Ogni anno, prima di Capodanno, esprimo un desiderio, sempre lo stesso. Fa’ che anche quest’anno non saltiamo in aria insieme a tutto il palazzo. Quando mi sento ottimista, lo inserisco tra i buoni propositi, come se la cosa dipendesse unicamente dalla mia forza di volontà.
Quando aveva tredici anni, mio zio metteva le miccette nel presepe, le accendeva e poi si nascondeva dietro un divano, e aspettava. I pastori saltavano per aria, le capanne esplodevano, c’era anche chi rimaneva azzoppato o mutilato dall’esplosione. Il bambinello ogni anno si faceva Natale sotto le bombe.
Ad un certo punto – per forza di cose – mio zio diventò grande, e smise di attentare al presepe con i petardi. Separò le sue passioni: il presepe lo allestiva in salotto, al riparo dalle detonazioni, mentre fuori al balcone scatenava un inferno di tricchitracchi e botti. I miei cugini, più piccoli di me, sparavano i colpi in aria e osservavano in cielo i ricami di luce, mentre io, cuor di leone, nel firmamento non cercavo altro che gli scarti in caduta libera dei fuochi esplosi, che – ne ero sicura – mi avrebbero bruciato i capelli, e forse anche aperto la testa in due. Stranamente, ai miei capelli non accadde mai nulla, né alla mia testa.
A mio zio andò diversamente. Era il Capodanno del duemilaecinque, anche se non ricordo se fosse a cavallo tra il duemiquattro e il duemilacinque o tra il cinque e il sei. Si stava tutti a casa di un altro mio zio, uno che non dava fuoco ai presepi ma al massimo inseguiva gli ospiti per la casa dicendo, Mi scappa una pedanteria! e raccontando a tutti, volenti o nolenti, le strategie di Kutuzov nella battaglia di Borodinò – Ida, te lo ricordi? E’ in Guerra e Pace. Uno che aveva un terrazzo bellissimo, all’ultimo piano, da cui si potevano vedere i fuochi di tutta Castellammare – e anche di fronte, Napoli, Pompei.
Lo zio pedante ci aveva inchiodati al tavolo per un interminabile Mercante in Fiera, gioco a cui non si può vincere se si ha più di cinque anni. Età che tutti avevamo superato da un pezzo, tranne mio cugino Catello, che era addirittura riuscito a vincere con la carta maledetta delle Caravelle. Intorno al tavolo, lo sconforto di chi aveva puntato forte – ma te l’ho detto che il Lattante non può uscire, quando mai è uscito il Lattante? Non si è mai visto – e il sonno di tutti gli altri. Ma bisognava arrivare alla mezzanotte, possibilmente svegli.
Nonna sedeva su un divano, ipnotizzata dal concerto di Capodanno in diretta da una località montana (Courmayeur?) di cui nessuno aveva mai sentito parlare fuori dal telegiornale. Nonna, puoi abbassare? Ma così non sento niente, Nonna, sei di una sordità infinita!, No, siete voi che bisbigliate.
Sul palco della località montana ignota ballavano le salme di cantanti che erano già in declino negli anni ’60 rimessi a nuovo, tenuti insieme con la colla, pittati con colori inverosimili. I morti contro i feriti, commentava mamma, scuotendo la testa. Finalmente venne la mezzanotte.
Il nero sopra le nostre teste si era riempito di una miriade di luci abbaglianti. Lo zio pedante aveva fatto un cenno di capo allo zio incendiario, che aveva ammiccato allo zio banchiere, e tutti e tre erano spariti con mio cugino Michele, che era grande ormai. Poteva aiutarli con le casse. Avevamo fatto le cose in grande, quell’anno, avevamo preso i botti a Napoli.
Lo zio incendiario stava togliendo i tricchitracchi dalla scatola, l’immancabile sigaretta gli pendeva di traverso dalle labbra. Che stai facendo, dice lo zio banchiere, Sistemo, risponde lo zio incendiario, voltandosi. Una scintilla cade dalla sigaretta sui tricchitracchi. E di colpo non è più solo il cielo nero a incendiarsi di scintille, ma tutto intorno l’aria esplode, e c’è fuoco e fumo dappertutto, e c’è sangue sulla faccia dello zio incendiario. Natale sotto le bombe.
I bambini gridano, Ida fai qualcosa, sei la maggiore, Ida fai qualcosa, non sono loro a parlare ma sono io, io sotto le bombe. Dal cielo cadono gli scarti dei fuochi esplosi. Nessuno mi brucia i capelli.
Lo zio incendiario dice Non è niente, ma si nasconde il volto tra le mani. Mamma lo porta in bagno. Di lontano, le luci blu di un’ambulanza. Io sto con Catello, che piange. Non gli importa più di aver vinto con le Caravelle.
Il giorno dopo ha i contorni di un ospedale. Allo zio incendiario è esploso l’occhio e la metà sinistra della faccia, ma ha avuto comunque la forza di cacciare il medico che voleva fargli cambiare i calzini, Questo non è un calzino, questo è un tesoro! Il medico è uscito in fretta, e dietro di lui sono volati i calzini. Non so se l’intento fosse quello di colpirlo. La zia del terrazzo, che però non conosce la battaglia di Borodinò, ha attaccato con voce lamentosa un Io ve l’avevo detto, seguito subito dopo da un Anche Gino ve l’aveva detto, Gino dice sempre che non bisogna sparare i botti, che è pericoloso. Lo zio incendiario risponde Sì, Gino non spara mai i botti suoi, spara solo quelli degli altri, al che la zia del terrazzo azzarda un altro giro di Ve l’avevo detto, ma è interrotta da un lapidario Vafammocc’ dello zio incendiario. La zia del terrazzo tace, finalmente.
Sono passati tanti anni da quel trentun dicembre duemilaecinque che forse era duemilaquattro. Di quel giorno mi resta un vago ricordo, un desiderio e l’occhio di vetro dello zio incendiario. Adesso oltre a Catello c’è Chicco. Nessuno dei due figli dello zio incendiario fa esplodere presepi, ma vedo in loro la stessa allegra turbolenza, la stessa sfrontata sfida alla vita. Chicco ha due anni, e il padre gli ha spiegato che un occhio è finto, di vetro, mentre l’altro è vero. Chicco ha fatto di sì con la testa, dando a intendere di aver capito, poi è andato a vedere Peppa Pig. Mentre la famiglia Pig si faceva in quattro sullo schermo, organizzando pic nic e modellando statuette di creta, Chicco si è avvicinato alla televisione e si è messo in punta di piedi, per toccare lo schermo con le dita grassocce.
Che stai facendo, chiede la madre, se ti metti così vicino ti si rovinano gli occhi e dopo non vedrai niente più.
Occhio finto, occhio vero, dice Chicco, indicando prima un occhio poi l’altro sul faccione rosa di Peppa Pig. Quindi abbassa le palpebre e indica i suoi occhi. Occhio finto, occhio vero. Perché la realtà non è come la vedi, ma come la immagini, e Chicco lo ha capito senza essere un surrealista, da solo sulle sue gambe traballanti.
Occhio finto, occhio vero.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).