Nel 1971 Mario Luzi pubblica Su fondamenti invisibili. Una ricognizione dell’irrazionale, un’idea di spazio e di tempo molteplice e sospesa, una sensibilità antidogmatica e antiteoretica: dopo Nel magma Luzi recupera completamente la dimensione metastorica, soprattutto nei tre lunghi poemi – Il pensiero fluttuante della felicità, Nel corpo oscuro della metamorfosi e Il gorgo di salute e malattia – che formano la parte più cospicua del libro. Di seguito alcuni estratti.
Nella prima e nella seconda parte del nostro omaggio una scelta di poesie dalle prime raccolte di Luzi fino a Nel magma (1963) e Dal fondo delle campagne (1965).
da Il pensiero fluttuante della felicità
Le Bonheur! Sa dent, douce à la mort, m’avertissait;
au chant du coq, – ad matutinum, au Christus venit, –
dans les plus sombres villes…
Arthur Rimbaud
I
«Dammi tu il mio sorso di felicità prima che sia tardi»
implora, in tutto simile alla mia, una voce bassa
e fervida lungo i dedali del risveglio risonando.
– Da dove risale, a chi si volge –
mi chiedo io tra il sonno non sapendo altro di lei
se non oscuramente che un dolore antico quanto l’uomo [l’incalza e l’accompagna
e avverto intanto la notte nel suo ultimo,
più frenetico balzo verso l’alba – il nuovo enigma – [inghiottirla.
– Se mai qualcuno le risponderà –
mi dico dibattendomi,
segmento di lucertola,
nel terriccio bruciato da quella folgore spessa.
E vedo di lì a poco, mentre un po’ dormo e un po’ penso,
un’acqua meravigliosa raccogliersi
in due mani fini e trepide, serrate
nella loro giumella un po’ infantile, un’acqua azzurra, mi [sembra,
giù dalle fenditure di un’antica roccia dolorosa stillando.
– A meno non sia parte dell’inganno –
insinua e si rifiuta di pensarlo
la mente tra sogno e veglia oscillando ebbra.
[…]
VII
A volte si tocca il punto fermo e impensabile
dove nulla è più diviso,
nè morte da vita
nè innocenza da colpa,
e dove anche il dolore è gioia piena.
Sono cose, queste, che si dicono per noi soltanto.
Altri ne riderebbero.
Ma dire si devono. Le annoto
per te chele sai bene e per testimonianza dell’amore eterno…
Qui il filo si spezza.
Non cedimento dell’anima, solo stanchezza dello scriba –
mi dico – o ne mormora una voce
lontana da sotto i rimasugli, lingue ultime schioccanti, di [ghetto in fiamme.
Stanchezza di lui guardato a vista con papiri e carte
dal suo sosia l’ardente matematico
seduto nello scranno accanto in penombra
o da altri, anche più impenetrabili, dalla faccia di quisling.
Conosco quei testimoni e giudici. Quei giustizieri. [Prevarranno?
Non prevarranno – mi dice la mia anima fatta anima.
***
da Nel corpo oscuro della metamorfosi
III
La strada tortuosa che da Siena conduce all’Orcia
traverso il mare rosso
di crete dilavate
che mettono di marzo una peluria verde
è una strada fuori del tempo, una strada aperta
e punta con le sue giravolte al cuore dell’enigma.
Reale o irreale, solare o notturna –
assorti ne seguivano
il lungo saliscendi
di padre in figlio i miei vecchi con un presagio di [tormento.
Reale o irreale, solare o notturna –
interroga negli anni
la mente – e l’idea di vita le si screzia
d’un volto doppio imprendibile –
interroga il pianeta duro della landa,
i poggi bruciati, le sparse rocche.
E il vento, non so se dal tempo o dallo spazio, che frusta il [sangue.
Pensieri tirati sulla corda
d’un’interrogazione senza fine
non lasciano vivere, non hanno risposta.
Lo intende bene lei passata da quelle dune.
