Nel mese di luglio del 1965, García Márquez decise di portare moglie e figli per un sabato e una domenica ad Acapulco: una breve vacanza, perché per le riprese del film Tiempo de morir, a Pátzcuaro, era rimasto lontano a lungo. La strada per Acapulco è una delle più tortuose e accidentate in un paese caratterizzato da curve e tornanti terribili, e García Márquez – che ha sempre adorato guidare – era ben felice di pilotare la piccola Opel bianca sulle vie del Messico, attraversando un panorama che cambia in continuazione. Spesso ha affermato che guidare è un esercizio estremamente automatico ma al contempo di grande concentrazione, il che gli permette di dedicare una parte di quell’attenzione ai propri romanzi. Aveva appena iniziato ad andare che, «dal nulla», gli affiorò alla mente la prima frase di un romanzo. E dietro, invisibile ma palpabile, la seguiva il romanzo intero, quasi gli fosse stato dettato – come avesse eseguito un download – dall’esterno, dall’alto. La formula magica della frase era nel punto di vista e, soprattutto, nel tono: «Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione…». In una sorta di trance García Márquez accostò, frenò, fece inversione e riprese la marcia verso Città del Messico. E poi… […]
Molti anni dopo, García Márquez ha raccontato di essersi seduto alla macchina da scrivere il giorno successivo al ritorno a casa, come ogni giorno; solo che «quella volta non me ne alzai se non dopo diciotto mesi». In realtà la stesura lo impegnò, comprese diverse interruzioni, per non più di un anno, da luglio del 1965 a luglio o agosto del 1966, eppure ha sempre sostenuto la versione dei diciotto mesi; forse perché gli ci erano voluti diciotto anni. Come rispose a Plinio Mendoza, che gli chiedeva quale fosse stato il momento più difficile del romanzo: «Cominciare. Ricordo molto bene il giorno in cui ho finito la prima frase dopo molte difficoltà e mi sono domandato terrorizzato cosa diavolo sarebbe venuto dopo. A dire la verità, fino alla scoperta del galeone in mezzo alla selva, non ho mai creduto che quel libro potesse approdare da qualche parte, ma a partire da quel momento è stata una specie di frenesia, e per di più divertente».
In altre parole, solo dopo aver già terminato una decina di pagine, giunto all’episodio in cui il primo José Arcadio Buendía si imbatte in un galeone spagnolo nella foresta tropicale si rese conto che, stavolta, la magia della scrittura non sarebbe svanita e che poteva finalmente tirare il fiato. […] Contava di scrivere ottocento cartelle, da ridurre poi a quattrocento; previsione più che azzeccata. Quattrocento cartelle in cui avrebbe narrato le vicissitudini di quattro generazioni della famiglia Buendía, la prima delle quali, in un momento imprecisato dell’Ottocento, arriva in un luogo sperduto chiamato Macondo e percorre un secolo di storia colombiana in un misto di incertezza, cocciutaggine, ossessività e macabro umorismo. […]
Ciò che provava aveva un nome: sollievo; un sollievo che lo pervadeva a innumerevoli livelli e da centinaia di direzioni differenti. Tutti gli sforzi e l’angoscia e i fallimenti e le frustrazioni della sua vita si erano placati; liberazione, autostima e affermazione di sé, tutto s’era incarnato in questa straordinaria creazione che, fin da quando aveva iniziato a scriverne le prime pagine, sapeva – sapeva – avrebbe potuto essere un’opera unica, forse immortale; e ora, continuando a lavorare con esaltazione inarrestabile, la vedeva assurgere alla grandiosità di un vero e proprio mito. Mentre scriveva, a lui per primo quell’esperienza sembrò magica, miracolosa, euforica; e tale sembrò, in seguito, ai suoi lettori. Era, a tutti gli effetti, l’esperienza della magia insita nella creazione letteraria al suo più alto livello d’intensità. Scrivere, per di più, si rivelò profondamente terapeutico; invece di tentare – ossessivamente, nevroticamente, diligentemente – di registrare gli eventi della propria vita così come li ricordava, ora riorganizzava a suo piacimento tutto ciò che gli era stato raccontato o che aveva vissuto in prima persona, cosicché il libro prese la forma di cui lui aveva bisogno. Quell’opera si dimostrava davvero magica, miracolosa, euforizzante: lo guariva da molti mali.
