Pier Paolo Pasolini, George Best, Samuel Beckett, Jean Seberg, Francis Bacon, Alberto Giacometti. Sono solo alcuni dei personaggi del Novecento che l’occhio di Mario Dondero, in oltre sessant’anni di professione, ha ritratto in immagini che sono entrate nella storia. Leggenda vivente del fotogiornalismo e autentico poeta del reportage, Dondero, classe 1928, è uomo solitario e amichevole insieme. Fotografare è la sua vita, e quando smette, sembra entrare in una specie di parentesi tra una fotografia e l’altra. È egli stesso una macchina fotografica. Conversare con lui è come sorvolare in pochi minuti il cielo immenso del secolo scorso, rievocando aneddoti, incontri con uomini della storia o individui comunissimi, paesaggi, di cui è stato testimone, con un occhio speciale: quello del reporter. Una professione che ancora oggi lo appassiona, visto che a ottantasei anni la sua vita è in continuo movimento, un saliscendi instancabile da treni e aerei (non ha mai preso la patente, secondo lui un ostacolo al lavoro) su e giù per lo Stivale o in giro per l’Europa, a Parigi soprattutto, dove ha vissuto per lunghi anni e dove ha scattato la sua immagine più famosa, che ha fatto il giro del mondo e da cui Alain Robbe-Grillet disse che era nato ufficialmente il Nouveau Roman. Il segreto del suo mestiere? Forse sta tutto in queste poche e semplici parole: «Il mio modo di fotografare richiede un elemento antropologico. Una strada non è una strada, o una finestra non è una finestra se non c’è la presenza umana. La sensibilità è la qualità principale di un fotoreporter».
Mario Dondero, ma è vero che da piccolo sognava di diventare un marinaio?
«Sì, è stato il mio sogno d’infanzia, allora amavo molto il mare, forse influenzato dal mio ceppo ligure: nella famiglia di mio padre c’erano parecchi marittimi. I miei genitori mi iscrissero all’Istituto nautico di Genova; avevo già il corredo per andare a Camogli, poi mi presi la scarlattina e optarono per il ginnasio, cambiando così il mio destino. Avrei comunque sbagliato a fare il marinaio: il mio desiderio era legato al sogno romantico del mare. Recentemente, infatti, lavorando a un progetto fotografico sul porto di Genova, mi sono reso conto che la vita degli ufficiali di marina poco ha a che fare con la vita di mare».
Quando ha scattato la sua prima fotografia da fotoreporter?
«Ho iniziato a lavorare come cronista di nera a Milano Sera e avevo frequentemente bisogno di un fotografo che fornisse un’immagine ai miei articoli. Dovevo però sempre implorarli di accompagnarmi. Allora mi sono detto: se imparo io stesso a fare delle foto, mi toglierò questo problema. Dunque ho cercato di imparare a usare la macchina fotografica e, sarà stato agli inizi degli anni 50, la mia prima foto aveva a che fare con un pezzo di cronaca bianca, legata a una questione di circolazione tramviaria milanese».
Nell’era digitale, cosa significa essere fotoreporter?
«L’attività rimane la stessa, così la sua funzione: fornire documentazione fotografica alla stampa, raccontare per immagini la realtà. Una volta era difficile far pervenire ai giornali le foto; spesso, in luoghi remoti del pianeta, bisognava svilupparle in modo rudimentale e poi trovare il modo di inviarle, con tutti i rischi che ne seguivano. Oggi invece è tutto molto più semplice e le foto arrivano ai giornali o in Internet pochi istanti dopo essere state scattate. È dunque cambiata la tecnica di questo mestiere, ma non la sostanza narrativa».
Lei una volta ha detto che la sua fotografia è sempre stata influenzata dalla letteratura. In che modo?