[…]
***
da Il gorgo di salute e malattia
…portando alla luce ciò che vive, svegliando
qualcuno che era morto…
Rig Veda
Lei scesa dieci anni fa nel gorgo
che all’aspetto poco mutato dei figli
non coglie il vuoto d’anima,
non sa della tempesta
d’aridità venuta più tardi
e ancora con sfocata dolcezza ci sorride
e sospira dai fiori della sua lapide
credendoci i medesimi – ignara
che proprio di questo mi tormento
sotto gli occhi di lei che in effigie ci commisera
d’un dolore vero ma in altro tempo…
«Mondo ugualmente duro
della fissità e del mutamento
che non posseduto non ci possiedi
e neppure ci escludi dal tuo tormento – mondo infermo
nella nostra mente irritata che non riceve
se non le tue particole, i tuoi frammenti,
prima del grano di maturità che tarda a scoppiare,
prima che la luminescenza contrastata diventi un’alba
non chiuderti nella tua scorza proliferante e sterile,
non t’eclissare alla sofferenza degli uomini»
mi dico non trovando comunione coi morti
che in questa preghiera intonata per noi vivi
mentre un fiotto oscuro, una corsa ondosa d’animale
mi traversa il pensiero dei secoli istantaneo e [interminabile.
[…]
II
All’altro capo del filo tacque a lungo l’angoscia.
Giungeva chiaro il suo mutismo, giungeva forte
nel rombo della città da quel ricevitore alzato.
Che fare – si chiedeva
sorpreso nella sua vuota prescienza
l’ancora adolescente vecchio boss
nel suo ufficio del sessantesimo piano, il più alto della [piramide.
Troppo tardi per abbassare.
Inutile rifare il numero –
si affliggeva, l’orecchio incollato a quell’imbuto di silenzio,
a quella caverna scoperchiata del dolore del mondo.
E taceva a sua volta quando io entrai.
*
«C’è un futuro per l’uomo?» non mancano
di domandargli i reporters. E incalzano
più esperti galoppini del problema, sociologi, ideologi,
preti faccendieri insofferenti del verbo.
Pronto, indefinitamente futuribile lui sempre
pennella una qualche esauriente non risposta
non per loro, certo, per il microfono – solo
incolpevole, che io sappia, tra quei peccatori contro [l’essenza.
Del resto rispondono in sua vece la sua giubba pretenziosa,
la sua moglie ciarliera,
la sua piccola gloria
messa assieme lesinando sopra tutto sull’anima
Via, poi, volatilizzati d’un tratto –
e dietro essi il risucchio
dell’età sterile e inesplosa
che si torce su se medesima
e affretta il tempo della paralisi e del coma.
Vanno poco lontano, sono certo, ma vanno
nell’acqua sfatta, nebbiosa,
nel freddo d’una primavera nera
aperta su pochi ventagli smeraldini di là dal terminal.
*
Non segnali o avvisaglie di pericolo
dopo tutto familiari alla mente,
nemmeno dietro l’immagine solare
l’immancabile complemento dell’ombra,
ma il paesaggio a sorpresa dopo la curva
con gli argini mangiati da molte viottole,
le canne, le erbe, le barene,
la ressa di macchine ai ponti.
Qualcosa come un vento oscuro le sbrana
le vele di garza dei suoi pensieri
e avverte ammutolita di colpo,
invisibile, ma presente nell’aria
l’altra parte della città, bassa, sotto l’orizzonte.
Non mi guarda, non mi sorride.
Stringe i tempi, in attesa del turno
mentalmente raduna briciole cristiane
o altro per il guardiano del transito –
e io che la indovino, non trovo – ma c’è? – una frase che la [storni
Tutto questo vissuto un istante
e messo a fuoco per sempre.
[…]
III
Il ritorno di lei molto tuareg
nell’ora che la città non sua
le rimanda profondità glaciali –
a questo penso, e dietro a lei la sua scorta
che allunga col suo silenzio il viaggio
sul filo acceso tra cielo ed asfalto.
Proprio a questo, all’effimero,
al non registrato dallo scriba
in nessun libro del mondo,
nemmeno il suo, della regina di Beverly.
Eppure stato, stato indelebilmente.
*
La donna del ricordo sorride con semplicità e con grazia
nondimeno oppone uno schermo
di tempo e d’ironia.
Mi sorprendo fisso a pensarla
e non trovo un punto certo che le appartenga,
né il passato mi dà risposta,
solo trasmutazione che abbacina,
abbacina e polarizza la mente.
Lei l’avverte e affonda lo sguardo
tra i prodigi d’ikebana della sua casa di adesso.
Chi canta questo canto? Chi suona questo strumento?
Niente che non abbia già udito
ascoltato detto fino a arrossirne –
sorrido mentre vibra
in me, fuori di me, in ogni risonanza del possibile
questa nenia, ancora, di tapino
assai canzone d’acqua provata sulla vîna in qualche loggia [mogul,
più ancora stordimento di guerriero
con la giungla carbonizzata attorno in una pausa di bazooka.