Un uomo che aveva l’abitudine di non completare più d’un paragrafo al giorno ora scriveva dalla mattina alla sera, accumulando pagine su pagine. Un uomo che prima rivoltava i propri libri come un guanto e che tornava a capovolgerli, in cerca prima della sequenza e poi della struttura, ora buttava giù un capitolo dopo l’altro, come Dio che stabilisce forma e rotazione della Terra. Un uomo che aveva sempre vissuto con dolore ogni aspetto e ogni piega di ciascuno dei propri libri, ogni più piccola decisione tecnica e psicologica, ora giocava con la propria vita […] Non stupirà che si sentisse un alchimista; non stupirà che abbia fuso Nostradamus e Borges – e sé stesso – nella figura del grande Scrittore-Creatore Melquíades, un altro genio che si era segregato dal mondo in una piccola stanza per racchiudere il cosmo intero in quello spazio, insieme trans-storico e atemporale, chiamato letteratura. […]
Eccolo qua, dunque. Un uomo che scrive di un villaggio, di una nazione e di un mondo utilizzando le scoperte dei grandi miti occidentali (la Grecia, Roma, la Bibbia, le Mille e una Notte d’importazione), i grandi classici occidentali (Rabelais, Cervantes, Joyce) e i maggiori predecessori del continente cui egli stesso apparteneva (Borges, Asturias, Carpentier, Rulfo) per realizzare un’opera – uno specchio – in cui quel continente potesse finalmente riconoscersi e fondare così una tradizione. Se era stato Borges a mettere a punto il visore (come un tardivo fratello Lumière), è però García Márquez a realizzare il primo, vero ritratto collettivo, nel quale i latinoamericani non solo si sarebbero riconosciuti ma sarebbero stati riconosciuti ovunque, universalmente. Ecco qual era il significato del libro che il figlio di Luisa Santiaga Márquez Iguarán de García stava scrivendo in quella stanzetta invasa dal fumo, seduto alla sua minuscola scrivania spoglia, al centro di un’immensa e caotica città del Terzo mondo. La sua eccitazione era più che giustificata e la sua euforica, nervosa intensità è racchiusa nelle pagine del libro.[…]
Da quando fu pubblicato, nel 1967, critici e giornalisti latinoamericani hanno nutrito un’ossessione per questo periodo e, trent’anni dopo, il fratello di García Márquez, Eligio, ha dedicato un libro intero alla sua genesi e creazione. A ogni minimo particolare è stato attribuito un significato cabalistico, per non dire feticistico. La stanza in cui l’autore lo scrisse non avrebbe potuto essere però meno magica, anche se molti, in seguito, presero a chiamarla «la stanza di Melquíades»; «la caverna della mafia», come Gabo la ribattezzò, misurava meno di due metri e mezzo per tre, aveva un piccolo bagno privato e una porta, e una finestra, che davano su un cortile. C’erano un divano, una stufetta elettrica, qualche scaffale e un tavolino assolutamente rudimentale sul quale troneggiava una Olivetti. Fu allora che García Márquez, per scrivere, prese l’abitudine di indossare una tuta blu da lavoro: proprio lui, che ultimamente era diventato piuttosto convenzionale nel vestire, arrivando a mettere la cravatta. La decisione rivoluzionaria di cambiare orario di lavoro, passando dalla notte al giorno, l’aveva già presa. Ora, invece di scrivere nell’agenzia pubblicitaria al termine di una giornata di lavoro o negli uffici degli studi cinematografici ogni mattina, prima che i figli tornassero da scuola, lavorava. Le esigenze familiari, invece di intralciare i suoi voli creativi e rendere zoppicante il suo stile, erano diventate una spinta al cambiamento che trasformò da cima a fondo il suo modo di concepire il lavoro e l’autodisciplina. Mercedes, da moglie che era, divenne telefonista, segretaria e amministratrice: non poteva sapere che sarebbe stato così per sempre. Il nuovo romanzo fu direttamente e immensamente favorito da questi rivolgimenti.
