Da The White Review: The Fishermen di Jack Cox
Traduzione di Tiziana Scalabrin
Il giorno che arrivò a Roma, Milan acquistò un giornale di annunci economici e delle arance da un venditore della stazione i cui occhi andavano dai soldi al cappotto dal quale questi uscivano in una curva sospettosa. Non era una mattinata freddissima, ma a parte i nuovi acquisti stretti sotto il braccio mentre correva dietro ad un autobus, tutto quello che Milan possedeva era nel cappotto.
Scese dall’autobus prima che attraversasse il ponte sul Tevere per Prati e prese una rampa di gradini di marmo per scendere sull’argine. Con il giornale spalancato davanti cerchiò inserzioni per lavori di ogni tipo, e se abbassava la matita e la poggiava era solo per tirare fuori dalla tasca il dizionario e tenerlo aperto con il ginocchio. Sbucciò un’arancia con la mano libera, gettò la buccia sull’immondizia intrappolata tra le rocce sotto i suoi piedi e sputò i semi nel fiume.
Quando iniziò a far caldo si fece un cuscino con il cappotto e si sdraiò sulla pietra. Lente nuvole bianche gli pulsavano sugli occhi. Era stanco per le ore trascorse stipato nel treno, e stava per addormentarsi quando due ragazzi iniziarono ad aggirarsi sulle rocce con una lenza tesa tra le mani. Milan li tenne d’occhio mentre continuavano a gettare la lenza, finché un pesce brillò battendosi fuori dall’acqua. Era lungo quanto le loro braccia scure, una reliquia boccheggiante. Uno gli tolse l’amo dalla bocca mentre l’altro prendeva una busta di plastica dalla sponda, e lo avvolsero.
Milan li chiamò. Voleva sapere dove dormivano. Dormivano sulla riva. Lui non poteva dormire con loro, ma poteva dormire sulla riva: il clima era mite, lo facevano anche degli americani fuori di testa. Milan fissava il pesce che si dibatteva nella busta. Cosa ci avrebbero fatto. Venduto ad un ristorante. Lui chiese se secondo loro poteva trovare lavoro in uno di quei ristoranti, ma loro con aria di sufficienza gli fecero segno di piantarla, dopodiché non riuscì ad ottenere altre risposte.
La prima notte sulla riva fu molto scomoda. Sulla lastra di marmo gelato sentiva il battito del proprio sangue, che fluiva, come il fiume era fluito oltre il suo orecchio poggiato, senza tornare, che uscito dal buio diventava d’ottone sotto Castel Sant’Angelo, precipitando in una piccola diga con evanescente urgenza. L’alba arrivò prima che lui fosse riuscito a chiudere gli occhi.
Lavorava in un cantiere, svuotando la spazzatura, e come cameriere, portando vassoi su e giù dai tavoli sulla strada. Temeva la polizia. Non aveva il permesso di lavoro e sapeva che se l’avessero preso l’avrebbero messo su un treno, e in qualunque momento nel giro di quindici ore tutto sarebbe stato di nuovo disgrazie, retaggio e una fica asciutta. Milan cercava di passare inosservato. Si vestiva in modo semplice ma ordinato, imparò a dire un sacco di parolacce e a troncare le frasi proprio nel punto giusto, e lavorò su quelle vocali che senti a Roma che non assomigliano né alle acute declamazioni di Firenze né agli imbrogli veneziani né alle sillabe sparate della Sicilia. Imparò ad essere altèro e gentilissimo, e si tenne lontano dai guai.
Il bar dove lavorava si trovava in una piazzetta di Trastevere ed era pieno quasi ad ogni ora. La sera le luci entravano attraverso la veranda traforata come un vitigno e i riflessi erano sparsi sul selciato mentre Milan si avvicinava, barcollando un po’ sotto il peso immaginario di sacchi reali e canticchiando una musica straniera che, trasmessa da una radiolina nascosta sotto le sue lenzuola, anni prima, veniva rallentata per adattarsi all’andamento del respiro. Si fermò e alzò lo sguardo.
Tomaso era in piedi davanti a lui sulla porta del bar e lo guardava. Ahò, che contempli le stelle, tu?
Milan abbassò la testa e si affrettò. Alzò le spalle passando accanto al proprietario all’ingresso. È bella.
E tu come sei bello, eppure te pago.
