Il calcio era l’unico orizzonte per cui vivevamo, letteralmente vivevamo, io e la totalità tutta dei bambini maschi in città, e i rari, rarissimi fratelli umani che non ne possedevano i geni demoniaci semplicemente non erano più fratelli. Erano sconfitti, fluido molliccio. Se non giocavi e non ne sapevi parlare, retrocedevi al rango di bandito, eri morto. Se non giocavi ma ne sapevi parlare, dimostravi di interessarti, se mostravi di contemplare il valore del tifo, eri mollicone ma vivo. Ma prima di avere l’età per scendere in strada e misurarsi con gli altri su chi fosse più abile, il più carismatico, il più tecnico, il più efficace, il più vincente, scaltro e spietato, e accettare che solo quel che succedeva in campo regolasse la gerarchia della scarna realtà a ornamento delle praterie d’asfalto o terriccio che in cinque, sei, sette punti strategici tra il mio quartiere e le periferie consentivano partite orgiastiche, ci fu la fase solipsistica, la scuola autodidatta degli anni in cui la socialità era nulla e consisteva nelle onde magnetiche addolcite del nucleo familiare. Io ero un ossesso, e la costruzione dello stadio in casa un’impresa laboriosa. Non bisognava assolutamente accontentarsi di vaghi e accennati segnali di verosimiglianza, e dai primi concepimenti fino al progetto completo da me stesso accreditato come prototipo passò circa una stagione. E sebbene l’innalzamento di un così sofisticato tempio alla megalomania precoce fosse innanzitutto un’opera di fantasia, era vitale che l’intera gamma delle proporzioni in gioco, spalti, riflettori, recinzioni, porte, linee del campo, pallone, pupazzi giocattolo demandati a impersonare i calciatori, ambulanze o elicotteri per il soccorso, e ancora fotografi, inservienti, pubblico in tribuna, servizio d’ordine, torri per la televisione e tabelloni luminosi, fosse pienamente rispettata. Nel brevetto finale, poi approvato e consacrato da ore e ore di gioco, fatte salve le modifiche circostanziali e le ordinarie migliorie nella manutenzione, tutto doveva somigliare il più possibile alla realtà, ma non in senso fotografico. Piuttosto la messa in scena doveva consentire la costante trasposizione, suggerirla nel suo divenire imprevedibile come un semplice attacco musicale per l’orchestra libera d’improvvisare, e così avrei potuto innescare il mareggiare della fantasia sublimata, perché altrimenti sarebbe bastato accontentarsi del celeberrimo Subbuteo, che a dire il vero, da precoce adepto del fanatismo verso qualsiasi forma di manifestazione pedatoria esistesse, chiesi ai miei per il compleanno del giugno 1982, quello dei Mondiali di Spagna, sentendomi rispondere che era un gioco troppo complesso per un pargolo della mia età, e che semmai sarei dovuto tornare alla carica intorno ai quindici o sedici anni. Nel frattempo, avrei dovuto cavarmela da solo. E me la cavai da solo. Scelsi allora un posto particolarmente adatto in soggiorno, una radura di pavimento priva di mobilio e larga qualche metro quadro, che all’estremità sud era confinante non con un fiume in piena ma con una stanza tonda e rialzata, che faceva assomigliare quel punto della casa alla torretta di un sommergibile, il cui accesso era intralciato da due gradini abbastanza larghi da poter ben delineare il lato corto del perimetro di un immaginario terreno di gioco. Quel particolare mi era subito sembrato un buon principio per l’allunaggio, e la bandiera dei pirati a vessillo della crosta lunare fu idealmente piazzata perché mi appropriassi definitivamente del terreno privilegiato, dell’oggetto del desiderio nella più bella corsa all’oro che potessi immaginare, e nel doppio gradino intravidi delle solidissime fondamenta per la curva sud del mio personale Maracanã. Per l’edificazione delle tribune l’idea venne per caso: nell’ora demandata ai compiti, catarsi nel convenzionale da cui non si poteva in nessun modo trascendere prima di iniziare la vita vera, la visione di un paio di sussidiari sul tavolo poggiati uno sull’altro in modo leggermente asimmetrico fu come una rivelazione: i libri non erano solo libri, ma gradoni ampi e ospitali. Capii di colpo cosa avrei potuto farmene delle centinaia di tomi e vo lumi presenti nella biblioteca di famiglia, intere enciclopedie che annualmente transitavano in casa secondo categorie di abbondanza