Alle otto del mattino García Márquez accompagnava i figli a scuola in macchina, mezz’ora dopo sedeva alla scrivania e non si muoveva fino alle due e trenta, quando Rodrigo e Gonzalo tornavano. Nella loro memoria il padre era un uomo che trascorreva quasi tutto il tempo recluso in uno stanzino, perso nella nube azzurra del fumo di sigaretta; un uomo che sembrava non accorgersi di loro, che compariva solo al momento dei pasti e che alle loro domande rispondeva in modo vago e distratto. Non avevano idea che anche questo stesse trovando posto in quel romanzo che tutto fagocitava: nel primo capitolo, quando José Arcadio Buendía scopre in ritardo i propri figli, al termine dei suoi ossessivi esperimenti.
García Márquez ricorda così: «Dal primo istante, ben prima della pubblicazione, il libro esercitò un potere magico su chiunque, per un verso o per l’altro, vi fosse entrato in contatto: amici, segretari e così via, fino a gente come il macellaio o il padrone di casa, che ne attendevano la fine per essere pagati». A Elena Poniatowska riferì: «Eravamo in arretrato con l’affitto da otto mesi. Quando il debito si ridusse a tre Mercedes telefonò al proprietario e gli disse: “Senta, non le pagheremo questi ultimi tre mesi, e nemmeno i prossimi sei”. Prima di chiamarlo mi aveva chiesto: “Quanto pensi che ti ci voglia a finire?” e io risposi che ce l’avrei fatta in cinque mesi, più o meno. Lei decise di aggiungerne un altro, per buona misura, e il padrone di casa le rispose: “Se mi date la vostra parola aspetterò fino a settembre”. E a settembre andammo a trovarlo e lo saldammo…».
Tra le tante persone che attendevano la fine di Cent’anni di solitudine c’era «Pera» (Esperanza) Araiza, la dattilografa che lavorava per Barbachano e che batteva a macchina anche i romanzi di Fuentes. Ogni tre o quattro giorni García Márquez le consegnava nuovi brani, battuti da lui ma zeppi di correzioni a mano, e lei li trasformava in dattiloscritti impeccabili. L’ortografia di García Márquez è sempre stata a malapena passabile e confidava in Pera per ripulire il frutto dei suoi sforzi; ma, proprio il primo giorno del loro lavoro, lei e la parte iniziale del libro rischiarono di andare perduti quando un bus per poco non la investì in pieno, facendole sparpagliare i fogli in ogni direzione sulle strade bagnate di una Città del Messico autunnale. Solo molti mesi più tardi Pera gli confessò che, ogni sabato e domenica, invitava i suoi amici per leggere insieme l’ultimo capitolo.
