Quando ci troviamo a parlare, a riflettere su uno scrittore morto ormai da molti anni, la prima domanda che mi pare giusto farsi – anche nel caso di una colonna della letteratura italiana come è universalmente riconosciuto essere Italo Calvino – è quanto questo scrittore ce lo sentiamo contemporaneo, quanto lo percepiamo come uno scrittore vivo.
Qualche tempo fa mi è capitato di entrare in una cartoleria qualsiasi, lontana dal centro, e di scoprire che nel piccolissimo scaffale dei libri, accanto a Bruno Vespa, a Tom Clancy, a Grisham e altri best-seller c’era una copia di un libro di Italo Calvino.
Io non so se questo sia un segno eloquente della vitalità di uno scrittore. Forse quel libro era lì perché è una lettura consigliata dagli insegnanti delle scuole medie, e forse ci sono segni più eloquenti, più universalmente riconosciuti: il numero di studi e monografie che nel mondo ogni anno escono su di lui; le ristampe; gli spettacoli tratti dalle sue opere. So che Italo Calvino è ai primi posti in ciascuna di queste ipotetiche classifiche. Ma ecco, trovare in un piccolissimo scaffale di una cartoleria qualsiasi una copia di un suo libro me l’ha fatta toccare con mano, questa sua presenza.
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Si trattava di una copia del Barone rampante. Sono convinto che in altre cartolerie potremmo trovare Il visconte dimezzato e Il cavaliere inesistente. Medardo di Terralba diviso a metà, Cosimo Piovasco di Rondò che passa la vita sugli alberi e Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentrat e Sura, cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez, paladino al servizio dell’Imperatore Carlo Magno (che ha così tanti nomi proprio perché non esiste), sono protagonisti di storie in cui il fantastico è virato su toni di meraviglia baldanzosa, amarognola e lietamente disperata, a cui nessuno era più arrivato dai tempi dell’Ariosto (e guarda caso di lì a poco Calvino avrebbe lavorato a una versione in prosa dell’Orlando furioso), e a cui è davvero difficile resistere, per qualsiasi tipo di lettore dal più ingenuo o tradizionalista al più raffinato e aggiornato sui nuovi modi di scrittura.
Fu con questa trilogia che Calvino si guadagnò l’appellativo di ‘folletto della letteratura italiana’, prima di trasformarsi nello scrittore mentale per eccellenza della fine del secolo scorso. E cioè nell’autore delle Cosmicomiche, di Ti con zero, delle Città invisibili; del Castello dei destini incrociati, di Se una notte d’inverno un viaggiatore, di Palomar: libri diversissimi l’uno dall’altro (come scrive lo stesso Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore: “Ti prepari a riconoscere l’inconfondibile accento dell’autore. No. Non lo riconosci affatto. Ma, a pensarci bene, chi ha mai detto che questo autore ha un accento inconfondibile? Anzi, si sa che è un autore che cambia molto da libro a libro. E proprio in questi cambiamenti si riconosce che è lui.”), eppure accomunati dal fatto di essere opere all’interno delle quali non si parla più di anni, di decenni, ma di ere geologiche. Opere di un Calvino che non crede più alla Storia, non crede più a un ‘mondo di ferro’ contro cui si poteva e si doveva lottare per cercare di migliorarlo, come aveva fatto durante la militanza partigiana e poi politica all’interno del Pci fino al 1957. A questo atteggiamento si sostituisce piano piano la presa di coscienza di quanto quelle lotte siano inutili, e anzi come tutti gli sforzi per realizzare utopie politiche si risolvano in tragedie collettive (dal Pci era uscito dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria). È in questa fase che Calvino comincia a spostare l’ambito della sua utopia dalla politica alla letteratura: il senso della sua opera, valutato complessivamente, suggerisce che egli abbia cercato di perseguire in modo tacito, per tutta la vita, un’impossibile conciliazione tra esistenza e letteratura, cercando di fare della letteratura un sistema conoscitivo diverso ma paragonabile per valore alla scienza o alla filosofia. È come se avesse cercato di porre le fondamenta di un ‘sistema del pensiero letterario’, rinunciando però, coscientemente, a fare ciò che fino alla fine degli anni ’50 aveva saputo fare così bene, nei Nostri antenati ma anche nel Sentiero dei nidi di ragno e nei Racconti: rinunciando a narrare, rinunciando a raccontarci storie.
