Pep

da | Mar 19, 2014 | Senza categoria

Una mattina di dicembre, nel 2009, dovevo pagare il bollettino del gas. Mi trovavo a Venezia, dopo una domenica deprimente e una notte insonne. Faceva freddo, avevo i soldi contati per il treno di ritorno e il bollettino, il MAV da pagare in qualsiasi sportello bancario italiano. Era lunedì e, tra la stazione di Santa Lucia e le autolinee di piazzale Roma, Venezia pareva una città normale: pensionati a spasso col cane, pochissimi turisti, pendolari intabarrati e frettolosi, in treno o in autobus. Prima di partire per Milano con un Interregionale, ho pensato di guadagnare un po’ di tempo pagando il bollettino. Sono entrato in un’agenzia dietro la stazione. Lo sportellista mi ha chiesto un documento di identità; ha aperto la carta e sollevato lo sguardo per confrontarmi con la fototessera e ha digitato l’importo, sprofondando nella sedia. Ho appoggiato i soldi sulla mensola, a metà tra la mia mano e il breve vuoto che divideva le banconote dalla fronte dell’uomo. Pochi clienti, l’abituale torrido microclima bancario, sottolineato da poster pubblicitari, che emanavano calore e tranquillità di finanziamenti, mutui e assicurazioni sulla vita: spiagge assolate, palme, onde docili come un lenzuolo sistemato di sera dopo una fiaba, bambini festosi assieme ai genitori quasi quarantenni, nonni sessantenni travestiti da ultrasettantenni in perfetta forma, i capelli azzurrognoli e un sorriso di morte.
«C’è un problema» ha detto lo sportellista.
Si è alzato, ha percorso cinque metri e passato il bollettino alla collega dello sportello di fianco. Ho pensato a uno di quei blocchi momentanei dei sistemi informatici, a volte si propagano non proprio in contemporanea ma lasciano alcuni secondi a un unico, sopravvissuto terminale, giusto il tempo per svolgere un’operazione, prima di bloccare tutto. Ero certo, avrei pagato il MAV allo sportello della donna, che infatti, con il piglio spesso risoluto delle impiegate, ha impugnato il bollettino digitando il codice e l’importo, la stessa abituale sicurezza di migliaia di altre circostanze simili. Dalla posizione in cui ero, tenendo due dita sulle banconote e sporgendomi lentamente con il collo al di là del confine della mensola – quasi nel territorio abbandonato dallo sportellista –, potevo vedere una porzione del computer della donna, ritagliata tra la sua nuca e la pancia dell’uomo, su cui era appoggiata la mano destra e la fotografia della mia carta di identità. Il terminale funzionava bene, ma la donna ha scosso la testa e riprovato a digitare aumentando la velocità. Si sentiva il rumore delle dita sulla tastiera, un suono che in quel ritmo affannoso recava in sé un rimprovero, non so bene se verso il collega o verso di me. La donna ha sbuffato e restituito il bollettino al collega, la risolutezza con cui di solito una madre dà al figlio i soldi sottolineando una cosa del tipo: questa è l’ultima volta che succede.
«C’è davvero un problema» ha detto l’uomo, senza nemmeno sedersi. Non ero cliente dell’agenzia e neppure della banca, ma solo una gran seccatura per gli impiegati. Forse esageravano, per dare un po’ di senso a un lunedì mattina, un paio di settimane prima di Natale. Ero di passaggio a Venezia e al posto di camminare come un turista mattiniero e fuori stagione; o di camminare con il passo accelerato del residente che sa dove andare; e invece di sedermi a leggere il giornale al tavolino di un bar, dandomi un’aria quasi internazionale a basso costo, eccomi ansioso, con in tasca il bollettino del gas da pagare, a trecento chilometri da casa. Meritavo qualche intoppo.
«E che problema c’è?» ho chiesto.
«Un blocco» ha detto lo sportellista.
«Ma il computer della sua collega funzionava.»
«Se è per questo anche il mio.»
Mi ha restituito la carta di identità e il bollettino.
«E allora?» ho chiesto, rimettendo i soldi in tasca.
«È un blocco solo su di lei.»
«Me? Io?»
«Stia calmo» ha detto lo sportellista «è meglio se va a parlare con il mio collega.»
