Ventuno anni, 900 pagine sono quelle raccolte da Aragno in Non sono venuto qui per essere felice, la corrispondenza completa di Arthur Rimbaud a cura di Vito Sorbello; un epistolario che è una biografia senza voce narrante. A comporlo non sono solo le lettere di Arthur, pure le brevi lettere della vedova Rimbaud, le più appassionate delle sorelle, i loro diari; le lettere scritte su velina rosa da Verlaine, quelle inviate dai commissariati di Polizia o dal preside del liceo di Charleville, alle prese con registri perduti; il biglietto da visita del poeta col suo indirizzo milanese: Piazza del Duomo 39, terzo piano; il bozzetto dell’amico Delahaye che lo ritrae con indosso una pelliccia intento a brindare con un orso polare che fuma la pipa; il passaporto di Rimbaud a trentadue anni: 1 metro e 80 cm, naso medio, bocca media, barba rasata; una lettera inviata dal poeta a Menelik. Tutto quello che possiamo voler sapere di Rimbaud quando non leggiamo Rimbaud.
Nemmeno il primo documento che apre il 1870 è una lettera: è un bigliettino, lasciato da Arthur nella cassetta delle lettere del suo professore Georges Izambard. Ha sedici anni e chiede tre libri, numerandoli per importanza: Curiosità storiche, Curiosità bibliografiche e la prima serie delle Curiosità della storia francese. A scrivere al professore una lettera sarà invece Mme Rimbaud; sulla carta: «Sarebbe davvero pericoloso permettergli simili letture». Non si riferisce a nessuno dei tre libri di curiosità, ma a I miserabili di Victor Hugo. L’avvertimento è inutile, per Izambard: «imbarazzante». Quell’estate il professore parte, lasciando ad Arthur le chiavi della sua biblioteca. Lui gira per la stanza, scorre le dita sui titoli dei libri, li fa suoi, li porta, li riporta, così avanti e indietro per il mese intero, tenendo il professore sempre al corrente delle sue letture. Per dire che un componimento è bello, lo paragona al lamento di Antigone in Sofocle. Quando finisce Don Chisciotte, passa tre ore a rivedere le illustrazioni di Doré. Che altro fare a Charleville, la «più superlativamente idiota tra tutte le cittadine di provincia»? Scrive a Georges esasperato: «Ho letto tutti i suoi libri, tutti», e in otto parole siamo immediatamente nella “Brise marine” di Mallarmé di quattro anni prima. Imbuca la lettera e quattro giorni dopo è a Parigi. Quando il treno si ferma, viene arrestato e riportato dalla madre.
Iniziano così le fughe, rincorse, ritorni e arrivi di Rimbaud, che nel 1871 riuscirà a tornare a Parigi, e tornarci in occasione del cenacolo dei tanto amati parnassiani. Lì Arthur, Veggente, sarà presentato la prima volta, ricordato come «deliziosa giovinetta» sottobraccio a Paul Verlaine da Gaston Valentin, come «un piccolo bon-homme di 17 anni, la cui figura ne annuncia appena 14» da Léon Valade. Due anni dopo, Paul e “Rimbe”, così soprannominato dal poeta di dieci anni più grande, scappano insieme. Sono a Londra, vivono dando ripetizioni di francese e imparando l’inglese a forza di leggere Poe, preso in prestito alla British Library, dove, per ottenere la tessera, Arthur mentirà due volte sull’età, spacciandosi due volte ventunenne. Verlaine si lamenta degli insulsi verbi ausiliari inglesi, lo scocciano il: «to do, to have», tradurrà come vorrà le sue opere; quando si sentono meglio vanno a correre e a lungo, dicono agli amici di conoscere la City e a Hyde Park a fondo. Altrove, leggendo la definizione di «vita obbrobriosa» condotta dai due, Gadda dirà: «Ma se si divertivano moltissimo!». E poi litigano, litigano, litigano. Verlaine parte. Rimbaud gli scrive che torni, che gli basta rifare il viaggio: «Ma tu, quando ti facevo segno di scendere dal battello, perché non sei tornato? […] La sola, vera parola è: ritorna, voglio stare con te, ti amo, se l’ascolti dimostrerai del coraggio e un animo sincero.» Verlaine non tornerà, partirà Rimbaud. Lo raggiunge a Bruxelles, dove vive con la madre, ma il desiderio di tornare a Parigi è forte. Il 10 luglio, Paul gli spara sul polso sinistro. Le ultime lettere sulla relazione tra i due coinvolgono quattro persone: Verlaine, Rimbaud, la moglie di Verlaine e Victor Hugo. Quando Mathilde, la moglie di Verlaine, l’aveva raggiunto in Belgio, prima dello sparo, Paul l’aveva cacciata, gridandole che la vita coniugale gli era odiosa, che lui e Rimbaud avevano «amori tigreschi», mostrandole insieme il petto ferito. Ora, Verlaine chiede a Victor Hugo, unico in grado di avere un’autorità tale, di farlo perdonare dalla moglie; lettera che Hugo si limiterà a inoltrare all’interessata.
