La storia che ha portato un tatuatore salernitano di nome Mauro, un giovedì pomeriggio di inizio maggio con molto sole a disegnarmi per la prima volta sulla parte interna del braccio destro il profilo sfuggente di Giordano Bruno, inizia una sera di quasi dieci anni prima, intorno alle 22, dentro un’aula universitaria immersa nel verde di un parco vicino a via Nomentana, in quella parte di Roma piena di ambasciate e coni spartitraffico.
Ero appena arrivato all’università da San Benedetto del Tronto: avrei studiato filosofia dopo che i provini estivi con la Silvio d’Amico mi avevano lasciato molto amaro in bocca e la palese certezza che il modo migliore per dare sfogo al mio esibizionismo non fosse da un palco teatrale (o almeno non provarci cercando di fare la parte di Penteo nelle Baccanti di Euripide, quando è evidente che è Dioniso il protagonista). Ma il non sapere che cosa fare della tua vita era una cosa abbastanza normale per tutti: nessuno allora aveva la presunzione che studiare filosofia equivalesse alla certezza di una realizzazione economica, e capimmo tutti benissimo che il miraggio di un lavoro accademico sarebbe stato più una questione di sfrontatezza che di merito (era una cosa che accettavamo, c’era qualcosa di onorevole eppure sofferente in tutte quelle passeggiate e nei mal di pancia causati dai troppi caffè presi coi professori alle macchinette e giacche di velluto con le toppe sui gomiti). Avevamo una specie di ottimismo verso il futuro ovviamente dettato dalle ricariche alle postepay dei nostri genitori e dal sentore euforico che in qualche modo ce l’avremmo fatta, unendo l’incoscienza dei vent’anni ai martedì sera san lorenzini e agli shottini di vodka secca col lime dentro. Ci saremmo fatti bastare la realizzazione emotiva, quella sì, il pensiero labile e ingenuo che quello che avremmo studiato ci avrebbe reso persone migliori (migliori degli altri, quantomeno: la spocchia intellettuale era una specie di requisito minimo).
Ora, la verità era che io di filosofia non capivo un cazzo: avevo deciso con una presa di posizione totalmente arbitraria che sapere a cosa pensare sarebbe equivalso in qualche modo a saper scrivere, per il resto, la filosofia che avevo studiato al liceo e che mi era stata insegnata da una professoressa laureata in pedagogia che si professava hegeliana, era più una cosa buona per fare colpo il sabato sera: ricordo che pur piacendomi parecchio diventava il surrogato di una specie di utilizzo stantio della predisposizione intellettuale che mi faceva vergognare di me stesso.
In ogni caso, la prima lezione in assoluto che avevo seguito era stata su Husserl, che io non avevo mai sentito nominare: uscii sconsolato e deluso da quelle due ore di estetica in cui si davano per scontati termini come datità, Weltanschauung, epochè fenomenologica. Ma il parco della villa era bellissimo, e nelle giornate serene studentesse coi vestiti corti e con La fenomenologia dello spirito sottobraccio e i capelli lunghi e le borse militari si riversano sui prati a studiare al sole, consolandosi con l’ombra del campanile, quando l’orizzonte saliva abbastanza da darci l’impressione che fosse il sole a tramontare.
Si trattava semplicemente di accordare l’esterno di quello che mi sarebbe potuto succedere con quello che quel posto mi avrebbe potuto insegnare (non è sempre di una specie di tacito accordo tra dentro e fuori che si cerca quando si scrive?), insomma, di regolare le mie funzioni in base a quelle che mandavano avanti la piccola società di una facoltà distaccata. Decisi di ricominciare e per fare le cose per bene l’unica cosa sensata era riprendere dalla storia della filosofia. Quantomeno un approccio storico sarebbe stato più proficuo e anche l’idea di riuscire a sapere Ogni Cosa mi affascinava abbastanza (sono sempre stato un sgobbone che non dice di no al weekend, immaginavo quella specie di genio che ha dentro di sé il Holden Caulfield o il tizio biondo di OC, ma non lo ero veramente, ero bravo nelle cose in cui mi sforzavo, un po’ come funziona per tutti). Così mi ritrovai ad assistere alla prima lezione del corso di quell’anno, uno degli ultimi tenuti da quel professore che diventerà il mio mentore senza promettermi nulla in cambio: De la causa principio et uno, monografia su Giordano Bruno. Era in assoluto l’ultima lezione della giornata, e per capire perché Bruno andasse studiato di notte ci volle solo qualche attimo. Eravamo una quindicina, tra di noi spiccavano: un signore molto anziano che prendeva appunti scrivendo solo ordinate cifre su un quaderno a righe, una tizia bianchissima vestita di nero che metteva paura e un tizio che invece di ascoltare leggeva assorto Infinite Jest. Finalmente mi sentivo a casa.