esorbitanti, soprattutto per l’innata incapacità genitoriale di rifiutare l’assalto dei venditori porta a porta più capaci, o almeno di quelli che conoscevano il mito di Narciso. Credo di aver preso allora coscienza definitiva dell’esistenza, nell’uomo, di un Super-io viziato e lunatico da cui sarebbe stato meglio tenersi alla larga, quando assistetti, alla veneranda età di sette anni, all’arrivo del Venditore di enciclopedie allo studio professionale, per dirla all’Auguste e Louis Lumière. Io ero lì per disegnare le mie solite vanaglorie, robot volanti di cui mi vedevo l’eroico pilota, in linea con la mia partecipata adesione a fruire di certi cartoni animati giapponesi in cui gli eterni confronti tra bene e male e tra viltà e coraggio erano perpetuati così all’estremo da apparire come gli unici leitmotiv della vita futura. Oppure tratteggiavo tirannosauri di cui ero il domatore, l’unico umano in grado di controllare e dirigere il loro potenziale distruttivo verso la devastazione di millenni di opere umane verso la successiva palingenesi del mondo, o infine progettavo auto e aerei modernissimi e color pastello, i più moderni che fossero mai stati inventati, prodigi della cinematica infagottati con motori aerodinamici ultrapotenti. Dipingevo quelle erinni malevole con la chiave d’accensione nei minimi dettagli, i flap e la carlinga a muso di squalo con tanto di fauci e occhi disegnati e il naso rosso, come avevo visto fare per i P40 Warhawk, gli aerei americani impegnati nella Seconda guerra mondiale sulla cui cosmogonia le edicole non smettevano mai di fornire materiale, e le mie furiose e personali interpretazioni di mostri assassini a comando lanciati contro nemici di cui non ero a conoscenza avevano quel volto da comics, anime cardiache a loro volta inscatolate in carrozzerie all’avanguardia, e corazzate, marchingegni addobbati di armamenti come fossero ninja, e al contempo rapide più di squali assassini e battagliere come uccelli rapaci. Erano le prime avvisaglie di una passione del tutto irrazionale per la tecnologia che allora vivevo come principio divino, dogma puro, niente di più niente di meno di un fuoco vivo alimentato da quel tipo di kerosene potentissimo che era il desiderio di successo con gli adulti; parlare un linguaggio a loro familiare, immettere valore nell’immaginario rattristito, defantasticizzato che li contrassegnava, un bisogno poi in me estinto in un baleno al sopraggiungere dello sviluppo, quella fase transitoria che si esaurì portando via con sé, nell’oblio, le sterili e saputelle manifestazioni di ossequio cui mi agganciavo roboticamente, come la capacità di riconoscere all’istante, dopo un semplice e fulmineo passaggio al semaforo, tu ti i modelli di automobile esistenti. Considero un momento indimenticabile della mia infanzia, più che i viaggi in antica Grecia con la famiglia o l’iniziazione scolastica, e alla pari con il totem primitivo, ovvero il primo match calcistico disputato per strada, l’apparire sull’uscio aperto di quell’uomo incravattato che la familiarità con l’atto d’impostura perpetua, consistente, in quella personalissima declinazione, nel foraggiare i prodotti da vendere (scope elettriche, enciclopedie, abbonamenti al Club del libro), corredandoli di caratteristiche umanoidi e categorie dell’anima. Quell’attività giornaliera per me così ripetitiva l’aveva reso deforme, pingue, ghignante per il resto della vita. Un saluto mellifluo a mio padre e un baciamano coreografico a mia madre inaugurarono la scena, poi lo sciorinare di una tecnica di vendita dopo l’altra fu l’unico rumore di fondo. Eppure ricordo nitidamente che il dato principesco, il colpo di alabarda che ai miei occhi contribuì a illustrarmi quell’uomo come decapitato e privo di qualsiasi ascendente su di me, fu la sua assoluta dissomiglianza perfino con il più gregario e insulso dei miei eroi di allora, i calciatori. Platini. Boniek. Scirea. Cabrini. Zoff. Tardelli. Butragueño, Madjer, Protasov, Saravakos, Stojković, Maradona. Uomini aitanti loro, scialbo lui. Cavalieri della tavola rotonda loro, lui insignificante maniscalco dell’accattonaggio. Nitidi volti avvezzi alla battaglia i loro, rantolante muso da roditore il suo. Ma, per quanto emanasse un cattivo odore di sigaretta e si fosse lasciato trasportare dall’enfasi ciarliera