Tutto ciò che sappiamo su questo periodo autorizza a pensare che García Márquez fosse davvero preda di un incantesimo. Era diventato, finalmente, il mago che aveva sempre desiderato diventare. Era gasato, drogato di sostanze letterarie stupefacenti. Era Aureliano Babilonia. Era Melquíades. La gloria lo attendeva. Il libro era un’immane impresa mitologica costellata di rituali. Ogni sera, alla fine della sessione di appunti, arrivavano gli amici. Quasi sempre si trattava di Álvaro Mutis e Carmen, Jomi García Ascot e María Luisa, che lo incoraggiavano e che, per un anno intero, furono i testimoni privilegiati del processo di costruzione di uno tra i maggiori monumenti della letteratura occidentale. Più il romanzo cresceva, più si rendeva conto della sua rilevanza, più aumentavano la sua fiducia in sé stesso e l’opinione di sé. Il giorno sedeva nella sua cella fumosa lavorando come un pazzo; il pomeriggio consultava i testi di riferimento per capire quanta verità storica fosse contenuta nelle pagine appena scritte. Jomi e María non vedevano l’ora di conoscere i nuovi episodi; lei, soprattutto, aveva intuito di assistere a un evento di importanza capitale e divenne la sua confidente più intima. In seguito Gabo spiegò che María Luisa, sebbene palesemente estasiata da Cent’anni di solitudine, non mancava mai di sbalordirlo dalla lucidità della sua visione nel campo della magia e della sapienza esoterica, al punto che molte sue intuizioni finirono per trovare spazio nel romanzo. A qualsiasi ora del giorno Gabo le telefonava per leggerle i brani appena scritti.[…]
Mercedes intanto continuava nella sua battaglia contro il naufragio delle finanze familiari. Nei primi mesi del 1966, del denaro messo da parte grazie ai guadagni di un tempo non restava più nulla: il blocco dello scrittore che aveva afflitto suo marito apparteneva al passato ma il libro diventava sempre più corposo e sembrava proprio che avrebbe richiesto tutto l’anno. Alla fine García Márquez portò l’Opel bianca da un rivenditore di Tacubaya e tornò a casa con un considerevole gruzzolo. Ora, per spostarsi, dovevano contare sugli amici. Gabo arrivò a prendere in considerazione l’idea di rinunciare al telefono, non solo per risparmiare ma per evitarsi la massima distrazione: conversare per ore con le persone care. Quando anche il ricavato dalla vendita dell’automobile finì, Mercedes iniziò a impegnare qualsiasi cosa: televisione, frigorifero, radio, gioielli. Solo tre «roccaforti inespugnabili» resistevano: il suo asciugacapelli, il frullatore per i ragazzi e la stufetta di Gabo. La carne la comprava da Don Felipe, il macellaio, a credito (un credito sempre più elastico); quanto al padrone di casa, Luis Coudurier, lo convinse ad aspettare ancora qualche mese. Il resto arrivava grazie ai loro amici, che li rifornivano regolarmente di ogni ben di dio. Conservarono anche il giradischi. In questa fase García Márquez non riusciva più a scrivere e ascoltare musica contemporaneamente: d’altra parte senza musica non poteva vivere, e durante quasi tutto quel periodo, in sottofondo, il suo amato Bartók, i Preludes di Débussy e i Beatles con A Hard Day’s Night accompagnavano le sue altre attività.
Il momento peggiore, parlando del romanzo, fu la morte del colonnello Aureliano Buendía (nel capitolo 13). Come molti autori visse la scomparsa del suo protagonista come un lutto personale, forse addirittura come un assassinio. Il racconto della morte è intessuto di alcuni tra i più intensi ricordi della sua stessa infanzia e, sebbene i critici non l’abbiano compreso, in questo personaggio, apparentemente così lontano da lui, García Márquez ha trasferito più elementi personali che in qualsiasi altro, perlomeno fino ad allora. […]
