Consideravo l’idea di scrivere per il sito di Nuovi Argomenti brevi pezzi che parlassero di gente che mi piace e stavo dicendo a me stesso che sarebbe il caso di iniziare a farlo in maniera meno randomica, più studiata. Ho pensato anche che quello che la gente fa per iniziare a dare un senso alle cose è nominarle, checché ne dica Cratilo. Avevo pensato di darle un titolo ma “emanazioni di me” suonava un po’ troppo neoplatonico e “persone che sarei voluto essere se non fossi stato io” mi sembrava comunque troppo pretenzioso. Alla fine ho deciso che “Gente che avrei voluto conoscere” (anche se Gregory Corso mi sarebbe piaciuto abbracciarlo e con Casanova mi sarei limitato a una discreta cena piena di aneddoti), era un buon compromesso.
Oggi voglio parlare di Carver, uno dei miei riferimenti umani principali (dopo Tuthankamon e Montezuma). Ma siccome non ho intenzione di parlare del ruolo degli editor nella letteratura, né della propensione alla forma racconto, ho deciso di limitarmi alla produzione poetica dello scrittore statunitense.
Doveva essere il 2007, mi pare, avrò avuto ventun’anni, forse ventidue. Ero in macchina con la mia ragazza di allora (ho cercato un aggettivo possessivo che qualificasse il nostro passare del tempo insieme come una cosa che andasse univocamente da me a lei e non il contrario ma non sono riuscito a trovarlo: in ogni caso “mia” non rende affatto giustizia alla situazione) e stavamo andando sulle rive di un lago, Bracciano mi sembra, a fare pranzo. Sarebbe stata anche una cosa romantica se lei in realtà non fosse stata l’amante di un tizio sposato con figli che una volta mi ha pure urlato al telefono facendomi sentire un po’ come quello scemo dei filmati porno amatoriali con in basso a destra scritta in bianco una data qualsiasi degli anni ‘90 che se ne sta in un angolo a guardare (lui è il tizio bianchiccio e sovrappeso, di solito). Racconto questa scena perché mi ricordo perfettamente che in macchina stavamo parlando di letteratura (un po’ perché studiavamo entrambi filosofia e ci sentivamo in dovere di fare discorsi alti e un po’ perché io scrivevo già da un po’, molto male a dire la verità, ma avevo appena pubblicato un racconto su NA e mi sembrava assolutamente normale continuare a ribadirlo). Mi aveva chiesto quand’era stato che avevo capito il modo in cui avrei voluto scrivere, se ci fosse stato uno spartiacque forte tra la scrittura vagamente lirica dei miei sedici anni a quella di allora, perfettibilissima ma almeno più controllata, in un certo senso più matura (l’unica cosa lunga che avevo scritto si chiamava America, una cosa tutta simboli a caso e senzatetto, e a lei non era piaciuto). Io ho risposto che era stato Carver, l’artefice di tutto. E davvero credevo che fosse vero, perché anche se di Carver narratore ho recuperato col tempo quasi tutto, a quel tempo avevo letto solo una poesia, una di quelle più famose, questa:
Giù nello Stretto le onde schiumano,
come dicono qui. Il mare è mosso e meno male
che non sono uscito. Sono contento d’aver pescato
tutto il giorno a Morse Creek, trascinando avanti
e indietro un Daredevil rosso. Non ho preso niente.
Neanche un morso. Ma mi sta bene così. È stato bello!
Avevo con me il temperino di tuo padre e sono stato seguito
per un po’ da una cagnetta che i padroni chiamavano Dixie.
A volte mi sentivo così felice che dovevo smettere
di pescare. A un certo punto mi sono sdraiato sulla sponda
e ho chiuso gli occhi per ascoltare il rumore che faceva l’acqua
e il vento fischiava sulla cima degli alberi, lo stesso vento
che soffia giù nello Stretto, eppure è diverso.
Per un po’ mi son concesso il lusso di immaginare che ero morto
e mi stava bene anche quello, almeno per un paio
di minuti, finché non me ne sono reso conto: Morto.
Mentre me ne stavo lì sdraiato a occhi chiusi,
dopo essermi immaginato come sarebbe stato
se non avessi davvero potuto più rialzarmi, ho pensato a te.
Ho aperto gli occhi e mi sono alzato subito
e son ritornato a essere contento.
È che te ne sono grato, capisci. E te lo volevo dire.
Io ho risposto Carver e lei, senza smettere di tenere le mani sul volante (naturalmente era lei che guidava), è rimasta in silenzio, ha fatto un mezzo sorriso compiaciuto e per un attimo brevissimo ha pensato di lasciare perdere questa cosa degli amanti e sposarmi la settimana dopo in una chiesa di campagna americana coi barattoli al posto dei bicchieri di vetro e un temporale che prima di benedirci si carica un po’ su un deserto in lontananza.