È un Calvino che modifica radicalmente il suo sguardo, quello dagli anni ’60 in poi. “La letteratura delle persone” fa pensare ad Amerigo Ormea, protagonista della Giornata di uno scrutatore, scritto nel 1963, “gli pareva una distesa di lapidi di cimitero: quella dei vivi e quella dei morti. Ormai nei libri cercava altro: la sapienza delle epoche o semplicemente qualcosa che servisse a capire qualcosa”.
L’uomo diventa solo una parte, “una provincia”, di un universo infinitamente grande e infinitamente piccolo, ed è lì, verso questi due poli che il suo sguardo si appunta e la sua voce cerca di adattarsi. E ci riesce, visto che riesce a far parlare un “punto nello spazio” come Qfwqf, e a immaginare città invisibili di tale fascino labirintico e inquietante. Ci riesce anche se, come ha notato Natalia Ginzburg, “nei suoi libri cambia la luce, che da radiosa e scintillante si fa bianca, non fredda ma deserta. L’ironia rimane, ma impercettibile e non più felice di esistere, bianca e disabitata come la luna.”
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Ma è davvero una crisi così improvvisa, quella del 1960, o già nel Calvino precedente c’erano avvisaglie di quello che sarebbe stato il suo futuro?
Leggiamo il finale del Barone rampante:
Ombrosa non c’è più […] forse […] era un ricamo fatto sul nulla che assomiglia a questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come segni puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s’intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito.
Vediamo come già qui in Calvino sia presente una riflessione su cosa è la scrittura, su che rapporto c’è tra la narrazione attraverso la parola scritta e ciò che viene narrato. E si era solo nel 1957.
Se poi pensiamo che Il cavaliere inesistente racconta la storia di un uomo che non esiste, al tempo in cui “il mondo pullulava di oggetti e facoltà e persone che non avevano nome né distinzione dal resto”, ci rendiamo conto che già nei Nostri antenati era forte la sua attrazione per il fluido e per l’indistinto (o meglio: la sua esigenza di analizzarli e specificarli), e c’era già una spiccata tendenza a togliere l’uomo dal centro della sua analisi letteraria e dei suoi interessi.
Eppure era lo stesso Calvino che nel 1955 (cioè tra il Visconte e il Barone) scriveva (nel saggio Il midollo del leone):
Il romanzo vive nella dimensione della storia […] È sul ‘fare storia’ che deve puntare lo scrittore, pur sempre partendo dalla realtà del paese che più ama e conosce: e la storia […] è sempre storia contemporanea, è intervento attivo nella storia futura.
E lo stesso che nel 1961 (nel Dialogo di due scrittori in crisi), di fronte a Carlo Cassola che sosteneva l’esigenza – per uno scrittore – di riuscire a voltare le spalle al proprio tempo, a cercare le cose profonde, le cose che restano, replicava che “bisogna viverlo, questo tempo, buttarcisi dentro, patirlo”.
Salvo poi aggiungere, perfettamente consapevole di questa sua contraddizione:
Lui [Cassola] per raggiungere eterne verità umane ritorna a raccontare i lunghi pomeriggi casalinghi delle ragazze di campagna; io per esprimere il ritmo della vita moderna non trovo di meglio che raccontare battaglie e duelli dei paladini di Carlomagno. Chi di noi è fuori dalla realtà? O lo siamo tutti e due? O nessuno dei due lo è?
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Calvino però, al tempo di questa sua affermazione, non era solo colui che aveva raccontato battaglie e duelli di paladini, per di più inesistenti. Era stato autore di un romanzo d’esordio di ispirazione partigiana, che lo aveva segnalato come uno dei giovani più interessanti della nuova stagione postbellica. Ed era, soprattutto, l’autore di una corposa serie di racconti che erano stati raccolti in volume nel 1958.
Che Calvino è questo Calvino? È un Calvino per certi aspetti profondamente diverso dal Calvino dei Nostri antenati, dal Calvino fiabesco. È un Calvino realista, immerso fino al collo nel suo tempo storico.
