“Scrivere è convivere con una bestia immaginaria e selvaggia”

da | Gen 7, 2015

Dialogo tra Gian Maria Annovi e Laura Pugno. Seguono alcuni frammenti da La scolta.

LP: Mi ha molto colpito una cosa che hai detto nel corso del tuo intervento al Festival Poesia 13 di Rieti: che la tua poesia, vivendo da tanti anni in un altro Paese, anglofono – gli Stati Uniti – e vivendo, aggiungo, senza prospettiva di ritorno per lo meno immediata o nel futuro prevedibile, si è modificata per adattarsi all’ambiente che ti circonda. Nel tuo caso, è diventata più narrativa, più traducibile, senza però rinunciare alla sua matrice “di ricerca”. La cosa mi colpisce perché anch’io, come sai, ho vissuto di recente a lungo all’estero, per lavoro, e all’estero ho la prospettiva di tornare, ma nel mio caso, con una scadenza di ritorno che sin dall’inizio è nota e obbligata. Che cosa significa tutto questo per te?

GMA: È una questione complessa, che non riguarda solo la poesia. Emigrare – diventare straniero – comporta una costante rinegoziazione della propria identità. Paradossalmente, ma so che capisci bene quello che intendo, sono diventato italiano solo nel momento in cui ho lasciato l’Italia. È nella mia vita quotidiana qui negli Stati Uniti che la mia percepita italianità è diventata una parte integrante della mia identità. Lo è diventata perché mi è venuta letteralmente a mancare la mia terra sotto i piedi. Per un poeta le cose si complicano ulteriormente, perché la terra su cui posiamo è la nostra lingua. Proprio al convegno che ricordavi ho anche detto – creando non poche perplessità tra i presenti – che qui in America non mi sento un poeta. Solo tu, che hai condiviso un’esperienza simile alla mia, e Fabio Zinelli, che vive da tantissimo tempo in Francia, avete compreso quello che intendevo dire veramente. Tanto che Fabio, proprio rifacendosi a questa esperienza di spossessamento linguistico che l’immigrazione comporta, ha poi scritto in una maniera acutissima del mio Italics, che è una prima ricognizione della mia condizione anfibolica culturale e linguistica. Qui in America, per riprendere il titolo di quella raccolta, non mi sento poeta proprio perché la mia poesia è qualcosa di corsivato, un elemento estraneo all’interno di un discorso scritto (e parlato) in una lingua differente. Paradossalmente, proprio questa “condizione corsiva” descrive perfettamente la lingua poetica in generale, la sua ontologica estraneità permanente. Da un punto di vista ben più pratico, anche entrando in contatto con il mondo poetico americano, il dialogo resta sempre incompleto, mancando per il mio interlocutore la possibilità di leggere i miei testi in originale. Da qui nasce ovviamente l’esigenza della traduzione, che è però qualcosa che vivo in modo problematico. Ho tentato per la prima volta l’auto-traduzione con Kamikaze, uscito in edizione bilingue italiano-inglese, ma ancora oggi provo per quell’operazione una profonda ambivalenza. Se i testi di Kamikaze rappresentano un campo di macerie, mi sembra che le traduzioni l’infestino come ortiche, cresciute disordinatamente e senza controllo. Qualcosa di profondamente urticante sulla pagina. Tutti i testi che ho scritto successivamente sono caratterizzati da un alleggerimento del lavoro sul significante e una tensione verso un italiano più docile, anche se imbastardito. A controbilanciare la supposta intraducibilità del singolo testo c’è una costruzione per micro-sequenze narrative. Insomma, a una fantasmatica resa deficitaria della traduzione individuale ho compensato con un senso complessivo, ma non mi sento ancora soddisfatto dei risultati e degli effetti che queste auto-imposizioni hanno avuto sulla mia poetica generale. Tanto che quello che sto scrivendo va in parte in una direzione molto diversa.