Finalmente, alle due di notte, conclusa l’operazione, raggiunse nel letto Mercedes che dormiva profondamente, le si stese accanto e pianse per due ore. Non è necessaria una conoscenza approfondita della biografia di García Márquez per immaginare che aver ucciso il suo protagonista principale l’avesse costretto a confrontarsi non solo con la propria mortalità e con la fine del romanzo ma anche con la fine di un’esperienza ben più che emozionante; con la fine, in parole povere, di una fase della propria vita e della persona che era stata fino a quel momento, con la fine del rapporto, inesprimibile quant’altri mai, con la persona più importante della sua vita, suo nonno (perduto oramai per sempre, perché la letteratura non poteva riportarlo in vita). […]
Cent’anni di solitudine aveva trovato un editore sin da quando García Márquez aveva iniziato a scriverlo e, giorno dopo giorno, aveva creato, intorno a sé, un pubblico entusiasta, sul quale il suo autore poteva contare. Non che avesse bisogno d’incoraggiamento: più che euforico, Gabo era posseduto. Posseduto dal potere creativo della letteratura che gli pulsava nelle vene e dalla certezza che il successo di quell’opera fosse scritto nelle stelle. Predestinato. L’Ulisse di James Joyce è l’esempio più analogo di libro mitico della cui stesura i conoscenti dell’autore fossero a parte, consci del suo essere destinato alla grandezza; ma Joyce non aveva un editore, né poteva immaginare di aver dato vita a un best seller. Nonostante l’estrema cautela che lo contraddistingueva, però, García Márquez nutriva una tale fiducia che a marzo, durante una visita a Bogotá, non si lasciò vincere dalle superstizioni che abitualmente lo bloccavano e affidò il primo capitolo ai suoi vecchi colleghi di «El Espectador», che il 1° maggio lo pubblicarono. Carlos Fuentes, ormai tornato a Parigi, ne ricevette i primi tre a giugno del 1966, restando sbalordito; quando li fece leggere a Julio Cortázar, amico comune, la reazione fu identica. A Parigi, nell’agosto dello stesso anno, Fuentes trasmise il solo secondo capitolo a Emir Rodríguez Monegal perché lo pubblicizzasse nel primo numero di una nuova rivista letteraria, «Mundo Nuevo».[…]
Poi, il 29 giugno, Fuentes spedì un articolo a «La Cultura en Mexico», intitolato ¡Siempre!, annunciando anche ai suoi compatrioti la nascita di Cent’anni di solitudine, un romanzo magnifico (che García Márquez con ogni probabilità non aveva ancora terminato): «Ho appena letto ottanta pagine magistrali: le prime ottanta pagine di Cent’anni di solitudine, il romanzo al quale García Márquez sta ancora lavorando». Nessuno riusciva a credere ai propri occhi: quel che stava accadendo non aveva precedenti.
Con il clima febbrile di attesa che si era creato, non stupisce che García Márquez sia riuscito a finire il romanzo. Come spiegò a Plinio Mendoza: «[…] il libro è arrivato alla fine, spontaneamente, di colpo, alle undici di mattina. Mercedes non era in casa e non ho trovato al telefono nessuno cui raccontarlo. Ricordo il mio disappunto come se fosse ieri: non sapevo cosa fare nelle ore che mi restavano. Ho cercato di inventare qualcosa per poter vivere fino alle tre del pomeriggio». […]
La prima cosa che fece, prima ancora di spedirlo alla Sudamericana, fu mandarne una copia a Germán Vargas a Bogotá, chiedendogli se avesse da obiettare ai riferimenti a lui e agli amici di Barranquilla; sia Vargas sia, in seguito, Fuenmayor risposero di sentirsi onorati di essere amici dell’ultimo dei Buendía. Infine Vargas, con la lentezza che lo caratterizzava, una volta digerito il romanzo scrisse un articolo, García Márquez, el autor de una obra que hará ruido (García Márquez, autore di un’opera che farà scalpore), pubblicato ad aprile del 1967 su «Encuentro Liberal», il settimanale bogotano da lui diretto. Il saggio di Vargas, che già di per sé fece scalpore, fu il primo a profetizzare il prestigio cui l’opera era destinata. Anche Plinio Mendoza ne ricevette una copia, a Barranquilla, e lo lesse da cima a fondo in ventiquattr’ore, rimandando ogni altro impegno. Con la nuova moglie, Marvel Moreno, ex reginetta di bellezza e futura scrittrice, commentò: «C’è riuscito. Gabo ha fatto centro, proprio come voleva». Dopodiché lo passò ad Álvaro Cepeda, che lo divorò, si tolse il sigaro di bocca e tuonò: «Merda, Gabo ha tirato fuori un cazzo di romanzo».