Mi ha accolto un funzionario dal volto soddisfatto, lui ce l’aveva fatta, non era rimasto impantanato allo sportello, come gli altri due: aveva fatto un po’ di carriera, in un angolo della banca c’era lo spazio per la scrivania, il telefono, i classificatori gravidi di pratiche mezze marce, in quelle condizioni per l’incuria, non certo per qualche episodio di acqua alta. Lo sportellista ha raggiunto il collega alle spalle, gli ha ripetuto un codice, accostando le labbra all’orecchio destro, senza che il funzionario si girasse, ma anzi, rimanendo immobile, le mani appoggiate ai braccioli della sedia, la schiena diritta, gli occhi socchiusi, quasi che lo sportellista, più che bisbigliare una cifra, gli stesse infilando la punta della lingua nell’orecchio. «Si accomodi» ha detto.
«Vorrei pagare il bollettino del gas.»
«Lo so, ma nel suo caso non è così facile: dovremmo chiedere un’autorizzazione alla centrale operativa.»
«Non sto chiedendo soldi: io voglio pagare.»
«Proprio questo è il problema: lei non può pagare.»
«Pensate che siano soldi falsi?»
«I soldi sono veri. Ma lei è un pep.»
«Chi sono?»
«Una persona esposta politicamente: un pep, appunto.»
«C’è un errore, un caso di omonimia.»
«Risulta così, e non siamo noi ad averla classificata pep.»
Ha ruotato leggermente il computer. I miei dati anagrafici.
Ero proprio io.
«E chi ha deciso che sono un pep? Cosa c’entra con il bollettino del gas?»
«Ah, questo non è nostro compito saperlo. Ci atteniamo alle direttive.»
«Cosa devo fare per pagare il bollettino, per non essere un pep?»
«C’è una procedura, se avesse il conto corrente in agenzia sarebbe diverso. Sa quanta gente passa qui dentro ogni giorno? Arrivano da tutto il mondo.»
Il funzionario parlava, io mi sono perso, ho fissato l’attaccatura dei capelli, e a scendere la cravatta ancora con il nodo grosso del decennio precedente, da calciatore o agente immobiliare esaltato dal decimo rogito mensile nell’anno indimenticabile della sua carriera professionale. Non riuscivo nemmeno a inveire o a ripetere qualche luogo comune contro l’oscura disorganizzazione burocratica e senza senso italiana, né tantomeno potevo essere ironico, sarcastico. «Insomma, non posso pagare il bollettino del gas perché sono un pep.»
«È il Decreto legge numero 231, del 2007. Controlla il riciclaggio di attività criminali e terroristiche. Non vogliamo dire che sia il suo caso.»
«Le ripeto, devo essere omonimo di un politico, o di un pregiudicato.»
«Anche se non è iscritto a un partito, avrà simpatie politiche, no?»
«Non molte.»
«Bastano le antipatie. Che lavoro fa?»
«Be’, fra le varie cose, scrivo: narrativa, ogni tanto su riviste, e articoli su un quotidiano.»
«Politica? Cronaca?»
«Cultura.»
«Uhm, vede?»
«E basta questo per essere un pep?»
«Può darsi» ha detto «tutto basta.»

Sono uscito dalla banca senza credere all’ipotesi del funzionario, secondo cui sono diventato pep a causa della scrittura. Ho letto le insegne spente degli hotel, dei negozi e dell’ufficio postale. In lontananza un telone verde pubblicizzava il Casinò, la roulette gigantesca ricopriva una porzione dell’autorimessa fascista di piazzale Roma. Il bar tabacchi adiacente alla banca sottolineava, con un cartello scritto in stampatello, la vincita modesta a una delle tante lotterie italiane. Ero circondato come al solito dai soldi, ma le banconote che avevo in tasca non servivano per pagare il bollettino del gas, erano segnate da qualche aspetto della mia vita che non avevo considerato, o meglio, c’era stato qualcuno – un funzionario? un pool di investigatori? la mano invisibile e correttrice del mercato? – che aveva ritenuto interessante schedarmi, almeno a livello bancario.