Abbiamo quindi, fino alla fine degli anni ’50, due scrittori in uno: il primo che teorizza la necessità di “fare storia contemporanea” attraverso il romanzo e mette in pratica questa teoria per mezzo soprattutto di una lunga serie di racconti; il secondo che elude i suoi stessi precetti e si getta nel campo del fiabesco, anche attraverso l’importante lavoro di recupero e riscrittura delle Fiabe italiane.
Che cosa lega questi due scrittori tra loro, e soprattutto che cosa lega questi due scrittori col terzo scrittore che prenderà vita al principio degli anni ’60, quello che si sarà stancato di raccontare storie? (E che per tutto il resto della sua vita perseguirà quell’utopia di conciliazione tra esistenza e letteratura di cui parlavamo prima, regalandoci tra gli altri quel libro straordinario che è Le città invisibili, libro che, come disse Pasolini, sembra scritto da un ragazzo per la passione, la pazienza e il desiderio con cui è costruito, e allo stesso tempo sembra scritto da un vecchio, perché lì dentro tutto è vissuto come memoria, e anche quella passione, quella pazienza e quel desiderio sono attrezzi della memoria, del ricordo.)
Li accomuna, io credo, lo stile. O meglio: li accomuna una tensione continua – un spazio continuamente percorso da Calvino – tra stile e maniera. Dove si ha maniera quando Calvino utilizza coscientemente le caratteristiche per così dire naturali del suo stile al fine di riuscire a raggiungere il limite delle cose, a dire l’indicibile. Cioè quando tenderà a trasformare la limpidezza del suo primo periodo in quella fredda e assoluta chiarezza di cui parlava la Ginzburg. In questo modo possiamo dire, come per primo ha fatto Giorgio Manganelli, che il Calvino dagli anni ’60 in poi è il più straordinario manierista della letteratura italiana (e non solo italiana) del dopoguerra. Vedremo tra un momento, analizzando i suoi racconti, un paio di esempi di questo suo uso dello stile a fini ‘utopici’. E vedremo anche come questa tensione prenda in lui i colori dell’etica.
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Calvino esordisce nel 1947, col romanzo Il sentiero dei nidi di ragno. La storia è quella di Pin, “il ragazzo lentigginoso di Carrugio lungo [che] pianta baccani che durano ore”, che dopo aver rubato una pistola all’amante tedesco di sua sorella ed essere finito in carcere rischiando di essere fucilato, si aggrega a una banda partigiana. Il libro racconta le peripezie belliche di questa banda, ma ciò che lo differenzia, in meglio, rispetto a tanta altra letteratura di stampo neorealista-resistenziale è lo sguardo scelto per raccontarle: lo sguardo di un ragazzino. Così di scorcio, di sotto in su, le cose si vedono e si possono dire come se uno le vedesse e le dicesse per la prima volta, scrostate da tutti i simboli e i sovrasignificati che, senza accorgerci, normalmente appiccichiamo loro addosso. (Anche le avventure del Visconte, del Barone, e del Cavaliere saranno narrate da un punto di vista simile, e all’obiettivo di uno sguardo vergine, uno “sguardo da archeologo” Calvino tenderà per tutta la vita, fino a Palomar.)
Calvino ha scritto Il sentiero dei nidi di ragno a 23 anni. Nonostante non sia un libro perfetto (ci sono inserti esplicativi che congelano l’azione, e il finale è un po’ troppo dolciastro), è impressionante la maturità stilistica che dimostra: è capace di restituirci quella serie di avvenimenti come fossero una scarica di mitraglia che ti passa poco sopra il capo. È un Calvino in qualche misura espressionista, il Calvino dei Sentieri: per definire i personaggi si serve di poche pennellate decise. Pietromagno è “pelle e ossa, una pelle gialla che gli pende sul collo in grinze flosce e spinose di barba”. Pelle è “un ragazzo gracile, sempre raffreddato, con dei baffetti appena nati sopra le labbra sbavate dall’arsura. […] Duca ha un berretto tondo di pelo abbassato su uno zigomo e dei baffetti dritti sulla faccia quadrata e fiera”.
Dentro questo ritmo, questa sprezzatura, c’è il respiro di un ragazzo di quattordici anni che corre: corre per salvarsi la vita, corre per portare una notizia, corre per vedere i morti e per sentire gli spari. Corre per farsi più grande di quant’è e, vicino ai suoi nidi di ragno, per restare ancora un bambino. Pin, come scrive Calvino, voleva essere “bambino e insieme capo dei grandi”. E questa frase spiega molte cose anche sul suo autore.