a una serie di complimenti sul mio aspetto da bambino fatale e taciturno con lunghi capelli neri (e in più, unico e solo tra tutti i miei precedenti incontri con estranei, avesse virtuosamente evitato di scambiarmi per una femminuccia), quando tirò fuori dalla borsa un paio di tomi dimostrativi del Grande dizionario della lingua italiana a firma di Niccolò Tommaseo, aggiornato al 1865 e in ventiquattro volumi, io realizzai senza alcuna titubanza e con l’energia rivelatoria del vaticinio che avevo trovato buona parte della mia tribuna laterale. Così mi dichiarai apertamente a favore dell’acquisto, innescando una concatenazione di equivoci. I miei genitori reagirono tiepidamente all’entusiasmo che sprigionavo; titubarono e balbettarono per la naturale diffidenza a esaudire un desiderio bambinesco di gittata così sproporzionata rispetto alle supposte capacità di discernimento, e quindi mi canzonarono con una certa enfasi per riposizionarmi nel ruolo di gregario, l’umile scudiero, e così il mercante pensò di avere un complice su cui appoggia- re tutta la strategia di vendita, per poi capire quasi subito – e di una così prolifica lucidità bisogna dargli atto – che far leva sul mio desiderio poteva solo funzionare come azione depistante, un grimaldello per ammansire il vero punto debole della fortezza sotto assedio, cioè il narcisismo di mio padre. «Ha ragione» gli disse, rivolgendosi a me, «queste non sono decisioni che può prendere un bambino.» Eppure era chiaro che, mentre l’attacco di fronte al ponte levatoio centrale, presidiato dalle schiere di arcieri e dalla fanteria più addestrata contro gli inganni ciarlieri dell’affabulatore, procedeva lento e pachidermico, il grosso dell’esercito nemico stava per espugnare i rifornimenti d’acqua e grano al castello di cristallo che è l’io. Un’azione militare semplicissima. E se dinanzi a frasi come «un uomo della sua cultura», «un così stima- to professionista», «parliamoci chiaro, qui parliamo di un livello che non è per tutti», che somigliarono a colpi d’ariete, il legno solido della diffidenza poté ancora sopportare l’impatto, la strofa «parliamo di una cifra ridicola, da arrossire, noi non è che edifichiamo il mondo, solo un milione e duecentomila lire», abbatté ogni resistenza plausibile: la breccia era aperta. La debolezza ancestrale, il totem ultimo che in forma diversa possiede la tirannia di ciascuno di noi, risvegliato. Per mio padre il Dio assoluto era la messa in scena della sua supremazia morale sulle questioni materiali, assiomatica dimostrazione della sua stessa idea di virtù. Ecco perché quando al liceo appresi che il veggente Tiresia, a proposito di Narciso, si era espresso attraverso un così sublime presagio – «Narciso vivrà fino a tarda età, purché non conosca mai se stesso» – mi deliziai della forma letteraria ma non mi sorpresi del contenuto, che avevo già sperimentato nel focolare domestico. Ma ciò che contava davvero, allora, fu che tribune prefabbricate in numero copioso sarebbero giunte al mio cantiere, a un costo per me ragionevolissimo, perfino trascurabile, cioè nessuno. La creatura prendeva forma lentamente. Libri ammassati uno sull’altro fino a sessanta, settanta centimetri d’altezza, perché volevo uno stadio enorme che potesse contenere almeno centomila spettatori, proprio come i luoghi mitici di cui sentivo spesso parlare alla televisione. Wembley, il Camp Nou, il Santiago Bernabéu, il Maracanã di Rio e il Marakanà di Belgrado, che scaraventandosi nella mia vita a minuscole dosi, una o due volte l’anno se andava bene e nessuna se andava male (il vettore determinante erano i risultati ottenuti dalle squadre italiane che partecipavano alle coppe europee), acquisivano l’identico statuto dei luoghi delle favole. Non c’era alcuna differenza sostanziale per me, se ci rifletto bene, tra Camelot e l’Old Trafford di Manchester. Postulavo che non ci sarei mai stato in vita mia, e che gli stadi mitici della storia del calcio sarebbero rimasti luoghi dell’immaginazione, perché dopotutto, meditavo, a Camelot o ci si entrava per sedersi alla tavola rotonda o era meglio che restasse un ologramma.
(Questo testo di Giancarlo Liviano D’Arcangelo è tratto dal suo ultimo libro, Gloria agli eroi del mondo di sogno, il Saggiatore 2014)
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).