L’amore fu totale, assoluto, incosciente. Ricordo che dopo la lezione, mentre tornavo a casa aspettando il 90 express, scrivevo criptici messaggi alla mia ragazza rimasta prigioniera nelle marche in una classe di un quinto superiore di un istituto linguistico e di un tizio con cui mi tradiva, che ora era tutto chiaro quello che ora dovevo fare, perché avevo scoperto Giordano Bruno e Giordano Bruno, in pratica, aveva ragione su tutto (avevo naturalmente il sospetto che il concetto di avere ragione è più stupido che filosofico, ma ancora non avevo dentro di me le categorie narrative per trasferire quel tremore alle mani, il piacere tutto fisico che provavo nel leggere i Dialoghi Italiani e il calore che mi saliva al viso quando mi immaginavo il nolano che negli ultimi giorni di vita risponde “avete più paura voi” nell’ascoltare la sentenza di morte), e il fatto che la storia della sua vita si mischiasse così bene alla sua produzione filosofica, fino ad autopronosticarsi la fine che poi ha fatto, aveva qualcosa di così significativo da essere magico, impossibile, mi chiedevo quanto in fondo dovessi conoscere me stesso per essere sicuro della fine che avrei fatto. Per conoscere il futuro.
Filippo Bruno nasce a Nola nel 1548 (per ricordarmelo penso sempre all’espressione “è successo un 48” e funziona abbastanza bene), comincia la formazione tra l’università di Napoli e maestri privati, a quindici anni arriva al convento di San Domenico Maggiore, dove si unisce alla causa domenicana, rinuncia al nome Filippo per quello di Giordano e diventa professo all’età di diciotto anni.
Ora, qui iniziano i problemi.
A quel Giordano dall’intelligenza irrequieta interessa soltanto il suo percorso filosofico, dunque non si farà nessun problema a togliere dalla sua cella le immagini dei santi, per lasciare solo un crocifisso e a consigliare a un suo confratello di lasciar perdere la Storia delle sette allegrezze della madonna, per darsi a un più complesso (e controriformato) Vita de’ Santi.
Per me quei mesi passarono in fretta, diedi il primo esame su di lui qualche giorno dopo il mio compleanno e per festeggiare io e gli amici che mi andavo facendo senza che ci fosse il bisogno di cercarli andammo a Campo de’ Fiori, trascinando bottiglioni da due litri di orrendo Aglianico che il Carrefour vendeva a 4 euro e 99. In qualche hard disk dismesso ci dev’essere una foto di me inginocchiato davanti alla statua, con le ginocchia sui sampietrini umidi e un cappotto nero di lana. Devo essere rimasto in quella posizione per una buona mezzora, quando a un certo punto mi sono reso conto che stavo pregando.
Stavo pregando? Stavo rivolgendo pensieri muti al simbolo di qualcuno che però era morto? Che cosa mi stava succedendo? Era possibile che Giordano Bruno, nemico giurato della chiesa, mi stesse riavvicinando alla dimensione spirituale delle cose? Era possibile che addirittura esistesse, una dimensione spirituale delle cose?