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Anche i Racconti, tutti, sono esplicitamente contemporanei al loro tempo storico.
I primi, raccolti nella sezione Gli idilli difficili, sono molto brevi. Parlano di guerra, di povera gente senza più casa, di ragazzini che giocano sulle navi affondate dai tedeschi alle imboccature dei porti, di prostitute per strada. Ci trasmettono le linee, i movimenti, i colori brillanti di quel tempo, o almeno di come lui lo vedeva: l’immaginario di Calvino è sempre stato di tipo essenzialmente visivo. Sono insomma racconti di stampo realista. Ma sono anche una trasfigurazione della realtà.
Un bastimento carico di granchi, per esempio racconta la storia, semplicissima, di una banda di ragazzini che raggiunge a nuoto un bastimento incagliato all’imboccatura del porto. “Anzi, ce n’erano due uno sopra l’altro, quello che si vedeva poggiava sopra uno tutto sommerso.” E quello sommerso è una specie di specchio di quello emerso, visto che lo si può solo guardare, poiché l’acqua è scura e pullula di granchi. (Come ha notato Silvio Perrella, autore di una bella monografia su Calvino, se Calvino deve introdurre un rispecchiamento ama inserirlo in verticale: 25 anni dopo, nelle Città invisibili, troveremo la città di Valdrada: “una diritta sopra il lago e una riflessa capovolta”. Ecco come una cifra stilistica viene usata per andare al di là del sensibile, per portarci in nuove dimensioni.) Qui mi astengo da dare qualsiasi interpretazione di questi granchi che brulicano nel buio: sottoscrivo in pieno l’affermazione di Calvino sul fatto che le immagini hanno una loro speciale dignità: cercare a ogni costo di trovargli un senso è come mancar loro di rispetto.
È un semplice racconto di formazione sul campo, questo, poche pagine. Ma quale energia, che ritmo. E che precisione. Ironia trattenuta, scelta dei dettagli. Quei dettagli che ci fanno ‘passare’ per una cittadina di mare ligure alla fine della seconda guerra mondiale per condurci in quel regno del non detto, dell’indicibile, del sentito in profondità che è il nocciolo dell’esperienza di vita di ognuno di noi e che è il cuore pulsante della letteratura.
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Oppure Paese infido (1953) dove un partigiano ferito si vede preso in trappola nel paese in cui è sceso per farsi curare, con atmosfere da noir rurale potentemente inquietanti, fin quando non viene salvato da una bambina e allora può pensare che “ogni paese, anche quello che pare più ostile e disumano, ha due volti; a un certo punto finisci per scoprire quello buono, che c’era sempre stato, solo che tu non lo vedevi e non sapevi sperare”. Che è una versione più giovanile e ottimista – una versione ‘stilistica’ – della frase che chiude le Città invisibili, la frase detta da Marco Polo (il Calvino degli anni ’50, quando aveva 25 anni?) a Kublai Kan (il Calvino degli anni ’70, quando aveva 50 anni?): “Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
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In quegli anni, tra il ’52 e il ’53, Calvino comincia a concedere ad alcune delle sue storie un respiro più ampio. È del ’53 il trittico de L’entrata in guerra, comprendente anche Gli avanguardisti a Mentone e Le notti dell’UNPA, raccolti nella sezione Le memorie difficili. Sono tre racconti autobiografici, con un io narrante che percepiamo proprio come l’io di Calvino, come di rado ci è dato scorgere nella sua produzione. Vi si raccontano le indecisioni, gli andirivieni e le incertezze politico-esistenziali di un diciassettenne un po’ schivo nato e cresciuto nel bel mezzo del fascismo, alle prese con le divise, i turni di guardia notturni, le parate di accoglienza, o l’assistenza ai profughi fatti sfollare in fretta dalle campagne al confine con la Francia. Non li amava molto questi tre racconti, Calvino. Li considerava un cedimento, una debolezza rispetto a quel processo di allontanamento e rimozione