Per come la racconta García Márquez, il suo ritorno al mondo fu drammatico e frastornante, quasi come quello di Rip Van Winkle. Era l’anno della swinging London; a capo della più grande democrazia del pianeta c’era Indira Gandhi; Fidel Castro (in compagnia del quale García Márquez incontrerà la leader indiana molti anni dopo) era impegnato nell’organizzazione della Conferencia de solidaridad para los pueblos de África, Asia y Latinoamérica, più nota come Tricontinental, prevista all’Avana nell’agosto del 1967; in California, un attore di destra chiamato Ronald Reagan era candidato alla carica di governatore; la Cina era in ebollizione e Mao, pochi giorni dopo l’invio della preziosissima prima parte di Cent’anni di solitudine a Buenos Aires, dette il via alla rivoluzione culturale. Quanto a García Márquez, dovette dare l’addio in fretta e furia all’universo magico di Macondo e dedicarsi a tirar su qualche soldo. Non riuscì nemmeno a concedersi una settimana di festeggiamenti, temendo che gli ci sarebbero voluti anni prima di ripagare i debiti accumulati. In seguito disse di aver scritto milletrecento pagine, delle quali quattrocentonovanta furono infine spedite a Porrúa, di aver fumato trentamila sigarette e di essere indebitato per centoventimila pesos. Si sentiva insicuro, comprensibilmente. Qualche giorno dopo aver terminato la sua opera fu invitato a una festa a casa del suo amico inglese, James Papworth, che gli chiese notizie del libro. «Ho prodotto un romanzo, o forse solo un chilo di carta. Non sono ancora sicuro», rispose. Poi si rimise immediatamente a scrivere sceneggiature. Finalmente, nel suo primo articolo dopo cinque anni, datato luglio 1966 e ancora una volta non destinato al pubblico messicano, si lasciò andare a una meditazione autoreferenziale per «El Espectador», intitolata Disavventure di uno scrittore di libri:
Scrivere libri è un mestiere suicida. Nessun altro esige tanto tempo, tanta fatica, tanta dedizione in rapporto ai benefici immediati. Non credo ci siano molti lettori che, finito di leggere un libro, si chiedano quante ore di angosce e di calamità domestiche siano costate all’autore quelle duecento pagine e quanto ha riscosso per il suo lavoro. […] Dopo questa triste constatazione di sciagure è naturale domandarsi perché noi scrittori scriviamo. La risposta, inevitabilmente, è tanto melodrammatica quanto sincera. Si è scrittori, semplicemente, come si è ebrei o neri. Il successo è incoraggiante, il favore dei lettori è stimolante, ma questi sono solo vantaggi supplementari perché un bravo scrittore continuerà a scrivere comunque, anche se le sue scarpe cadono a pezzi e anche se i suoi libri non vendono.
Il nuovo García Márquez, i cui primi tratti si potevano intravedere nelle interviste rilasciate all’arrivo a Cartagena nel marzo precedente, è nato. Ha iniziato a dire quasi l’esatto opposto di quel che intende. Scrive delle proprie disavventure perché quelle disavventure sono oramai pressoché archiviate. L’uomo che non si era mai lamentato, l’uomo che non si era lagnato nemmeno nelle circostanze più avverse, d’ora in poi inizierà a lamentarsi di tutto, a cominciare dall’avidità di editori e librai, argomento che prenderà le forme di un’ossessione. Eccolo qua, il García Márquez che non finirà di ammaliare il suo pubblico e di irritare pervicacemente i critici, in particolare quelli fermamente convinti di come il suo successo sia immeritato e di come dovrebbero essere loro, piuttosto, incommensurabilmente più raffinati, smisuratamente meno volgari e, in termini letterari, immensamente più importanti, a ricevere i suoi premi sfavillanti. Questo nuovo personaggio (un vero esponente degli anni Sessanta, con ogni evidenza) è provocatorio, presuntuoso, demagogico, ipocrita, intenzionalmente sgraziato eppure impossibile da racchiudere in una definizione; ma i suoi lettori lo ameranno proprio per questo, perché sembra uno di loro, uno che ce l’ha fatta alla grande e tutto grazie al suo ingegno che è il loro ingegno, la loro visione del mondo.