Nonostante Tomaso discendesse apparentemente da un’antica famiglia romana, il bar era una sua idea e lo gestiva da solo. Trattava bene i dipendenti e manteneva la cucina pulita e in ordine. Milan iniziò lavando i piatti, ma Tomaso trovò redditizio mettergli una divisa e mandarlo a servire ai tavoli: aveva ragione, Milan ci sapeva fare con i clienti. Non chiese mai a Milan che piani avesse e secondo Milan pensava che risparmiasse per spedire i soldi a casa.
Si cambiò nel bagno e con la maglietta bagnata si pulì le ascelle e le natiche. Quando fu in uniforme si strofinò un pollice insaponato sui denti e poi si sciacquò la bocca.
Dal bancone del caffè Tomaso si diresse ad un tavolo, al quale si erano appena seduti un uomo, una donna e un bambino. Sarebbero der tu’ paese. Nun so se pàrleno l’itajano.
Milan li accolse e prese le ordinazioni. L’uomo, estremamente benvestito, con mani che descrivevano brevi archi mentre parlava, scelse un vino dal menu, e ordinò del caffè e un bicchiere di limonata in un italiano stentato. La donna non guardò nessuno di loro. Mentre parlavano tenne gli occhi fissi fuori dalla finestra e aprì appena la bocca senza voltarsi. Il mento del bambino era poco sopra la tovaglia, i suoi capelli neri cadevano dritti sulle sopracciglia e anche lui guardava da un’altra parte, ma senza un motivo, o così sembrò a Milan. Pensò che fosse loro figlio nonostante l’uomo fosse biondo e la donna bionda platino.
Portò loro da bere. La donna abbassò lo sguardo mentre lui si allungava per poggiare il bicchiere di limonata davanti al bambino. Lo ringraziò, lui intercettò il suo sguardo e annuì.
Qualcuno aveva sbriciolato un pezzo di pane sulla tovaglia ma tutte le mani erano ferme come quando avevano ricevuto i bicchieri. Non finirono il vino.
Quando Milan tornò al bancone Tomaso volle sapere se si era sbagliato. Milan annuì. Sono ungheresi.
Tomaso fece scattare il registratore di cassa e scosse la testa. Disse che nell’est-Europa pensavano che Roma fosse l’America. Penzeno che ce farano ‘n be’ futuro. Strinse le labbra. Hai vist’i schifosi n’i giardini, sott’i ponti. Ecco ‘ndo càpiteno. Ma che futuro! Me fa sta’ male ‘a Roma der futuro.
Milan disse che quella famiglia aveva i soldi.
Tomaso alzò le spalle. E va be’, nun è ‘a stessa cosa.
La donna e il figlio tornarono al bar il giorno seguente. Era domenica e Milan aveva il turno pomeridiano. Lei gli sorrise e disse buon pomeriggio con un buon accento. Milan disse ciao al bambino ma lui non parve aver sentito. La donna domandò a Milan da quanto tempo lavorasse a Roma. Milan glielo disse. Gli piaceva. No, non gli piaceva molto lavorare ma gli piaceva qui.
Indossava un cardigan borgogna, nonostante il sole che cadeva dritto sulla piazzetta. Una catenina dorata si tuffava e risaliva sulle sue clavicole. Ordinò un gelato. Quando Milan le portò il conto, lei chiese se più tardi avesse il tempo di fare loro da guida. Non si sarebbero fermati in città a lungo. Era una bella giornata.
Milan rispose di non avere altri impegni.
Si incontrarono alle cinque a Ponte Garibaldi. Il bambino indossava un cappello di paglia fuori moda e la donna aveva lasciato a casa il cardigan. Riparandosi gli occhi dal sole lo salutò con la mano. Milan si stupì di vedere che sotto il vestito indossava un paio di scarpe di tela bianca. I due si erano spostati dal centro del ponte per guardare un barcone che passava lì sotto, si girarono e coprirono metà della distanza mentre Milan si avvicinava; lei teneva il figlio per mano, con gli occhi persi in una striscia d’ombra privata.
Milan li portò al Campidoglio, e se lei c’era già stata non disse nulla. Disse che era bellissimo.
Parlavano e camminavano troppo velocemente, e al museo Milan pensò che avrebbero rotto qualcosa. Il bambino rimaneva indietro, lontano dalla mano tesa della madre, mentre scendevano la cordonata del Campidoglio nella sera luminosa.