del proprio io già in corso – seppur in modi più sfumati – anche negli anni ’50. Proprio per questo, sono racconti che ci dicono molte cose riguardo al suo autore. In particolare sulla sua difficoltà a interagire, a entrare in contatto in via diretta, ravvicinata, con le situazioni e con le persone. Sulla sua necessità di creare tra sé e il mondo una distanza: c’è chi ha parlato di pathos della distanza. La distanza tra sé e il padre, per esempio, con il quale non ebbe mai rapporti facili. Suo padre, un agronomo di fama, aveva più di 40 anni quando Calvino nacque, ed era in tutto e per tutto un uomo dell’800. I due non trovarono quasi mai le parole per parlarsi. Mario Calvino era morto da due anni nel momento in cui il figlio scriveva questi racconti, ed era morto mentre Italo era in Unione Sovietica, partito pur conoscendo la gravità delle condizioni fisiche del padre. Il finale delle Notti dell’UNPA merita di essere letto per intero, perché oltre a illustrarci il pathos della distanza e il modo in cui Calvino riusciva a convogliare il suo universo emozionale attraverso la griglia a maglie strette della sua parte intellettuale, è anche una pagina straordinaria di per sé. Il protagonista, dopo una notte passata in giro per la città oscurata insieme a un amico – la prima notte della sua vita passata fuori casa – prova a prendere sonno all’alba sulla scomoda branda di una scuola. Ma addormentarsi è difficile, la mente vaga, e quasi impercettibilmente si sintonizza sul rovescio di quella notte ‘fuori’, cioè sulle abitudini di casa.
A quell’ora mio padre s’era già alzato, s’era affibbiato ansando i gambali, e infilato la cacciatora gonfia d’arnesi. Mi pareva di sentirlo muovere per la casa ancora addormentata e buia, svegliare il cane, chetare i suoi latrati, e parlargli e rispondergli. Scaldava la colazione al gas, per il cane e per sé; mangiavano insieme, nella fredda cucina; poi si caricava una cesta a tracolla, un’altra in mano, e usciva, a lunghi passi, la bianca barba caprina avvolta nella sciarpa. Per le mulattiere della campagna il suo passo pesante, accompagnato dal sonaglio del cane, e il suo continuo tossire e scatarrare erano come il segno dell’ora, e chi abitava lungo la sua strada sentendolo mezzo nel sonno capiva che era tempo di levarsi. Giunto col primo sole al suo podere, dava la sveglia ai contadini, e prima che fossero sul lavoro aveva già girato fascia per fascia e visto il lavoro fatto e da fare e cominciato a gridare e imprecare riempiendo della sua voce la vallata. Più s’inoltrava nella sua vecchiaia, più la sua polemica col mondo si concretava in quell’alzarsi presto, in quell’essere il primo in piedi in tutta la campagna, in quella perpetua accusa verso tutti: figli, amici, nemici, d’essere un branco d’inutili infingardi. E forse i soli momenti suoi felici erano questi dell’alba, quando passava col suo cane per le note strade, liberandosi i bronchi del catarro che l’opprimeva la notte, e guardando pian piano dal grigio indistinto nascere i colori nei filari delle vigne, tra i rami degli olivi, e riconoscendo il fischio degli uccelli mattinieri uno per uno.
Così, seguendo col pensiero i passi di mio padre per la campagna, m’addormentai; e lui non seppe mai d’avermi avuto tanto vicino.
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Questi racconti più lunghi, più distesi, dove le descrizioni di luoghi, personaggi e stati d’animo si fanno meno grottesche, più analitiche, più sottili e ramificate, ci portano verso i due racconti lunghi che non a caso Calvino ha posto in chiusura di volume: La speculazione edilizia (1957) e La nuvola di smog (1958) che insieme alla Formica argentina (1952, di cui mi limito a citare solo il titolo per questioni di spazio) compongono la sezione La vita difficile.
Sono due capolavori. Qui il Calvino realista (quello che aveva iniziato e poi interrotto la stesura di un paio di corposi romanzi di impianto sociale) è al suo massimo.