«Lo sguardo che uno porta su un luogo è profondamente influenzato dalle letture che ha fatto. Per esempio ricordo che i libri di Mario Tobino hanno cambiato il mio modo di guardare Viareggio, città dove ho vissuto molti anni. Quando faccio le foto spesso penso ai libri che ho letto. Se fotografo un ragazzino in Catalogna, mi viene in mente uno dei Quarantanove racconti di Hemingway. Io ho sempre letto molto e ho sentito una sorta di influenza della letteratura nel mio modo di osservare la realtà, tanto da avere modificato il mio sguardo. Ho sempre amato gli scrittori fortemente visivi, come Vasco Pratolini, capace di collocare le situazioni con grandissima precisione. Così come Cesare Pavese. Ogni volta che ho letto un suo romanzo, ho avuto voglia di fotografare il clima del libro».
Kafka ha scritto: «Si fotografano delle cose per allontanarle dalla propria mente. Le mie storie sono un modo di chiudere gli occhi». È così anche per lei?
«È un punto di vista davvero seducente e suggestivo. Forse fotografare è anche un modo di registrare le cose in senso definitivo, così da non dovere occuparsene all’infinito».
E quale è stato il suo rapporto con la poesia?
«Ho amato molto la poesia, la capacità di questo linguaggio di andare oltre l’apparenza delle cose, proprio come riesce a fare la fotografia. Ho conosciuto tanti poeti e di molti sono stato amico. Penso in particolare a Raffaello Baldini: ho tenuto a battesimo la sua attività di giornalista. Partimmo insieme in lambretta per fare un reportage per Settimo giorno sui castelli della Valle d’Aosta. Fu un’esperienza indimenticabile. Raffaello è stato un grande poeta e un uomo straordinario».
Fotografia e testimonianza. In che rapporto stanno nel suo lavoro?
«Si fotografa per testimoniare, quest’ultimo è un aspetto primordiale della fotografia. Testimoniare il disagio della condizione umana, in particolare. Ci sono molti modi per testimoniare la nostra condizione, non solo il fatto bellico. In questo senso il fotogiornalismo, quando è civile, è l’espressione più alta della fotografia».
Una delle sue fotografie più famose è il ritratto di Pasolini con sua madre. Che ricordo ha di questo scrittore?
«Pasolini è tra gli scrittori che ho frequentato di più nella mia vita. Ero vicino di casa di Laura Betti, che era come una sorella per Pier Paolo; abbiamo pranzato assieme un’infinità di volte. Ci univa la nostra condizione di uomini del Nord a Roma, una differenza, rispetto ai romani, anche sul piano gastronomico e poi anche nello sguardo verso la vita. Intorno a Laura Betti, e al risotto che lei stessa ci cucinava, si radunava una serie di emigrati dal Nord nella capitale. Con Pasolini parlavamo soprattutto di politica, aveva idee davvero originali e molto contrastanti rispetto al politically correct. Ho fotografato spesso Pasolini, mai nella mia veste di reporter professionale, piuttosto casualmente, quando capitava, in modo amicale».
Un’altra delle sue fotografie che ha fatto il giro del mondo è quella che raffigura i protagonisti del Nuveau Roman, tra cui Beckett e Robbe-Grillet. Come è nato quello scatto?
«Era il 1959. In quel periodo ero a Parigi, insieme a Giancarlo Marmori, per realizzare un reportage per L’illustrazione italiana. Eravamo all’interno dei locali delle edizioni Minuit e c’erano diversi scrittori che discutevano. A me venne l’idea di portarli fuori e fotografarli. C’erano, tra gli altri, Claude Simon, Alain Robbe-Grillet, Nathalie Sarraute e Samuel Beckett, che non amava farsi fotografare e nemmeno intervistare. L’operazione durò pochi minuti: li feci sistemare in modo casuale, anche perché tra loro non si conoscevano e infatti in quella foto si vede che non si parlavano e nemmeno si guardavano. Ne venne fuori una foto di gruppo molto particolare e io divenni il fotografo che aveva immortalato la grande letteratura».