Il bar tabacchi vendeva anche cartoline e guide turistiche con la scritta Venezia, Venice, Venedig, e in altre lingue. Com’è semplice il mondo in quelle pubblicazioni: i monumenti principali, il Canal Grande visto dall’alto, il ponte di Rialto, il campanile di San Marco visto dal basso, i piccioni, i tavolini dei bar, i gondolieri, le maschere di Carnevale, un assemblaggio di paccottiglia fotografica, qualche didascalia, immagini di passanti ignari di essere potenziali pep se non già pep al 100%. Un po’ di sole illuminava le banchine delle fermate dei vaporetti, i distributori automatici di biglietti, snack e bibite, avevo passato troppo tempo nel clima subtropicale bancario con addosso il giaccone, il cappellino di lana, la sciarpa: ero sudato e avevo i brividi. Non sapevo cosa fare, forse dovevo investire i soldi del bollettino non pagato e salire sul primo treno veloce, per tornare a casa, o meglio, per andare nell’agenzia dove avevo il conto corrente e chiedere spiegazioni. Ho camminato in direzione del Ghetto, il giorno prima avevo visto un’agenzia del medesimo gruppo bancario in cui ho il conto. Mi sono fermato cercando di rimanere calmo, ho controllato il bollettino e i soldi in tasca. Dalla prospettiva delle telecamere di videosorveglianza potevo sembrare un rapinatore ansioso e inesperto, che tastava la pistola prima di irrompere per una rapina, uno di quelli che poi, dopo l’arresto, avrebbe pianto e chiesto comprensione, perdono. Be’, visto il look e la situazione, forse ero più un tipo da taglierino. Una voce femminile registrata mi ha ordinato di appoggiare l’indice della mano destra sul sensore e di attendere l’accensione del semaforo verde. Le porte si sono aperte al terzo tentativo. Ho tolto il cappellino e la sciarpa, mi sono avvicinato allo sportello, ho detto buongiorno e affidato  il bollettino all’impiegato, l’uomo ha risposto buongiorno, ha digitato e ripetuto la cifra ad alta voce, ho consegnato i soldi e atteso che la macchina restituisse il bollettino, lo sportellista mi ha dato il resto dicendomi arrivederci, e allora ho ribattuto incredulo, grazie, molte grazie.

Sulla strada verso la stazione, ho pensato che sarebbe stato meglio se anche il secondo sportellista mi avesse negato il pagamento. Ero o non ero un pep? Avrei dovuto smascherarmi prima di pagare il bollettino, confessare allo sportellista della banca amica: sono un pep. Invece avevo taciuto. Forse ero un pep per tutte le banche d’Italia, a esclusione di quella in cui avevo il conto corrente e delle consorelle: del resto, quante volte avevo ripetuto, quasi con un grado di affezione, la mia banca? Oppure ero un pep soltanto per il gruppo bancario che non mi voleva far pagare il bollettino del gas, e in particolare per l’agenzia tra la stazione e il capolinea degli autobus a Venezia, del resto il personale mi era sembrato un’accozzaglia di depressi intenti a tirare le cinque del pomeriggio, per andare a bere uno spritz in qualche bar o per prendere il pullman che li avrebbe riportati a Oriago e a Borbiago. Ma erano soltanto supposizioni, l’unica cosa certa era che lo sportellista aveva digitato, e mentre la stampante marchiava il timbro, l’uomo aveva incassato i soldi e siglato il bollettino firmando uno scarabocchio sopra la scritta pagato, con la stessa noia di un calciatore quando firma un autografo a un ragazzino, dopo uno zero a zero casalingo.
Sono salito sull’Interregionale, il riscaldamento non funzionava, mi sono stretto toccando la tasca svuotata dai soldi, avanzava qualche moneta, ero soddisfatto, la preziosissima ricevuta certificava la riconquistata normalità della mia condizione di cittadino. Al di fuori dei finestrini sporchi, il sole illuminava la laguna, sembrava tutto perfetto, la luce colpiva anche le barchette prigioniere, attraccate lungo il Ponte della Libertà, nel minuscolo spicchio di laguna tra la ferrovia e la strada. I transatlantici attendevano il momento per ripartire nel Mediterraneo, i gabbiani volavano in controluce, sottolineando i tremolanti lumini diurni del petrolchimico di Marghera. Appena passato il ponte, la laguna è sembrata staccarsi dai miei fianchi ed è iniziato il Veneto. L’euforia è passata in fretta e ho ricominciato a pensare al fatto di essere un pep.