Non so voi, ma almeno la prima parte della poesia è praticamente la versione poetica della lezione americana di Calvino dedicata all’esattezza (l’unica che poi abbia veramente recepito e con la quale sia stato d’accordo). In ogni caso, al momento del racconto Calvino non l’avevo ancora letto e quella poesia fu una specie di folgorazione. Sapevo perfettamente come muovermi all’interno di quelle parole pur chiedendomi cosa cazzo fosse un daredevil rosso (immaginavo sì una specie di amo di quelli piumati, ma poi boh) e dove fosse esattamente Morse Creek. Per me, che venivo da una narrazione confusa dell’emotività personale che fosse però adulterata abbastanza da non essere veramente io quello di cui si parlava (rendendo il tutto ancora più teneramente ovvio) quella era una lezione umana fondamentale che non parlava di verità, di resa sulla pagina, dei grandi problemi del Tema o della trama, no, quella era una cosa che parlava di una cosa più complicata, almeno letterariamente parlando: l’onestà. Quella della gente con gli occhi grandi e la faccia da bambino, per intenderci, che sembrano indifesi davanti al mondo eppure intoccabili, salvi a priori (Lucia aveva i capelli rossi e gli occhi umidi, e qualcosa di sessuale pure nel modo in cui cambiava le marce, con una durezza controllata, il suo era un aspetto peccaminoso, colpevole all’istante).
Ecco il tipo di scrittura che volevo avere, di più, ecco il tipo di persona che volevo essere.
Naturalmente le cose non furono così semplici, da che mondo e mondo non basta volere una cosa per far sì che questa accada, anzi, filosoficamente parlando la volontà è una cosa che ti fotte sempre. Credo che ognuno abbia dei limiti, per quanto riguarda gli influssi letterari, e Carver poteva essere per me la bandierina di destra in un’ipotetica discesa slalomistica, che avrebbe avuto il suo corrispettivo a sinistra nella simbologia spinta, nella letteratura religiosa, nel realismo magico sudamericano. Ecco, mi dicevo che se fossi riuscito a tenermi costantemente all’interno di quel sentiero le cose non sarebbero potute andare troppo male.
L’idea di trovarmi di fronte a un mio limite fu chiara: negli anni lessi tutto quello che c’era da leggere, il suo Il mestiere di scrivere rimane oggi uno dei miei testi fondamentali sulla scrittura creativa e Cattedrale uno dei racconti migliori della storia.
Raymond Carver ha avuto una vita piuttosto standard, per come si immagina l’esistenza degli scrittori in America nell’immaginario collettivo. Si è sposato molto giovane, a diciannove anni, con Maryanne Burk che di anni ne aveva diciassette all’insegna di un matrimonio immaturo e nevrotico, e farà ogni sorta di lavoro, dal banco di una farmacia alla segheria col padre, fino a quando i suoi racconti, uno dopo l’altro, cominciano a venire comprati dalle riviste. Inizia a guadagnarci, il suo talento comincia a essere spendibile. La forma poesia diventa un’esigenza temporale prima che artistica, qualcosa a cui dedicarsi nelle poche ore libere che gli rimanevano a settimana. Scrive:
In quel periodo immaginavo che, se fossi riuscito a ritagliarmi un’ora o due al giorno solo per me, dopo il lavoro e la famiglia, sarebbe stato anche più che abbastanza. Il paradiso. Ed ero contento di avere quell’ora. A volte, però, per una ragione o per l’altra, non riuscivo a prendermela. E allora confidavo nel sabato, benché a volte, succedessero cose che mandavano a monte anche il sabato. Ma c’era ancora la domenica in cui sperare. Domenica, forse.
Ancora, Carver è sì un poeta onesto, ma all’apparenza potrebbe anche sembrare un poeta semplice. Il lirismo delle sue poesie è nullo, è come se l’idea di scrivere in prosa non lo avesse mai abbandonato del tutto ma che fosse solo un modo diverso per esprimere la stessa narrazione, la stessa storia. Racconti in forma di poesia ne è la testimonianza più lampante. Era un colpo duro, perché sapevo che la cosa che mi era sempre mancata, nelle cose che scrivevo, era l’azione vera, le cose che succedono. Ero arrivato al punto che scrivere frasi come “lei si alzò dalla sedia” suonanavano false, erano bugie che costringevo a dirmi nell’ottica di una narrazione fine a se stessa. Ecco che invece da quei nugoli di dubbi usciva, come un raggio di sole che rischiara per poco le acque troppo calme di un lago a mezzogiorno, di un pesce persico mangiato su un tavolino con una tovaglia di carta e il cameriere che chiama per nome Lucia, una scrittura che era movimento senza dichiarazioni di interiorità, che fissava le immagini senza sforzi. Quella limpidezza era per me ovviamente troppo, da raggiungere, ma quello che era certo è che si poteva, che io potevo imparare molto. Le analogie con un altro poeta americano dello stesso stampo, cioè Bukowski, sono innumerevoli, a partire dalla narrazione lucida delle storie alla scelta di personaggi umili: in entrambi i casi i protagonisti delle poesie sono disadattati, alcoliste, esemplari di passaggio nella periferia americana, quella lontana dai grandi centri urbani: le scene di pesca abbondano, come abbonda l’alcol, e quel modo lucido di venire a patti con le dipendenze. Ma Carver è più etico, la compassione che ispira non si limita al solo racconto, non vuole suscitare una gamma di emozioni che vada dallo schifo al tragico, insomma non c’è provocazione, nelle sue parole. L’oggettività con cui descrive le scene dei suoi racconti si ammorbidisce nella poesia, dove a volte appaiono, come una specie di Lichtung, immagini di un’estrema e limpida bellezza epifanica, partendo sempre da una semplice domanda, l’unica possibile, che poi sarebbe il motore che dà il primo movimento al processo creativo: che cosa mi sta succedendo?