La cosa mi pareva strana, ma ancora non sapevo che il mio cervello stava percorrendo un sentiero il più possibile antitetico a quello dei miei compagni. Disclaimer: non parlo di papa boys, gente di CL, neocatecumenali o di tutti quelli che si ritenevano in dovere di ostentare la professione di una qualche religione più o meno evidente il cui scopo fosse la subdola evangelizzazione del prossimo, sto parlando di gente normale, che non aspetta il matrimonio per fare sesso, che usa il preservativo molto meno di quanto dovrebbe, che non ha paura dell’esercizio alcolico e per la quale dio è sempre stato un problema e mai una certezza, ecco. Nella maggior parte dei casi, le persone che entrano a filosofia e che sono confuse abbastanza rispetto alle questioni teologiche ne escono che sono perfettamente atee: l’esercizio della ragione e la storia del mutamento del pensiero occidentale raramente porta a osservazioni conclusive diversa da questa, specie quando Marx è in programma tutti gli anni e i corsi di filosofia della scienza aumentano gli iscritti a ogni programma. Per me è stato il contrario, e non voglio con questo rimarcare una differenza di valore, mi limito a registrare un fatto: io, che avevo rifiutato di fare la cresima tra la costernazione dei miei e che mi ritenevo perfettamente ateo, iniziavo a leggere del dio di cui parlava Giordano Bruno con un’attenzione che trasvolava il semplice piacere accademico: in una parola, io cominciavo a credere in quel dio perfettamente immanente al mondo e trascendente allo stesso tempo, di cui l’universo era il suo simulacro. Cominciavo a ritenere desiderabile senza mai possederlo veramente il concetto dell’Uno, e perché no, lla trasmigrazione delle anime e la permanenza nel mondo del sostrato delle cose anche dopo la loro morte, l’esistenza di un organismo vivo (almeno qualitativamente) a cui appartenesse tutto l’esistente. Non sapevo se quello fosse naturalismo, panteismo, panpsichismo, non mi interessava: era un modo plausibile per ritenere che le cose fossero tutte collegate, in un modo o nell’altro, un’invenzione tutta letteraria sotto la forma di un’equazione riduzionista abbastanza che appagasse i miei dubbi circa la necessità delle cose che succedono, sia che si parlasse di letteratura o di vita vera (allora le due cose non erano per niente separate e in ogni caso i dubbi non finirono comunque lì: negli anni dovetti andare alla fonte di quelle inclinazioni e leggere, come fosse la bibbia, il Corpus Hermeticum e tutto quello che di egizio c’era nella filosofia greca). La verità è che a Bruno interessava la metafisica molto più di quanto gli interessasse la religione.
La speculazione filosofica di Bruno è incentrata sulla naturalità delle cose, e mutua molte delle sue categorie da quelle dei filosofi che lo precedono: quando sarà lettore a Oxfordi suoi riferimenti a Ficino gli varanno un’accusa di plagio, ma lui semplicemente conosceva a memoria la sua produzione, era il tipo di persona che riusciva a citare alla perfezione Aristotele e Platone, dopotutto la sua memoria era stata sempre la prova delle sue capacità di mago, quelle che gli varanno la prima incriminazione. Dopo che a Roma verrà accusato di aver ucciso un confratello gettandolo nel Tevero comincia la sua grande corsa per l’Europa, ma non troverà vera accoglienza da nessuna parte: inizia a insegnare al Nord Italia, poi sarà lettore straordinario in Francia nella corte di Enrico III, ma le cose che insegna sono pericolose ovunque: a Londra scriverà I Dialoghi Italiani, la summa perfetta del suo insegnamento filosofico (un testo uscito qualche anno fa avanza l’idea che possa anche essere stato una spia al soldo di Maria Stuart di Scozia ma non ci sono evidenze in questo senso) e a Francoforte i calvinisti riformati lo sopporteranno solo per qualche mese. Non c’è pace per Giordano Bruno e per il suo pensiero antidualista.
Venezia, 1591. Il signor Mocenigo invita nella sua casa il filosofo/mago per apprendere l’arte della magia, ma quando capisce che il filosofo non ha intenzione di condividere con lui la sua filosofia (o quantomeno non è alla sua filosofia naturale che Mocenigo è interessato) lo denuncia all’inquisizione. La sera stessa viene scortato nei piombi veneziani, gli stessi che quasi un secolo dopo ospiteranno anche Casanova e la sua intelligenza irrequieta.