Camminavano lungo il fiume che scorreva e Milan la baciò e lei gli disse che voleva portarlo in un hotel e lui rispose che era d’accordo con tutto. Si chiamava Magda. Lui la seguì nell’atrio di un grande hotel di Prati. Il concierge li vide e annuì, e prese una chiave dal quadro in finto onice alle sue spalle. La luce dei candelieri che pendevano bassi correva su quella nera lucentezza. Milan esitò. Lei si avvicino e gli disse all’orecchio, non preoccuparti. Lui non sarebbe tornato per una settimana.
Presero l’ascensore, e per tutto il tempo lei parlò al figlio del cavallo che avevano visto al Campidoglio. Sembrava che il cavallo gli fosse piaciuto, ma non rispose. Non era un cavallo vero. Milan pensò che forse gli piacevano solo i cavalli veri.
Lo lasciarono nel salottino, vicino alla finestra. In camera da letto non chiusero le tende. Lei sedette alla toletta vicino al letto e si slacciò le scarpe. Milan si spogliò per primo, si avvicinò e le sfilò dolcemente l’abito dalla testa. I seni ricaddero in due ombre ondulate sul petto. Milan rimase fermo e gemette e rimasero entrambi sorpresi. Lì c’era il colore dei capelli del figlio.
Lei aveva la gola e la bocca calde e il sudore riluceva sulle piccole curve. Il sapore di lei gli riempì la bocca. Lui pensò a tirarla attorno ai suoi fianchi, pensò che quella fosse la vittoria; ma con i suoi movimenti veloci e gli occhi blu velati e l’abbraccio cieco delle sue mani sulle natiche lei raggiunse il piacere, e quando lui venne quello fu un regalo.
Lei lo guardava attraverso le ciglia raccogliere i vestiti da pavimento. Avevano dormito un po’ e il sole era sceso e ora le luci della città si diffondevano attraverso lo smog sulla superficie della finestra. Il suo corpo riluceva nel buio di quella luce prestata. Il traffico ronzava sul vetro.
Lui vide che lei lo guardava e sorrise. Lei si accorse di essere sdraiata in un punto più illuminato di quello in cui si trovava lui, e la consapevolezza le fece chiudere gli occhi. Poi lo sentì che la toccava con qualche parte del corpo sul ginocchio canticchiando Wagon Wheel e toccandole le palpebre con le dita. Quanti anni hai?
Vent’uno.
Sei sposato?
Sì.
Fecero l’amore un’altra volta, poi lui si vestì. Lei si mise una vestaglia e lo guardò dalla porta, lui le chiese di cenare e lei disse, perché non ceni qui e ti fermi a dormire. Ma lui non poteva, doveva essere al cantiere lunedì mattina presto, quindi si baciarono e si congedarono. Quando se ne fu andato lei tornò da Victor e gli parlò e gli tolse il cappello di paglia e lo lasciò sul divano.
La mattina lei era sveglia e in attesa quando la cameriera entrò a lasciare un vassoio con la colazione nel salottino. Svegliò il figlio e lo aiutò a lavarsi e vestirsi, poi spalmò la marmellata su una fetta di toast e gli versò mezza tazza di caffè e mangiarono in silenzio. Poi decisero di visitare una galleria, ma cambiarono idea e andarono a passeggiare.
Quando tornarono all’hotel c’era una messaggio di Milan alla reception. Le chiedeva di incontrarlo davanti all’atrio quella sera. Lei pagò una cameriera per restare con Victor, si raccolse i capelli con un vecchio fermaglio argentato che era appartenuto a sua madre, e scese ad aspettarlo lungo il fiume.
Era in ritardo. Arrivò correndo, con un paio di jeans nuovi. La baciò dove i capelli le accarezzavano la guancia mossi dal vento che soffiava dal fiume. Comprarono due granite e passeggiarono l’uno accanto all’altra. Andiamo da te.
No, c’è la cameriera. Sta con Viktor.