E’ vero. Solo ascoltala a fondo.
A fondo fino alla liberazione da essa.
*
La felicità al passato. Il dopo della congiunzione stellare –
Lei che avanza nel tempo e s’avvita nella sua solitudine
o forse in una rete, però tutta smagliata, d’incontri
legami nuovi, nuove dissolvenze
mentre durano intatti i segni della sua potenza – questo
ed altro di cui si balbetta: «è la vita» –
a questo penso, pensando a lei che fu regina del luogo
mentre osservo sotto il sole a perpendicolo
la cornice abbagliante e indecifrabile delle sue opere
e i colombi un poco sbattono con frenesia le ali
lungo tutte le muraglie dei palazzi, all’entrata dei ripari,
poi nessun altro moto tra pietra ed aria in quella scatola di [fuoco.
[…]
*
V
[…]
L’India sotto il volo dei corvi
non so se vive o muore. Lì, nel cerchio
della divina danza di tamburo e fiamma,
di origine e distruzione, l’India
come altri, come altri non vive e non muore.
*
Gli individui usati, i popoli senza mordente
filano meditazione e stordimento,
rigirano pensieri disinnescati dalla sostanza,
divisi dal presente; pensieri non di morte comunque,
se mai la faticosa liberazione dei cinque elementi
non più grave dell’esistenza
che li empie e li svuota come l’acqua le conche
Dopo l’alba dal sentore di nècrosi
la pianta che versa dall’alto le sue radici
e con esse cerca ancora la terra, il banyan,
protegge i mandriani di zebù,
i tessitori di sari al lavoro sotto i rami,
rari punti fermi nel brulicame
percorso da moti di vita o d’agonia
lunghi quanto si trascina il gorgo di fatica e d’inazione
L’India guarda dagli occhi dei suoi animali,
molto dice di sé, molto tace.
Nella ruota trionfale di rinascita e estinzione,
tra sapienza e oscurità, l’India
come altri, come altri vive e muore.
[…]
*
VI
[…]
Non dico la certezza del principio,
umbratile, sì e no posseduta
ma durevole, durevole sempre –
…………………………non dico questo
ma quando una lunga età si smarrisce
nell’assenza di un fine visibile
e tu stesso – parte insicura
di lei – ti aggiri
stordito dalla sua frondosità superflua
frugando, rovistando,
decidendo il da farsi su strani oroscopi
e umiliato nella tua forza inespressa ancora ti logori
«O non sei tu, invece,
che manchi di metterci amore
quasi uno, avverso,
te ne avesse ritirato la grazia?»
suona forte una voce non straniera
per quanto sciabordita dal mare grosso che le è dietro
e dentro – una voce alta di nocchiero,
diresti, entrata di soppiatto qui nella stanza.
E ti rimanda le turbe, come allora in Galilea, di Benares e [di Sarnath,
oceano umano in via d’estinzione putrefatto dall’inedia o [forse poltiglia
dove in giorni di caligine
si schiude il seme azzurro dell’anno.
[…]
*
VII
[…]
«Il dissimile, il diverso
in tutto da me – ne hai fatto esperienza»
piagnucola talvolta nel sonno
la parte bambina dell’anima, la parte cucciola
come offesa da un tradimento, e si oscura
sentendosi cercata
ancora «ma non per forza d’operante amore -si rammarica-
per custodirne insieme il ricordo, la fredda estasi»
– Non ti sono stato più infedele
dell’insetto liberato dalla crisalide –
vorrei poterle rispondere, e risponderle senza menzogna:
e sarebbe incantevole pensarla
che sbatte le palpebre
magari un po’ abbagliata dai miei lampi di lucciola
lì nel grembo d’oscurità che ci fascia.
«Non è così uniforme
il cammino della crescita»
le dico invece e lascio che lei fonda
in due bolle turchine luce e lacrime
«ben poco t’assomiglia la mola del mondo.»
Conoscenza imperfetta
anch’essa, non lo nego:
per specchio e in immagine,
dicevano un tempo
che invero non è tempo – segni
forse, spettri anche, pur sempre conoscenza.
*
Ancora combattimento? –
mi scrutavano in viso
sui passi di frontiera.
– Ancora combattimento, ancora combattimento.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).