La speculazione edilizia racconta la storia di Quinto Anfossi, un intellettuale che gravita tra Milano e Roma, costretto dalla necessità di pagare due grosse tasse a vendere un pezzo del giardino della villa di famiglia, posta in una mai nominata Sanremo. È una Sanremo ormai stretta tra speculazione edilizia (che cresce in verticale) e speculazione floreale (che si sviluppa in orizzontale, al posto delle vecchie ‘fasce’, i terrazzamenti). Una geometria di forze che Calvino si sente addosso come un carcere, nello stesso periodo in cui comincia a sentirsi stretta la monocoltura letteraria: e di lì a poco inizierà a fuggire verso altri lidi conoscitivi. Quinto, suo fratello Ampelio e la loro madre vendono parte del loro giardino al costruttore Caisotti – un maneggione venuto dalla campagna sfruttando le prime onde del boom – che ci tirerà su uno di quei brutti palazzi ad uso dei milanesi in vacanza. Anzi, spinto dal clima generale, e quasi per dimostrare a se stesso e ai suoi amici poeti o filosofi di essere capace di cavalcare il presente con forte senso pratico, Quinto decide di entrare in società con questo Caisotti, e di costruire non uno, ma due palazzi. Di metter su insomma una vera e propria speculazione edilizia. Si mette in modo in questo modo un calvario tragicomico che alla fine porta al fallimento dell’operazione.
Di questo racconto sono bellissimi, nella loro opacità e ordinarietà, i personaggi: Ampelio, il fratello del protagonista, ricercatore di laboratorio in apparenza lontano dal mondo concreto ma capace poi di improvvisi sussulti di pragmatismo inaccessibili a Quinto (spassoso il modo in cui Calvino lo fa entrare in scena, mentre divora una quantità impressionante di patelle appena comprate al mercato). Caisotti, l’impresario di cui già all’inizio tutti gli dicono che sarebbe meglio non fidarsi. La sua faccia, così ce la descrive Calvino,
larga e carnosa, era come fatta di una materia troppo informe per conservare i lineamenti e le espressioni, e questi erano subito portati a sfarsi, a franare, quasi risucchiati non tanto dalle grinze che erano marcate con una certa profondità solo agli angoli degli occhi e della bocca, ma dalla porosità sabbiosa di tutte le superfici del viso.
E poi la madre dei due fratelli, sempre alle prese con i suoi fiori (uno dei più bei personaggi femminili di Calvino), la ragazzetta segretaria-amante e forse figlia naturale di Caisotti, che poi diventa amante di Ampelio. Gli amici di scuola ritrovati dopo anni, ormai arrivati in posizioni di piccolo potere locale, con i quali si è sempre in bilico tra reciproco affetto e reciproco disprezzo.
Quinto Anfossi, alla fine, rappresentante di una borghesia intellettuale dai grandi ideali ma dalla scarsa attitudine pratica, finirà per sentirsi schiacciato a destra dal nuovo ceto di piccoli imprenditori di origine contadina, e a sinistra da una classe operaia che comincia a organizzarsi da sola in forme di ‘resistenza attiva’ come le cooperative. “Un racconto senza spuma d’onda” lo definì Calvino, che voleva “rendere il senso di un’epoca di bassa marea morale”.
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Può sembrare strano parlare di temi come questi a proposito di un autore che contemporaneamente raccontava battaglie e duelli dei paladini di Carlomagno, e che forse già in qualche modo progettava e disegnava dentro di sé le straordinarie città descritte da Marco Polo a Kublai Kan. Può sembrare strano, ma è lo stesso autore che nella Nuvola di smog ci racconta la grigia vita di un altro intellettuale (un io narrante senza nome) che vive in una camera ammobiliata di una Torino (anche qui, mai nominata) invasa in ogni suo più remoto angolo dallo smog. Anzi, dal pulviscolo. Un pulviscolo palpabile, penetrante: ‘vivo’, in qualche modo, oltre che naturale metafora di tutto il male che può esserci nella vita, in particolare la vita nelle città occidentali dopo la Seconda guerra mondiale. Le città avevano sempre attratto Calvino, per la loro compresenza di vita associata e di libertà individuale. Era quindi angosciato dai lati che le rendevano invivibili.
Questo io narrante lavora come redattore de La purificazione, una rivista tecnica dell’Ente per la Purificazione dell’Atmosfera Urbana dei Centri Industriali. L’Ente, e la rivista, sono diretti dall’ingegner Cordà, brava persona in fondo ma, si scoprirà presto, uno dei massimi produttori, attraverso le proprie fabbriche, dello stesso smog che combatte a parole sulla rivista.