Le è mai venuta la tentazione di scrivere?
«In realtà ho scritto molto nella mia vita. Da giovanissimo anche qualche racconto e ho fatto tantissimi articoli per accompagnare servizi fotografici. La mia vera scrittura però è sempre stata la fotografia, con questo linguaggio ho testimoniato quello che ho visto».
Nel raccontare la realtà, cosa differenzia uno scrittore da un fotografo?
«Il fotografo quando racconta quello che vede è come se prendesse degli appunti immediati, mentre lo scrittore elabora quello che ha visto, ci riflette, il racconto di quest’ultimo è quindi filtrato rispetto al tema. Per questo penso che sul piano della riproduzione fedele della realtà, non su quello qualitativo, la fotografia superi la parola. Più o meno quello che diceva Walter Benjamin».
Uno dei suoi ritratti più belli è quello all’attrice Jean Seberg. Come l’ha conosciuta?
«L’ho conosciuta molto presto, a Parigi, prima che diventasse famosa come protagonista del film di Godard, Fino all’ultimo respiro; allora era sposata con un avvocato parigino. Ci siamo poi frequentati molto a Roma, quando Nelo Risi, fratello di Dino e mio grande amico, girò Ondata di calore, in cui lei era la protagonista. Io feci un lungo lavoro per questo film, che era quello di raccontare per immagini fotografiche fisse l’immaginario marito della protagonista, che era un esploratore. Con Jean abbiamo avuto un rapporto di profonda amicizia, mi seduceva il suo impegno politico e civile. È stata una donna che ha molto sofferto e questa sua sofferenza le ha dato uno sguardo sensibile sul mondo. Quel famoso ritratto l’ho fatto a Parigi».
C’è qualcuno che avrebbe voluto fotografare, ma non ci è mai riuscito?
«A volte ho rinunciato a fotografare delle persone perché sentivo che non dovevo farlo, per garbo, per educazione. Ricordo che una volta, era il 1952, andai a casa di Marc Chagall, a Vences, in Costa Azzurra. Gli suonai il campanello, mi ricevette la governante, che mi introdusse al maestro, allora già molto vecchio. Quest’ultimo mi invitò nel suo studio, le pareti delle scale erano tutte affrescate da lui, uno spettacolo meraviglioso. Dovevo fargli un’intervista, ma mi accorsi di non conoscere abbastanza il francese, però non volevo nemmeno fotografarlo per non essere sgarbato. A un certo punto mi chiese se avevo il tesserino giornalistico, che ovviamente non avevo con me. Mi congedò dicendomi di ripassare un’altra volta. Non ho più avuto il coraggio di tornare… Che rimpianto».
In che modo denuncia sociale e qualità estetica possono trovare un punto di incontro nella fotografia di reportage?
«Troppa estetica uccide la verità. La qualità di una fotografia è sempre legata alla capacità di chi guarda di produrre immagini armoniose. E spesso questa sensibilità non è premeditata, è come un istinto: uno ce l’ha, oppure no. In questo senso ho sempre ammirato le fotografie di Sebastião Salgado, un autore che fotografa un luogo terribile, come le favelas, trasformandole in un teatro del mondo, facendoci però dimenticare la sofferenza che abita quei luoghi e proiettandoci in un mondo altro».
Lei una volta ha detto: «Il mio modo di fotografare richiede un elemento antropologico». In che senso?
«La consapevolezza di quello che si fotografa, in senso etnico e storico. Quando uno fotografa, deve tenere conto del costume degli altri, deve rispettare le sensibilità dei soggetti che ha di fronte, le tradizioni della gente. L’uomo è centrale nelle mie fotografie, non ho quasi mai fotografato il mondo nudo, ho sempre aspettato che in un luogo passasse qualcuno».
L’intervista è già apparsa nel 2014 nella rubrica di “Officina poesia” dedicata all’incontro tra letteratura e arti.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).