LP: Per te, come autore, che relazione c’è tra “La scolta” e “Italics”, il libro che hai pubblicato per I domani (nella collana diretta da Andrea Cortellessa, Maria Grazia Calandrone – e da me). Soprattutto continuità, soprattutto discontinuità?

GMA: Italics è un libro vero e proprio, s”ebbene composito, mentre La scolta è una serie poetica solo concepita come un piccolo libro. Mi considero ormai un autore-bonsai, che ha adattato la propria crescita a uno spazio molto ristretto – parlo del mondo editoriale – e che ha abbandonato l’ideologia del grande libro. I libri microscopici che ho coltivato, come Denkmal, con cui ho esordito, o Terza persona cortese, e la stessa Scolta non sono promesse di libro, opere a venire, ma rispondono alle costrizioni di chi scrive poesia oggi. Tornando allo specifico della tua domanda, ciò che accomuna le due opere che citi è la necessità di riflettere sul significato di quello cui accennavo prima: lo scrivere da stranieri in una lingua straniata. Ciò che vive e comunica la badante dell’est, la protagonista della Scolta, con la sua lingua “che pare calcata da un grosso bove” (è una citazione diretta dal monologo che apre l’Orestea di Eschilo, cui la mia serie s’ispira) è per me quanto di più vicino alla condizione del poeta, diviso tra la cura di una lingua se non moribonda quanto meno paralizzata e la necessità di rifarla daccapo, di sopravvivere, comunicando, a dispetto di tutto. Il senso di precarietà esistenziale che caratterizza il dialogo impossibile tra la badante e l’anziana signora che accudisce è lo stesso che provo io quando rifletto sul senso dello scrivere poesia oggi. Il tema della migrazione e l’idea dell’invadere ed essere invasi da un Altro che attrae e atterrisce sono due degli altri elementi che legano le due raccolte. Il punto di vero contatto tra i testi si trova però nel poemetto La gloriola, non a caso posto al centro di Italics, come una sorta di sommerso e immaginario Stretto di Bering, uno spartiacque anche geografico tra la mia non-patria, gli Stati Uniti, e la mia matria, l’Italia. Nella Scolta ho collocato una sorta di senhal, la parola “cunîn”, che si trova anche ne La gloriola. È un termine del mio dialetto, un revenant linguistico, che emerge come la scaglia di un materiale geologico dall’attrito violento tra italiano e post-italiano.

LP: In un certo senso, possiamo interpretare “La scolta” come un testo teatrale, o comunque non è difficile pensare a una messa in scena. Pensi mai alla tua poesia (anche) come teatro? (Penso a un tuo testo di qualche anno fa, “The Tempest in L.A.”)….

GMA: Non è la prima volta che mi trovo a rispondere a questa domanda. Nel caso de La scolta e della serie che citi (che apre Italics ed è una rilettura liofilizzata della Tempesta di Shakespeare) l’ispirazione teatrale è dichiarata. Nella mia poesia l’unica cosa che mi interessa del teatro è la possibilità d’inscenare un dialogo, di drammatizzare la dialettica tra soggetti. Anche se questa messa in scena – qui sta una differenza importante – è tutta mentale. Mettere in scena i testi significherebbe dare forma corporea a figure di pensiero, concetti. All’inizio in quello che scrivevo si trovava una situazione classica di io-tu, una situazione fittizia in cui il tu non era altro che la “seconda persona” dell’io, una sua maschera. Nel momento in cui ho deciso di abbandonare la scrittura in prima persona, dopo la sperimentazione-omicidio pronominale di Terza persona cortese, il dialogo teatrale mi è sembrato la soluzione più naturale da adottare. Lo sto sperimentando anche adesso, in una minuscola variazione sul King Lear di Shakespeare, ancora in fase embrionale. Non so per quale ragione questo autore continua a fare capolino nella mia opera, ma credo che abbia a che fare proprio con la profondità concettuale di alcuni dei suoi personaggi, che fluttuano come al di sopra e al di sotto del movimento della trama. In una sorta di vuoto temporale.