Ero schedato dal periodo in cui avevo vissuto, alla fine della giovinezza, a Padova, negli anni ’90? Già, doveva essere Padova. Del resto quando ero bambino e vivevo nell’hinterland di Milano mi piaceva Toni Negri, al telegiornale ripetevano che Toni Negri viveva a Padova, e quando, con la mia famiglia, ero andato a visitare la Basilica di Sant’Antonio, avevo creduto di incontrare Toni Negri. Ma poco dopo Toni Negri era stato arrestato e accusato di una serie di crimini: omicidi, sequestri, furti, detenzione di armi, attentati dinamitardi. L’entità che mi ha schedato come pep negli anni ’90 deve aver letto i miei pensierini dell’infanzia ed esteso il suo esito al periodo padovano. Eppure da bambino sapevo soltanto che Toni Negri fosse contro ciò che vivevo tutti i giorni, e poiché ero un bambino ansioso, intimorito dall’Italia, mi piaceva sentire qualcuno che dicesse quanto violento fosse il nostro vivere quotidiano, e quanto lo Stato minacciasse una violenza ancora maggiore per porre fine a qualsiasi dissenso, anche solo potenziale. Per fortuna, pensavo da bambino, esisteva Toni Negri, e poiché già molte cose non mi piacevano, questo mi bastava, e poi amavo il suo nome e cognome, non lo consideravo un nome e cognome vero e proprio, ignoravo che si chiamasse Antonio Negri, per me dire Toni Negri era come dire Superman, fossi stato un bambino contemporaneo avrei pensato a una sorta di nickname, toninegri. Un pomeriggio, vicino alle poste del quartiere – su un muro dove c’erano frasi d’amore, cuoricini, svastiche, croci celtiche, insulti sessuali, politici e razziali – io e Pietro, un amico di quel periodo, avevamo deciso di scrivere Toni Negri sul muro, dopo il suo arresto. Era la prima volta che scrivevo qualcosa su un muro, ero emozionato, sebbene non avessi lo spray, ma un pennarello da prima media in mano. Pietro aveva un anno più di me e così, in virtù di quella differenza, mi aveva strappato il pennarello e aveva voluto scrivere lui Toni Negri. All’inizio avevo protestato, tuttavia, appena Pietro aveva tracciato la T mi ero rassegnato a quella forma di nonnismo militaresco e già avevo pregustato la scritta. Ma quando Pietro ha scritto Tony con la y, gli ho bloccato il braccio, e protestato.
«Non si scrive Tony Negri: si scrive Toni Negri.»
«Ma che cazzo dici? Si scrive come dico io.»
«E allora perché non scrivi Tony Negry?» gli ho detto mimando le y sul muro.
«Ignorante» mi ha detto.
«Tu, ignorante.»
Pietro aveva citato personaggi famosi che si chiamavano Tony: Tony Manero, Tony Curtis, Tony Musante, Tony Binarelli, e non ricordo più chi fra gli altri.
«Toni Negri non c’entra nulla con i tuoi Tony.»
Mi ero allontanato da tutti quei segni sui muri, dal patetico Tony in rosso, che avrebbe potuto essere qualsiasi cosa: se anche fosse passato di lì il poliziotto più Anti Toni Negri d’Italia, mai avrebbe pensato che Pietro volesse scrivere Tony Negri sul muro.
O era iniziato prima? ho pensato attorno a Verona. Fuori continuava a sfilare l’abituale paesaggio di case unifamiliari con cani infreddoliti nei giardini, e ancora capannoni, industrie dismesse, nuove aziende con telecamere di videosorveglianza che richiedevano sempre un uomo, a controllare i monitor.
A metà degli anni ’70, ero andato a Roma per la prima volta, con i miei genitori e mia sorella. Davanti a Montecitorio – sorvegliato dai poliziotti – avevo detto: mio papà dice sempre che qui dentro fanno schifo, ed è diventata una cosa impossibile. Mia madre aveva sorriso, smontando la frase con un buffetto sulla guancia, per relegare la mia uscita all’immaginazione infantile. Mia sorella era rimasta in silenzio, come mio padre, che solo davanti al Pantheon, mi aveva scrollato la spalla sinistra dicendo: ma tu mi vuoi sbattere in galera?
O era iniziato dopo? Mi avevano schedato come pep a una manifestazione studentesca del 1985. Era stata una delle poche manifestazioni organizzate nell’hinterland e avevo partecipato, non ancora diciottenne, ma appena avevo sentito il coro «Dall’est all’ovest son tutti uguali, no ai missili nucleari», mi ero immediatamente staccato dal corteo per rifugiarmi in una pasticceria celebre per le brioche alla mela, meglio conosciute come melanelle.
Fuori dal finestrino sporco eravamo accanto al luccichio del lago di Garda, e dopo Brescia, in qualche stazione minore. Ero stanco, volevo soltanto arrivare per andare in banca, sul treno c’era l’Italia già impoverita, del resto se nemmeno si potevano utilizzare i soldi veri per pagare il bollettino del gas, in quale direzione stavamo andando?