Il tono dimesso è calibrato al grigiore descritto, rotto solo dall’arrivo di Claudia, la fidanzata che frequenta il jet-set e che riesce a colorare senza accorgersene tutto ciò che tocca, come una gelida fatina. Le situazioni si susseguono con tagli e raccordi da grande narratore. C’è almeno un’invenzione straordinaria: la trattoria sotto casa (la ‘Urbano Rattazzi’). Il protagonista ne ascolta i rumori quando è disteso sul letto, e a volte la frequenta come avventore. In questi casi si ritrova a frantumare e attutire nella sua mente i suoni della trattoria e i dialoghi degli altri avventori fino a farli coincidere con i suoni uditi tutte le sere sul rovescio di questa situazione: un modo per mostrarci come lui stesso, Calvino, nella sua mente prendesse le distanze dal mondo.
Alla fine il protagonista riesce a evadere dalla nuvola mettendosi a seguire i carri dei lavandai, fino a giungere nella località dove la biancheria dei torinesi veniva a quel tempo lavata e messa ad asciugare su fili tesi al sole. Guarda le donne che lavano, la campagna che dà fuori il suo verde, l’acqua che corre via gonfia di bolle azzurrine.
Non era molto, ma a me che non cercavo altro che immagini da tenere negli occhi, forse bastava.
(Il corsivo è mio.)
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Immagini da tenere negli occhi. Calvino aveva sempre avuto un immaginario di tipo visivo, ma adesso non cerca altro che immagini da tenere negli occhi. Ed è proprio questo il momento in cui Calvino abbandona il realismo (seppur trasfigurato). È vero che nel 1963 scriverà La giornata di uno scrutatore, descrivendo una giornata da lui effettivamente passata al Cottolengo di Torino, 10 anni prima. Ma questo – che è un racconto disperato, in cui emergono tutti i dubbi di Calvino su che senso abbiano l’arte e la politica in un mondo che contempla al suo interno esseri deformi come quelli ospitati in quell’Istituto, che nessuna opera d’arte e nessuna azione politica potranno mai salvare – questo è più un racconto di idee che un racconto realista. E dal gorgo di queste idee che lo stanno trasportando verso un pessimismo cosmico o un’improvvisa crisi religiosa Calvino esce, anche qui, in forza di un’immagine: quella di un ragazzo deficiente con suo padre contadino. Il padre gli ha portato le mandorle, gliele imbocca e lo guarda masticare in silenzio.
Ecco, pensò Amerigo, quei due così come sono, sono reciprocamente necessari.
E pensò: ecco, questo modo d’essere è l’amore.
E poi: l’umano arriva dove arriva l’amore; non ha altri confini se non quelli che gli diamo.
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Che lo si chiami stile o, quando lo usa in modo più ferocemente consapevole, che la si chiami maniera, è comunque questo ‘modo di scrivere’ che accomuna tutti questi scrittori che si chiamano Calvino, qualcosa che tiene insieme il tutto e ci fa riconoscere che è lui, sia che ci parli delle due metà di un visconte che alla fine si riuniscono, sia che ci racconti la prima notte fuori di casa di un adolescente degli anni ’40, sia che ci faccia perdere nei labirinti delle sue città invisibili. Sentite con che stile lui stesso lo descriveva, il suo stile degli inizi:
scatto e precisione nella scelta dei vocaboli, economia e pregnanza e inventiva nella loro distribuzione e strategia, slancio e mobilità e tensione nella frase, agilità e duttilità nello spostarsi da un registro all’altro, da un tono all’altro.
Era un dono di natura questo stile, certo, ma non solo: i suoi manoscritti, anche quelli giovanili, ha dichiarato Maria Corti che li ha studiati, erano più lavorati di quelli di Gadda.
Nella sua lingua tutto si svolge in funzione del ritmo, del passo, del respiro.
“Raccontare è come ballare” diceva Pavese, il suo primo lettore, cioè “muoversi nel senso della realtà col ritmo di chi eseguisce una danza.”.
“Il suo stile” disse Natalia Ginzburg, “era, fin dall’inizio, lineare e limpido; divenne più tardi, nel corso degli anni, un puro cristallo.”
