazioni, conoscitive non meno che estetiche. D’altro canto, chi scrive scrive, e dunque non può ignorare che scrivendo rinuncia al diretto impegno politico. Di conseguenza, i paradossi della parola letteraria, della sua pochezza e della sua titanica presunzione si rifrangono e ripetono nella compresenza costante di aperta politicità e senso di colpa dell’intellettuale, sempre abitato dalla sofferta consapevolezza della propria distanza dall’azione reale. Da questo punto di vista, Consolo ha molte cose in comune con Vittorio Sereni, e con lo stesso Franco Fortini, che del resto frequentava.
L’orgoglioso dovere della scrittura comporta così un permanente rimorso, che confina col senso d’inferiorità. Persino la dimensione utopica, pure evocata con tanta forza da Il sorriso dell’ignoto marinaio, non smette in realtà di mescolarsi con la cattiva coscienza, con un irriducibile senso di colpa. Ecco l’utopia del barone Mandralisca:
E gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioja e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro? Ah, tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose. (SIM, qui alle pp. 216-7)
Questo sogno di un linguaggio che abolisca il divario fra le parole e le cose assomiglia molto alla permanente tensione di Consolo verso una parola portatrice di una densità tanto speciale da farla assomigliare a una cosa vera. Ma persino qui, dove tanto più la voce del personaggio pare confondersi con quella dell’autore, siamo obbligati a diffidare, e a prendere atto della permanente polifonia della scrittura consoliana; quel sogno infatti deve essere percepito come nobile, sì, ma impossibile, e persino mistificatore: «Quello non è il pensiero dell’autore, ma del Mandralisca, dell’intellettuale che cerca di scaricarsi la coscienza, di alleviare i sensi di colpa donando il suo patrimonio al popolo di Cefalù, nella speranza che le nuove generazioni “possano scrivere da sé la storia”. Certo, questa soluzione è ingenua, se non demagogica».
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).