Il treno ha rallentato prima di entrare nella Stazione Centrale, ho visto la periferia di Milano e pensato che ero diventato pep dai tempi in cui lavoravo per una multinazionale delle telecomunicazioni, una decina d’anni prima. Le condizioni di lavoro – contratti, ritmi produttivi – erano peggiorate e così avevamo costituito un comitato di lotta formato da una cinquantina di persone, una situazione che avrebbe inorridito molti miei coetanei. Ma all’epoca un po’ aveva funzionato, e le forme di lotta erano durate fino agli inizi degli anni zero. Avevamo dovuto scioperare, organizzare picchetti, presidi, dj set sotto le finestre per disturbare l’attività dei lavoratori che non scioperavano mai e anzi chiedevano di poter fare straordinario nei giorni di sciopero, e fra questi lavoratori la stragrande maggioranza era formata da donne, e la cosa significativa era che avevamo scioperato spesso proprio per il mantenimento – se non addirittura il miglioramento – delle condizioni di lavoro delle donne, in particolare del cosiddetto turno mamma. Mentre il treno cigolava all’ingresso degli scambi in stazione, ho ripetuto a bassa voce mamma – suscitando lo sbigottimento di una signora settantacinquenne seduta nel sedile di fronte – turno mamma, ho pensato, turno mamma, e ho rivisto le giovani donne, alcune delle quali madri, che varcavano i cancelli sgommando e quasi investendoci, altre più pacifiche entravano da un cancello laterale, con l’ausilio della Digos. Ma guarda che stronze, avevo pensato in quei giorni ingenui, e forse pep significa essere un illuso, un disadattato sociale: persona esposta psicologicamente. La mattina di uno sciopero avevamo scaricato sacchi di letame davanti all’ingresso dei dirigenti, che continuavano a incassare ricchissime stock options, e avevamo preteso di parlare al telefono con l’amministratore delegato. Sono diventato pep a causa del letame, ho pensato entrando in banca.
Non ho mai incontrato né il direttore né il vicedirettore, ho parlato sempre e soltanto con i vari sportellisti avvicendatisi e con gli impiegati addetti agli investimenti. L’impiegato del dicembre 2009 era sulla cinquantina, lo avevo incontrato altre volte, mi aveva ricevuto volentieri benché sapesse che non avevo soldi da investire, e anche se li avessi avuti, non avrebbe ricavato nulla da me, nemmeno uno straccio di obbligazioni a ventiquattro mesi. Avevo l’impressione che mi ricevesse per sfogarsi, per prendersi una sosta dal lavoro vero, dal mondo. E sbagliava. Proprio il fatto di sentirsi libero di dire ciò che voleva, lo riportava ai suoi demoni, mentre con gli altri era più semplice, poteva continuare a parlare della significativa crescita di un player globale. E invece mi rovesciava addosso la sua cupa visione dell’Italia: complotti, stragi, massoneria, strategie occulte, mafia, servizi segreti, destra eversiva. Anche quel giorno, in fondo, non si è smentito: appena mi sono accomodato, ha ruotato il computer e mostrato il profilo Facebook di una ragazza in costume.
«È in Australia» ha detto «lei è mia figlia. Se voglio darle un futuro, l’unica possibilità è allontanarla da qui» ha detto togliendo un post-it vuoto dal bordo del pc.
«Eh, l’Italia: sa quanto mi costa l’Australia?»
«Tanto?»
«Tantissimo. Ma allora, li abbiamo fatti un po’ di soldi da investire?» ha aggiunto.
«No, sono qui per sapere se sono un pep.»
«Un cosa?»
«Lo sa benissimo cos’è un pep.»
«No, davvero. Maurizio? Mauri? Sai cos’è…? Come ha detto?»
«Pep.»
«Eh, Mauri, sai cos’è un pep?»
«Mai sentito» ha detto Maurizio sulla soglia dell’ufficio.
Quando sono uscito dalla banca era ormai tardo pomeriggio. Mi sono buttato sul divano di casa, senza accendere la luce. Avevo il giubbotto addosso, sembrava che qualcuno mi avesse attaccato due pesi alle suole delle scarpe. Ho tolto dalla tasca la ricevuta del pagamento e buttato per terra gli spiccio-li, che hanno risuonato nella penombra. Da fuori giungevano bagliori di fanali, improvvisi fasci di luce proiettati sul muro, insieme al giallo dei lampioni e alle luminarie natalizie. Ho raggiunto il termostato e aumentato la temperatura. Ho accostato l’orecchio al muro, per sentire il rumore dell’acqua nei tubi, la vampata della pompa che emetteva più calore; e ho sollevato la testa di poco, quel tanto che bastava per vedere la fiamma viola dimenarsi, imprigionata nella piccola feritoia della caldaia.

(Il racconto di Giorgio Falco è tratto dal numero 65 di Nuovi Argomenti, attualmente in libreria.)

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).