Scesero qualche gradino verso la riva. Faceva più freddo là, e la pelle di lei rabbrividì. Arrivarono ad una profonda rientranza nel muro di pietra, ma lei non volle entrare. Non vedeva bene, ma le sembrava abitato. Lui le disse di non preoccuparsi e la guidò con la punta delle dita nell’ombra. Il sole iniziava a tramontare sulla riva opposta ma era ancora più in alto della bocca dell’alveo, e lei aveva gli occhi immersi nell’oscurità. Sentì le labbra di lui sfiorarle l’orecchio, la guancia. Le sollevò il vestito e il respiro le si mozzò in gola. Non era ancora entrato in lei. Lei aprì le braccia e trovò subito la sua mano, aperta come se stesse pregando, e il sole calante inondò di luce l’alveo, e quando lei si girò bruscamente verso l’apertura rimase accecata. Si voltò sbattendo le palpebre.
Lui saltellava con le gambe piegate tirando i bottoni dei jeans nuovi e c’erano pentole e tegami appesi alle pareti e un tappeto arrotolato nell’angolo. Lui fece un largo sorriso ma era furioso. Lei si chinò e abilmente si sfilò le mutandine dalla caviglia, gliele mise in tasca e uscirono. Chi vive là?
Gli zingari.
Sarebbero arrabbiati se lo sapessero.
Sì.
Sei maleducato.
Aveva della polvere di cemento sugli avambracci. Le teneva una mano sul fianco e il vestito le scorreva lì sotto dove un elastico con infinita pazienza l’aveva portata a desiderarlo moltissimo. Lui le chiese del figlio. Lei gli raccontò del figlio e del marito. Lui raccontò del villaggio che aveva lasciato e della moglie che aveva una vecchia azienda familiare e ed era molto più giovane di lui. Magda pensò che forse lui era crudele con sua moglie. Gli chiese quanto a lungo prevedeva di restare a Roma e lui rispose per sempre. Lui disse che voleva lei, voleva che lei rimanesse con lui a Roma. Lei rispose che era pazzo. Lui disse che l’amava e che voleva che rimasse con lui.
Lei rispose che aveva un figlio. Camminarono in silenzio lungo la riva finché non fece buio e l’argine si riempì di luci artificiali che ritagliarono loro nuove ombre. Lui le disse di nuovo di restare. Lei sapeva che la sua insistenza aveva in gran parte natura fisica, liberò la mano dalla sua e gli accarezzò la parte bassa della schiena. Non poteva vivere clandestinamente a Roma per sempre.
Vero. Poteva portarsela a casa. Avere una moglie non era un grande ostacolo. Poteva trovare lavoro in città e avrebbero affittato un appartamento, per poi acquistarlo. Le avrebbe dato un bambino.
Tornarono sulla strada e lei si rifiutò di portarlo in albergo. Aveva lasciato suo figlio solo abbastanza. Lui le chiese di promettere che si sarebbero incontrati ancora. Lei promise. Promettere che avrebbero fatto l’amore di nuovo. Colta alla sprovvista rise e disse che prometteva. Si salutarono teneramente e quando lei si voltò lui era ancora lì.
Il marito di Magda tornò presto. Lei e Viktor rientrarono in albergo un pomeriggio e lui era seduto nell’atrio e leggeva il giornale. Accarezzò la testa di Viktor e la baciò.
In camera si tolse la giacca e chiamò per chiedere una bottiglia di whisky e una di Fanta. Raccontò al figlio del viaggio e poi gli chiese cosa avesse visto, aveva visto il Colosseo, i Fori, Nettuno che guida i cavalli sopra le monetine. Era gentile e cortese con Viktor. Lei, sapendo quello che sapeva sulla sua educazione, aveva pensato che l’avrebbe picchiato qualche volta, invece era sempre gentile. Seduta sul divano si sfilò le scarpe con la punta dei piedi e raccolse le gambe piegate.
La cameriera arrivò con le bevande. Lui riempì un bicchiere di ghiaccio e versò da bere per Magda. Lei tenne il bicchiere in grembo e chiuse gli occhi. Viktor beveva rumorosamente con la cannuccia. Lei guardò il marito, i capelli chiari tirati indietro e le luminose, eleganti pieghe della camicia, e sentì di averlo quasi dimenticato, ma guardandolo non sentì il bisogno di ricordare nulla.
Lui suggerì di fare una passeggiata e scelse un posto per mangiare. All’inizio lei rispose che era stanca, poi acconsentì comunque. Si mise dei pantaloni e una camicetta nuova mentre lui si faceva la barba con la porta aperta.