Ora, rispondere a questa domanda in maniera onesta è una cosa complicatissima, che fa i conti con le ambizioni, con la ritrosia naturale ad accettare le debolezze di ognuno (figuriamoci degli altri), con l’idea che conoscere veramente se stessi non debba essere proprio una cosa desiderabile. Ma una volta che con gli occhi aperti ti metti seduto, senza nessuna prevenzione e con coraggio, ad ascoltare te stesso, ecco forse allora è il momento in cui si annulla la distanza tra te e il tuo chiamiamolo talento, tra te e la tua intuizione.
Qualcosa sta succedendo proprio a me
se devo dar retta ai miei
sensi non si tratta solo
dell’ennesima distrazione cara
sono ancora imballato
nella solita vecchia pellaccia
le idee pure e le ambiziose aspirazioni
il cazzo in salute e pulito
a ogni costo
ma i piedi cominciano
a dirmi certe cose sul loro conto
sul loro nuovo rapporto con
le mie mani il cuore i capelli e gli occhi.
Qualcosa sta succedendo proprio a me
se potessi ti chiederei
hai mai provato una sensazione del genere
ma tu sei già così lontana
stasera che non credo proprio
mi sentiresti a parte il fatto
che la mia voce pure è intrecciata
Qualcosa sta succedendo proprio a me
non ti sorprendere se
uno dei prossimi giorni svegliandoti nel fulgore
di questo sole mediterraneo e girando gli occhi
verso di me scoprirai
una donna al mio posto
o peggio ancora
uno sconosciuto dai capelli bianchi
che scrive una poesia
uno che non riesce più a formare parole
che si limita a muovere le labbra
tentando
di dirti qualcosa
Ecco che cosa mi ha insegnato Carver, che le cose possono succedere in molti modi. E che le svolte sono dietro l’angolo. Divorzia dalla prima moglie, smette di bere. Conosce Tess, a cui è dedicata la poesia all’inizio. Raymond fa pace con la vita, col suo passato, con i suoi fallimenti. Negli ultimi anni la sua produzione si limita quasi esclusivamente alla poesia. La sua è una innocenza disarmante, le cose del mondo vengono dipinte come realmente sono, all’interno di un’ecosistema puro e contaminato allo stesso tempo. Carver è a tratti disarmante, leggendo quelle poesie mi viene voglia sempre di pensarla come lui, di avere la stessa sensibilità, di dire cazzo voglio essere come lui, voglio vedere le cose allo stesso modo e percepirle nella loro sensibilità. L’immediatezza delle cose che si offrono all’appercezione (ancora, in ottica anticratilea) è la stessa che il poeta usa per scriverne: il rapporto è immediato nel senso che non c’è alcuna mediazione tra lì e qui, tra il fiume e il pescatore, tra l’uomo che vede e l’uomo che scrive.
Alla fine io e quella ragazza ci siamo lasciati senza dirci una parola, smettendo di chiamarci, come si faceva prima, senza doverci spiegare tutto per forza. Anni dopo sono stato invitato a una festa, nella stessa casa in cui aveva abitato lei. Roma è piccola, d’accordo, ma quante probabilità c’erano di finire a mangiare salatini e gin tonic senza ghiaccio in bicchieri di plastica nella stessa stanza in cui fino a qualche mese prima campeggiava come un trono un televisore da 40 pollici di proprietà del suo vero ragazzo? Poche, senza dubbio. Quando sono tornato a casa ho intrecciato le mani come fa Carver in una foto famosa e l’ho avuta come immagine del profilo per almeno sei mesi, nella speranza di poter fare pace anche io con le cose che di me non potevo accettare.
Mentre scrivevo questo pezzo ho pensato che Carver in inglese significa intagliatore. Ecco, è una cosa che mi ha fatto sorridere, una di quelle cose che appena conosci ti fanno stare bene, un po’ come mi succede quando penso a Buzz Aldrin o con speranza alle cose che devo ancora mettere in ordine, e ho pensato che pure io voglio avercelo, il senso di quello che faccio scritto all’interno del mio nome.
E hai ottenuto quello che
volevi da questa vita, nonostante tutto?
Sì.
E cos’è che volevi?
Potermi dire amato, sentirmi
amato sulla terra.
(Le poesie sono tratte da Orientarsi con le stelle, minimum fax, e sono tradotte da Riccardo Duranti.)
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).