È vero che a volte questo cristallo gli può essere stato d’impaccio per esprimere, lui loico viscerale come lo ha definito Perrella, la propria visceralità. Non si può negare che alcune parti delle sue opere più tarde trasmettano un po’ troppa freddezza, facciano notare un po’ troppo la cornice – le impalcature – rispetto a quelle che siamo normalmente in grado di sopportare quando leggiamo un’opera di narrativa. Ma d’altra parte, nella sua ultima fase, l’abolizione del confine tra narrativa e saggistica è un passaggio obbligato di quella sua tensione verso l’utopia di conciliazione tra letteratura ed esistenza. Basta leggere Palomar (un’opera che vive sulla scommessa di riuscire a raggiungere una trasparenza linguistica capace di descrivere fenomeni come un’onda, o la pancia di un geco, o due merli che fischiano in giardino, separandoli da tutti i legami col ‘circostante’) per rendersene conto. Anzi, verso la fine della sua vita accade quasi un’inversione: i suoi testi saggistici si fanno sempre più narrativi (provate a rileggervi qualcuna delle Lezioni americane, con i loro temi accennati e poi lasciati e ripresi successivamente da altre angolazioni), mentre i testi di narrativa si cristallizzano nelle forme del saggio.
Comunque leggerlo, o rileggerlo, è come entrare in una beauty farm: quando finisci ti senti più leggero e più in forma. Leggero nel profondo, come se tu avessi bevuto una tisana miracolosa, che riesce a lavarti via tutte le scorie di superfluo accumulate in anni di abbuffate letterarie sconsiderate.
Li sentiamo a noi contemporanei, vivi, i libri di Calvino, perché uniscono questa leggerezza a un impegno etico mai esibito, se non nella scelta delle parole, delle frasi. Un impegno etico che lo portava a darsi questi doveri:
Puntare solo sulle cose difficili, eseguite alla perfezione, le cose che richiedono sforzo; diffidare della facilità, della faciloneria, del tanto per fare. E combattere l’astrattezza del linguaggio che ci viene ormai da tutte le parti. Puntare sulla precisione, tanto nel linguaggio quanto nelle cose che si fanno.
E ricordandoci della visione di Amerigo Ormea (l’amore ‘necessario’ tra il contadino che porge le mandorle al figlio deficiente che le mastica) possiamo affermare che sono proprio l’amore e il fare i fondamenti etici di Calvino. Perché la loro azione in questo mondo sia efficace bisogna che non vengano mai espressi a chiare lettere ma sempre e solo sottintesi: le grandi imprese, per lui, devono restare mute, pena la perdita totale del loro valore formativo.
Li sentiamo a noi contemporanei, vivi, i suoi libri, perché in tutti percepiamo il suo sforzo di conciliare il particolare con l’universale, il caso concreto con il principio che – forse – ci sta sotto. E di quella sua minuziosa scelta dei dettagli, allora – presente dalla prima all’ultima delle sue opere – intuiamo il senso profondo.
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Vorrei chiudere tornando da dove eravamo partiti, dal Calvino araldico, riportando alcune parole che non sono né mie né di Calvino. Sono di Pier Paolo Pasolini, che spesso gli è stato accostato ‘a contrasto’ come un modo opposto di intendere la letteratura: un modo più vitale, impuro, capace di mettere al centro della scena proprio ciò che Calvino voleva sottrarvi: l’autore, inteso come personalità ma anche come corporeità.
Nel 1960 Il cavaliere inesistente fu finalista al Premio Strega, che quell’anno venne vinto da Cassola con La ragazza di Bube. Il libro di Calvino era presentato da Pasolini, che in quell’occasione gli dedicò una poesia, che è anche uno dei più bei saggi critici mai scritti su quel Calvino, e che testimonia come, al di là della diversa idea di letteratura che i due scrittori svilupparono a partire proprio da quegli anni, ci fosse tra di loro una profonda comprensione e stima:
La sua prosa
piuttosto francese che toscana,
il suo estro più volteriano che
strapaesano: la sua semplicità
non grigia, la sua misura non tediosa,
la sua chiarezza non presuntuosa.
Il suo splendido amore per il mondo
lievitato e contorto della favola.
(Conferenza tenuta presso la Libreria Feltrinelli di Firenze il 15/10/2003, in occasione degli 80 anni dalla nascita di Calvino).
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).