Lui trovò un cravattino in bagno. Rimase sulla soglia con la schiuma da barba ancora su metà del viso e il cravattino in mano e le bretelle che gli pendevano sui fianchi e la guardò. È una sceneggiata pensò Magda e si spaventò perché non erano mai arrivati a quel punto e non sapeva di cosa sarebbe stato capace. All’inizio non dissero nulla. Era un marito oppressivo ma infine disse di meritarsi una vacanza come si deve e tornò a radersi.
Lei sapeva che lui era stato con altre donne e si stupì di non averci mai pensato, e forse c’erano molte altre donne e forse altri bambini. Non le era più venuto dentro, dopo Viktor. Si sentì le viscere sottosopra e penso di poter essere incinta.
Camminarono, tutti e tre, lungo il fiume. Magda era cresciuta a Budapest e si erano conosciuti all’università. Rimasero fidanzati a lungo prima di sposarsi. Lui era un bravo ballerino e quando erano giovani le cantava le canzoni popolari ungheresi. Scherzarono tra di loro passeggiando tra le strade di Trastevere e Viktor rideva sempre fuori tempo, con il vacuo balbettio di un fantasma che ride da solo.
Quando gli altri furono a letto Magda scese nell’atrio e chiamò il numero che Milan aveva lasciato l’ultima volta che se n’era andato. Non sapeva di cosa fosse il numero. Dopo un po’ rispose una voce e lei chiese di parlare con lui. Sentì altre voci e poi qualcuno venne al telefono a dirle che Milan non c’era, se voleva lasciare un messaggio.
Il giorno dopo il marito si prese cura di Viktor e Magda uscì da sola. Trascorse la mattinata alla Galleria Borghese ma era distratta e non riusciva a fermarsi a guardare niente, così camminò nel parco e tornò indietro. Sotto gli alberi si attardò a guardare le persone che passavano. Si fermò ad una fontana, con una mano si appoggiò al marmo liscio e segnato mentre con l’altra a conca raccoglieva l’acqua.
Nel parco ebbe la sensazione di essere seguita. Per qualche ragione il concierge l’aveva messa in guardia da quel posto, perciò se ne andò. Appena fuori dal parco le sembrò di vedere Milan alla fermata dell’autobus, ma quando si voltò per controllare se n’era andato. C’era solo un uomo che aspettava con il cappello calato su un orecchio e le mani in tasca. Più tardi, mentre tornava passando per via del Tritone, le sembrò di vedere Milan riflesso davanti a lei nella porta a vetri di una cantina. Quando si voltò non c’era. Si voltò di nuovo e non c’era più. Tornò camminando lungo il fiume.
C’erano macchine della polizia parcheggiate all’inizio di Ponte Vittorio Emanuele II e le persone si erano radunate a guardare. Sì unì a osservare dal ponte. Sembrava che uno zingaro fosse caduto in un vortice e fosse annegato. Persone che lo conoscevano, forse familiari, erano sulla riva e parlavano con un poliziotto. Annuivano e indicavano in silenzio. Magda sentì una donna accanto a lei dire che era un buon nuotatore ma era caduto nel punto sbagliato e non erano riusciti a ritrovare il suo corpo. Probabilmente sarebbe finito al mare. Il fiume scorreva sotto di loro in rapide spirali verdi.
Magda gettò lo sguardo sulle facce che aveva intorno e proseguì. Alla fine del ponte un ragazzino punk tendeva un barattolo tintinnante e il suo bastardino le girò innocuamente tra le gambe. Gli diede cinquanta centesimi e si diresse verso il viale di san Pietro. Su tutto il marciapiede i turisti aspettavano in fila davanti alla Basilica e i venditori sedevano ai cavalletti realizzando piccoli dipinti del tramonto. Suonarono le campane. Magda aveva fame e voleva trovare un posto per fermarsi ma continuava a muoversi a scatti. Ormai si era convinta che lui la stesse seguendo e si voltava ad ogni angolo ma non era una buona idea, la città era piena di ragazzi belli e sporchi e tutti ricambiavano il suo sguardo. Si mise le mani nei capelli. Dal cielo azzurro iniziò a cadere la pioggia, i pittori raccolsero le loro cose e si misero al riparo.
(Corsivi in lingua originale nel testo)
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).