Nel frattempo io mi laureo con una tesi sulle nuove interpretazioni dell’ermetismo filosofico, praticamente la base neoplatonica sulla quale Giordano Bruno elabora le sue teorie universali (mi interessava scoprire se effettivamente c’era stata, intorno al 200 d.C. una religione in Egitto che possa essere stata definita ermetica. La risposta, con mio sommo dispiacere fu: no). Cerco di fare un dottorato con un progetto che si chiama “Storia delle dottrine esoteriche del mediteranneo” ma giustamente mi ridono in faccia e tutto quello che scrivo di buono alla fine lo metto in un romanzo. Sto bene, alla ragazza con cui sto racconto la storia di Giordano e ogni volta mi viene la pelle d’oca pensando all’infinità di quell’universo che finalmente si libera dalle catene tolemaiche e supera addirittura l’eliocentrismo copernicano: seguendo la metafora della coincidenza degli opposti il cielo aristotelico si frantuma e diventa infinito, senza nessun punto di riferimento fisso. La libertà dell’uomo ora è totale, perché i mondi sono infiniti, e naturalmente l’infinità è spaventosa.
Mi faccio regalare le opere magiche edite da Adelphi, uno di quei libri che da solo fa una biblioteca e a chi mi chiede la visione di un film consiglio il Giordano Bruno di Volontè, che ha un accento napoletano che mi prefetto per la parte.
Giordano alla fine ritratta su alcune posizioni, i dubbi sulla trinità si ammorbidiscono senza mai cessare del tutto: per questo motivo viene portato a Roma, alla mercé di una Santa Inquisizione che lo terrà prigioniero otto anni, prima di giungere a un verdetto.
Nell’opera più rappresentativa di Bruno, cioè l’ultima dei Dialoghi, intitolata Gli eroici furori (la furia rimanda alla pazzia di Erasmo, a quella di Orlando), il filosofo, seguendo un procedimento dialettico analogo a quello che aveva fatto con Lo spaccio della bestia trionfante (eliminare il centro per far apparire la circonferenza, e dunque ridistribuire rinominandole le costellazioni artefatte del cielo aristotelico), racconta il mito di Atteone il cacciatore. Egli era andato a caccia con due mute di cani, i mastini e i velcri rappresentativi di intelletto e volontà. A un certo punto, inoltratosi nella foresta intravede Diana nuda, che rappresenta tutto quanto vi è di più puro in quella natura che è ogni cosa. Lei se ne accorge, lo fissa negli occhi e nella frase più famosa “Il cacciator divenne caccia”, lo trasforma in un cervo, che viene sbranato dai suoi stessi cani. Il cacciatore filosofo così si “india” riconoscendo se stesso come parte del tutto e divenendo così nella natura stessa, ritrovando internamentne quell’Uno senza forma è che l’universo stesso. È questa la fine dell’eroico furioso, offrire sé stesso in cambio dell’illuminazione totale, della conoscenza pura. Eliminando il discorso di un disegno programmato, di un destino in cui Bruno non poteva credere, avendo fatto di tutto per liberare l’universo da ogni fissità, la frase Qui auget scientiam qui auget et dolorem mi sembrache rappresenti una didascalia adeguata, per l’immagine di colui che all’alba del 17 febbraio 1600, scortato dalla compagnia di San Giovanni Decollato, fu trascinato in Campo de’ Fiori e lì Abbrusciato vivo.
Giordano Bruno per me significa la benedizione del movimento libero delle idee salvando però la materia e tutto ciò che di basso (di materiale) essa comporta, e me lo immagino, con la morsa in bocca per non farlo parlare, mentre cammina verso Campo de’ Fiori, forse immaginandosela già, la statua accigliata che lo ritrae col libro in mano, e lo sguardo rivolto significativamente verso la cupola di San Pietro, poco distante, a futura memoria di uno spirito di cui il mondo e il mio braccio destro, non si libereranno tanto facilmente.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).