LP: Poesia, teatro, “grande libro” o forma compatta e urticante: in quello che scrivi sembra assente la tentazione della poesia in prosa, o prosa poetica, o prosa in prosa. Io – che scrivo anche prosa, tenendo ben distanti le due cose -, pur rispettandolo, ho dei dubbi su questo “andare verso la prosa” che ultimamente molti autori propongono con forza. Forse perché non riesco a togliermi di dosso la percezione, più che il giudizio, che di fondo questo “andare verso” parta da una debolezza. Non debolezza del testo o dello stile, ma della “posizione” della poesia. Per me la poesia, anche nell’assenza dell’editoria, del mercato, dei lettori? – resta invece il luogo di una forza. Sopravvivrà, come ha sempre fatto, sin da prima dell’invenzione della scrittura. Non so se direi lo stesso del racconto, oggi, o della narrativa letteraria, che sta rapidamente ritrovandosi nelle stesse condizioni editoriali della poesia. Cosa vedi, tu, dal tuo osservatorio, che poi è anche “oltremare”?

GMA: Sulla sopravvivenza della poesia – almeno nella società occidentale – non sono ottimista quanto te. Credo che ogni forma espressiva raggiunga momenti di profonda crisi che non sempre si traducono in forme di rivitalizzazione. La prosa, ad esempio, e la questione non è nuova, ma ormai centenaria direi, è solo uno dei tanti innesti, delle forme di ibridazione in risposta a un organismo indebolito. L’arte è chiamata a rispondere a bisogni che non dipendono solo dall’individuo ma dall’ambiente in cui si sviluppa. E la società occidentale, quella del capitalismo elettronico, non chiede certo poesia, che è rimasta l’unica forma di espressione umana – e l’unico lavoro, come scrive Cocteau in Lettera agli americani –  irriducibile al capitale, nonostante il suo valore resti di fatto inesauribile. La poesia che è stata scritta sopravvivrà, ma fino a quando si continuerà a scrivere è un altro discorso. Siamo in un’epoca che vive della retorica della semplificazione, a tutti i livelli, anche a quello linguistico. La comunicazione tra soggetti è capitalizzata e quotata sul mercato internazionale. Ciò non significa che la realtà si sia semplificata, al contrario. Se la poesia ha ancora un senso, e uso questa formula ipotetica non retoricamente, questo si trova proprio in un’etica della complessità. La poesia è una maniera di rendere visibile l’eterogeneità di uno spazio apparentemente oscuro e omogeneo, con la stessa solitudine di un telescopio nucleare sospeso nello spazio. Se l’ibridazione delle forme – e tra queste la prosa, ma penso anche alle arti visive e performative e ai nuovi media – possono contribuire a mantenere viva la capacità di scandaglio spaziale e tellurico della poesia, la possibilità della vertigine e della scoperta, ben venga. Non amo però l’atteggiamento prescrittivo di chi sostiene che la poesia debba essere una cosa piuttosto che un’altra. Se c’è qualcosa che la poesia fa è sottrarsi alla forza depotenziante di un verbo deponente come dovere. La poesia non deve mai. Perché nella sua solitudine infinita c’è anche la sua, e la nostra, libertà.

LP: Tu, GM, sei, per età, a cavallo tra due, diciamo, “generazioni” – con le virgolette perché la parola è stata molto discussa e forse anche oltre la sua reale, pratica utilità: i poeti nati negli Anni Settanta, sia perché sei del ’78 sia perché hai esordito molto presto (per dire, eravamo insieme nella prima edizione dell’antologia di Atelier, “L’opera comune”); e i poeti, “grosso modo”, di trent’anni. Ultimamente si moltiplicano i tentativi di mappatura, di “foto di gruppo” di questo secondo insieme, che vuole e deve conoscersi al suo interno e farsi conoscere all’esterno: un’esigenza fisiologica, favorita dai nuovi media. Non c’è dubbio che negli ultimi anni il modo di scrivere più diffuso sia cambiato: si è formata una specie di lingua comune neolirica, che però sembra avere – lo dico, anche qui, come una percezione più che altro, non come un giudizio – una sorta di “autore collettivo”. Tu a chi o cosa senti di appartenere? Ti sembra di “fare ponte”, per questa tua posizione a metà? La tua è una voce molto individuata e individuale, in entrambi i gruppi….