Ma gli anni più belli dell’epistolario non sono quelli dei Poètes Maudits, quanto quelli della famiglia Rimbaud. Sono il 1874 e il 1891, i due anni in cui più fitta è la corrispondenza delle sorelle. Nel luglio 1874, Vitalie Rimbaud, allora sedicenne, è a Londra col fratello e la madre, e scrive con curiosità, gioia e agitazione alla più piccola Isabelle i dettagli del suo soggiorno inglese, dove, non conoscendo una parola, deve essere accompagnata da Arthur dappertutto, nei luoghi conosciuti: «Mia cara sorellina, Arthur ci ha accompagnate a vedere il Parlamento. Quale capolavoro! Il Parlamento ha due grandi torri dorate, e molte altre piccole, le ringhiere sono similmente dorate. Quale architettura!»; e in quelli sconosciuti: «Arthur, da un po’ di tempo, ci parlava di un sotterraneo situato sotto il Tamigi, e l’altro giorno ci ha portate. È molto strano a vedersi, se fossi stata qui, ti saresti divertita. Immagina, trovarsi a quaranta metri sotto l’acqua. C’era, sì, freddo, ma poca luce. Era illuminato soltanto da lampioni a gas posti a distanza regolare uno dall’altro. Anziché attraversare il Tamigi in battello, lo abbiamo attraversato in un cunicolo sotterraneo, e poiché ci trovavamo nella zona sud di Londra, siamo tornati con il battello a vapore fino a Charing-Cross.»
Il 1891 è un anno meno felice, l’ultimo. Due anni prima, la rivista “Le Décadent” dice che, vivo o morto che sia: «La gloria emanata dai foglietti di Arthur Rimbaud straripa sul mondo»; i corrispondenti si indignano che il poeta non abbia ancora una statua a Parigi. A Arthur, ignaro di tutto ciò, nel frattempo si «imbianca un capello al minuto». Dopo aver fatto il capocantiere a Cipro, lavorato in un ufficio di un commerciante di caffè ad Aden, essersi improvvisato fotografo ad Harar, aver vissuto momenti di noia interminabile negli intervalli tra il dolore di non avere una famiglia sua, «almeno un figlio, che per il resto della vita io possa crescere a modo mio», e la paura che, tornare in Francia, senza un impiego, avrebbe significato seppellirsi, Rimbaud, è a maggio in un ospedale a Marsiglia. Le vene della gamba destra si sono dilatate, il ginocchio dolorante per i reumatismi; dopo pochi giorni gli verrà amputata. Isabelle, la più piccola dei fratelli Rimbaud, gli fa conforto da lontano: «Su, caro Arthur, coraggio! Dalla finestra vedo passare un uomo che ha, lui pure, una gamba amputata da molto tempo. Lo vedo, almeno due, tre volte la settimana, sempre agile e allegro. Risale sulla sua carrozza con la stessa facilità con cui scende; ho sentito dire che con la sua gamba di legno è il ballerino più infaticabile del paese. Bisogna essere coraggiosi.» Inventa per lui distrazioni. Gli chiede se, quando tornerà nella casa di Roche, desidererà avere la sua camera al piano terra o al primo piano; Arthur, che prima di perdere la gamba scriveva alla madre di non poter mai vivere una vita sedentaria, persevera: le risponde che sarebbe andato ad abitare nella camera più in alto. Impara poco a poco a usare le stampelle, ma ancora non se la sente di tornare. La sensazione, una volta in piedi è quella di tremare «nel vedere gli oggetti e le persone muoversi intorno a te, nel timore che possano buttarti a terra, e romperti l’altra gamba.» Arthur è afflitto, ma nel suo bollettino cerca motivi d’ironia. Chiude così il racconto dell’ennesima giornata a letto, l’ormai sempre più telegrafico RBD: «Il seguito al prossimo numero».