Grosso modo nello stesso periodo, poco dopo aver concluso il romanzo, García Márquez scrisse una lunga lettera a Plinio Mendoza, che inizia con una sorprendente dichiarazione di quel che sentiva in quel momento e prosegue spiegando il suo capolavoro appena ultimato e ciò che significa per lui:
Dopo tanti anni spesi a lavorare come una bestia mi sento schiantato dalla stanchezza, senza prospettive chiare eccetto in un campo, l’unico che m’interessa ma che non mi dà da mangiare: il romanzo. La mia decisione, che denuncia un impulso più forte di me, è sistemare le cose in qualsiasi modo pur di continuare a scrivere le mie storie. Credimi, eccessivo o no che ti sembri, non so che cosa mi aspetta.
Quel che dici del primo capitolo di Cent’anni di solitudine mi ha reso molto felice. È per questo che l’ho pubblicato. Quando sono tornato dalla Colombia e ho riletto quel che avevo scritto ho avuto la sensazione deprimente di essermi imbarcato in un’avventura che avrebbe potuto finire in una catastrofe come in un trionfo. Così, per capire come l’avrebbero vista gli altri, ho spedito il primo capitolo a Guillermo Cano: poi ho chiamato a raccolta gli amici più esigenti, esperti e sinceri, e gliene ho letto un altro. Il risultato è stato magnifico, soprattutto perché per quella lettura avevo scelto il più rischioso: l’ascensione al cielo di Remedios la Bella, in corpo e anima…
Sto cercando di rispondere, senza alcuna modestia, alla tua domanda: come scrivo quel che scrivo. In realtà Cent’anni di solitudine è stato il primo romanzo che ho provato a scrivere, quando avevo diciassette anni, e si chiamava La casa, ma dopo un po’ l’ho lasciato perdere perché era troppo per me. Da allora non ho mai smesso di pensarci, di cercare di visualizzarlo con gli occhi della mente, di scovare il modo migliore per raccontarlo, e posso garantirti che il primo paragrafo non ha né una virgola in più né una in meno dell’altro, scritto vent’anni fa. Da tutto questo traggo una conclusione: quando hai un argomento che ti perseguita, quello comincia a crescerti nel cervello e va avanti per un pezzo e il giorno che scoppia o ti siedi alla macchina da scrivere o rischi di ammazzare tua moglie…
Dalla lettera si capisce come, scrivendo quelle parole, García Márquez in parte si prepari a difendere il proprio punto di vista – e il proprio romanzo – in pubblico, continuando a prefiggersi una carriera parallela, e di altro livello, in ambito giornalistico. Tra l’altro scrive di avere tre progetti diversi per altrettanti romanzi, che lo stanno «incalzando».
Ai primi di agosto, due settimane dopo aver scritto questa lettera, García Márquez accompagnò Mercedes all’ufficio postale per spedire il manoscritto completato a Buenos Aires. Erano due sopravvissuti a una catastrofe. Il pacco conteneva 490 fogli e l’impiegato decretò: «Sono ottantadue pesos». García Márquez fissò Mercedes che frugava nel borsellino alla ricerca del denaro. Non ne avevano che cinquanta, il che voleva dire spedirne solo metà: García Márquez rimase a osservare l’omino che toglieva un foglio dopo l’altro, come fossero state fette di pancetta, fino a raggiungere il peso che potevano permettersi di inviare. Tornarono a casa, presero la stufa, l’asciugacapelli e il frullatore, li portarono al banco dei pegni e tornarono all’ufficio postale per spedire la seconda metà. Quando furono di nuovo in strada Mercedes si fermò, si girò verso di lui e disse: «Ehi, Gabo, ora ci manca solo che il libro non vada bene».
* Il presente testo è tratto da “Vita di Gabriel García Márquez” di Gerald Martin (Mondadori, 2011).
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).