GMA: Quella delle generazioni è un’ossessione molto italiana, che secondo me deriva da un’idea rigidissima di società. Negli Stati Uniti, ad esempio, è molto raro trovare antologie generazionali, perché a nessuno importa quando sei nato se fai bene quello che sai fare. Quello che dici è comunque vero, il mio destino sembra anche in questo caso quello di una situazione di confine. Ho sempre avuto la sensazione angosciosa di essere arrivato o troppo tardi o troppo presto, mai al momento giusto. Mi sento come la virgola che separa due frasi, una presenza minima che agisce nel contesto, ma in maniera impercettibile, una cosa che sparisce nella lettura ma che contribuisce al senso generale. Confesso di conoscere meglio il lavoro dei poeti quarantenni, in cui ritrovo una maggiore attenzione alla questione del linguaggio. Il mio chiodo fisso. I poeti di trent’anni li osservo con attenzione e tra loro riconosco alcune voci anche molto originali. Non mi interessa, in generale, chi non problematizza il proprio atteggiamento verso la forma della scrittura. Di recente ho intitolato un piccolissimo intervento su uno dei tentativi di mappatura di cui parli “Selfie di gruppo”. L’espressione è un ossimoro che dice però molto di cosa traspare, per me, dalla colata lavica di scrittura che copre questi tentativi di sondaggio: una focalizzazione sul soggetto individuale in pose poeticamente stereotipate che lo rende a volte indistinguibile dal gruppo. Il neolirismo a cui accenni nasconde però anche una forte volontà di espressione, un’urgenza che non è necessariamente un male. Ma è fondamentale che la voce che si esprime sia anche riconoscibile, che rappresenti una lingua unica. Una lingua che non sia un animale domestico. Scrivere è convivere con una bestia immaginaria e selvaggia.

(dicembre 2014)

***

da La scolta (Nottetempo, 2013)

CANTO D’INGRESSO
[Ucraine, Moldave, Russe con bigodini sulla testa.
Parco della Resistenza. Domenica. Dopo la messa ortodossa
]

in camio ti porta Signore a confine
in piedi nel gelo di frizer
in mezzo a la carne di maiale

poi in macchina chiude
in dietro il bagagliaio
mano legate piedi con corda
con nastro marrone

poi c’è strada la notte per mesi
la fuga

poi c’è casa in campagna

donna malata che
non può parlare:

la bada

*

LA SIGNORA #5

la notte, se viene
viene a dirmi cose
inconsolabili

cose che le hanno fatto
nel corpo e nella testa

il cielo è un focolaio
di cose fredde
viste dai ricami della tenda

da milioni di anni

*

LA SCOLTA #6

di notte aspetto vedere la luce.
che giorno viene
e vedere Signora se respira.

se no respira è mio segno.
che deve partire.

poi con spazzola faccio i capelli.
cambia vestiti.

e sorride.

*

LA SCOLTA #7

penso di togliere
il soffio
a la donna.

con cuscino con
borsa da plastica.
forse.

ma c’è icona di vergine
in calendario di maggio.

dico rosario.

*

LA SIGNORA #6

sento la voce di Dante
quando ascolto che parla
lingua sua che s’innova e che
scalcia

che s’esalta tra i denti

che scalza dal nostro domani
questo paralizzato italiano

***

Immagine: Orestiade, regia di Vittorio Gassman e Luciano Lucignani; traduzione di Pier Paolo Pasolini. Rappresentazione al Teatro Greco di Siracusa, 1960.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).