Arthur non tornerà mai a casa. Lo raggiungerà, a Marsiglia, Isabelle, che nella camera del fratello, accanto al suo letto, inizierà un fitto epistolario con la madre, della quale, purtroppo, non conserviamo le risposte. I suoi racconti sono delicati, sottili, leggendoli sembra di guardare gli stessi lineamenti di Arthur nella più famosa foto di Carjat. Sarà lei a stargli accanto gli ultimi giorni. Solo Isabelle può toccarlo, solo Isabelle può tagliargli i capelli, ed è a lei che i medici chiedono di somministrargli l’elettricità, per niente. Isabelle accompagna le sue manie, segue le sue esasperazioni. Rimbaud «non sopporta che ci sia, sotto di lui, una sola piega; la sua testa non è appoggiata bene; il moncone è troppo in alto o troppo in basso». Un giorno Arthur si sveglia, guarda il sole alla finestra nel cielo che Isabelle ricorda «sempre senza nuvole» e le grida odioso: «Andrò sottoterra e tu camminerai nel sole!».
L’ultima lettera di Isabelle alla vedova Rimbaud è del 28 ottobre, Arthur morirà dopo una decina di giorni e il suo corpo tornerà a Charleville, accanto a quello dell’altra sorella, Vitalie, morta un anno dopo il suo viaggio a Londra. Se non scritta, mi piace pensare l’abbiano riletta insieme. «Sveglio, egli termina la propria vita in una sorta di sogno continuo: dice cose bizzarre molto dolcemente, con una voce che mi incanterebbe se non mi trafiggesse il cuore. Quello che dice, sono fantasticherie – e tuttavia non è assolutamente la stessa cosa di quanto delirava. Si direbbe, e io credo, che lo faccia apposta. Mentre mormorava simili cose, la suora mi ha detto sottovoce: «Ha dunque perso di nuovo conoscenza?». Ma lui ha sentito, ed è arrossito. Non ha più detto niente, però quando la suora è uscita, mi ha detto: «Mi credono matto, e tu, lo credi anche tu?». No, io non lo credo, è un essere quasi immateriale, e il suo pensiero gli sfugge suo malgrado. A volte chiede ai medici se vedono anche loro l e cose straordinarie che scorge e parla e gli racconta con dolcezza, in termini che non saprei rendere, le su impressioni: i medici lo guardano negli occhi, quei begli occhi che non sono mai stati più belli né più intelligenti, e fra odoro si dicono: «È singolare». C’è nel caso di Arthur qualcosa che loro non capiscono. I medici, del resto, non vengono quasi più: spesso, parlando con loro, lui piange, e questo li sconvolge. Riconosce tutti. A volte mi chiama Giami, ma io so che lo fa perché lo vuole, e che la cosa rientra nella sua fantasticheria voluta così; del resto mischia tutto e… con arte.»
Natalia La Terza è nata a Orbetello nel 1990 e vive a Roma. Scrive su Harper's Bazaar Italia, Esquire, Rolling Stone e minima&moralia.