Impegnato solo saltuariamente sul versante contemporaneo, per molto tempo non mi sono occupato in modo sistematico delle ragioni e delle finalità della letteratura dell’ultimo secolo. Queste ragioni e finalità vengono infatti interrogate con particolare impegno dai contemporaneisti, che devono esprimersi sui rapporti di un’opera nuova con i precedenti paradigmi. È nell’ultimo ventennio del secolo passato che un assieme di situazioni, e la mia reazione a queste situazioni, mi hanno indotto ad approfondire tali problemi. Sottolineo in partenza che la mia posizione di «apolitico con la passione della politica» mi ha risparmiato molti degli errori e delle infatuazioni dei miei coetanei. Sono stato fuori dalla polemica sul realismo e da quella sul Gruppo 63, ho considerato troppo sommaria e ideologica l’idea dell’impegno politico degli scrittori; ho per contro ritenuto l’inquadramento dei testi in un quadro sociologico necessario anche se non sempre decisivo (ricordo che il mio primo libro era intitolato Lingua, stile e società). Perciò in vari miei articoli si trovano riflessioni di ordine sociologico, ma non interpretazioni sociologiche globali. E i lavori di Lukács sono uno solo dei riferimenti teorici, così come quelli, anche più suggestivi, di Benjamin.
C’erano solo due convinzioni che io consideravo irrinunciabili: la prima è la natura comunicativa dell’opera d’arte e in particolare di quella letteraria; la seconda è la convinzione che lo scrittore dev’essere responsabile di quanto afferma o propone o promuove. Entrambe le convinzioni portano la letteratura sul terreno della realtà umana e del nostro rapporto con essa; e si localizzano lontano dall’ideale romantico dell’art pour l’art, che in varie forme è presente nelle estetiche novecentesche. Insomma la letteratura non può prescindere dalla realtà nella quale viene elaborata, e non può rifiutare di prendere atto, e giudicare, e criticare questa realtà. Che la letteratura abbia una vita propria, in un proprio spazio, non riesco ad accettarlo. È in base a questi princìpi che scrissi per un volume organizzato da Corrado Stajano un panorama della nostra letteratura del Novecento, che, più volte ampliato e approfondito, diventò a un certo momento il volume La letteratura italiana del Novecento (1998). Usavo come quadro gli avvenimenti storici più significativi che ritmano il decorso di quell’epoca, e tenevo continuamente presenti le posizioni degli scrittori rispetto a quel quadro.
In questa cronologia personale s’inseriscono anche i miei rapporti con il problema della Shoah, che è fondamentale in qualunque tentativo di riflessione sull’etica novecentesca, dato che quell’evento, che è certo il più tragico di tutta la storia umana (non si pensò mai, nella storia, di annientare un intero popolo, come cercò di fare il nazismo), può fungere da termometro dell’etica collettiva europea, macchiata di indifferenza o persino di complicità con i regimi dittatoriali che lo produssero. Ferito nei miei affetti familiari (cinque tra zii e cugini finiti ad Auschwitz, innumerevoli amici e conoscenti che furono assassinati), mi tenni sempre al corrente della letteratura sulla Shoah, ma per molto tempo non me la sono sentita di occuparmene pubblicamente. Significativo il fatto che, amico e ammiratore di Primo Levi (di cui vorrei aver assimilato la limpida intelligenza delle cose), ho incominciato a scrivere sulla sua opera solo dopo la sua morte. È proprio verso la fine degli anni Ottanta che mi sono sentito in grado di esprimermi sulla Shoah e sui suoi testimoni, e solo nel 1999 ho esposto in Per curiosità. Una specie di autobiografia i miei ricordi e le mie riflessioni in proposito.
In quegli anni si diffondeva la sensazione della crisi di un modello di civiltà. Gli entusiasmi di rinnovamento che si erano sviluppati dopo la Liberazione ed erano giunti sino al ’68 stavano per essere soffocati, non ultimo da una serie di pseudorivoluzioni a sfondo terroristico. Lo sviluppo economico s’intrecciava sempre più con la corruzione, che fu poi smascherata con i processi di «mani pulite» (1992), i quali significarono anche una condanna della politica della «prima» Repubblica. Sui tempi lunghi, ci si rendeva conto che la spinta civile e il senso dello Stato che avevano caratterizzato il periodo successivo alla caduta del fascismo e all’affermarsi della democrazia incominciavano a infiacchirsi, e persino i grandi ideali ereditati dalla rivoluzione americana e da quella francese non erano più così saldi. Su questa china siamo andati poi precipitando sempre più, e princìpi etici che sembravano generalmente rispettati (almeno a parole) chiedono ogni volta, e non sempre con successo, di essere riformulati e difesi.
In questo quadro mi parve che fosse necessario un «richiamo alle armi» per i sostenitori dell’eredità illuministica e antifascista e della nostra Costituzione. Il mio volume Tempo di bilanci (2005) svolgeva un discorso complesso, che pochi capirono. Perché fare il bilancio letterario del Novecento voleva anche dire fare una difesa di quanto di meglio aveva formulato, per i rapporti interpersonali, e perciò sociali, il pensiero politico di quel secolo; in questo bilancio veniva immessa una serie di riflessioni sulla Shoah e sui libri della Shoah. Al culmine, ponevo uno scritto su Etica e letteratura (unico scritto della sezione eponima). Esso si collega con quanto affermato dai pochi sostenitori della centralità dell’etica nell’attività letteraria (da Wayne Booth a Nussbaum a Yehoshua). Non pretendevo dallo scrittore l’adesione a una data concezione morale, né tanto meno la sua celebrazione. Ritenevo però che egli, reso responsabile dall’autorevolezza di cui gode, debba essere sempre consapevole, quando scrive, dell’influsso che i suoi scritti possono esercitare sui lettori. Dato che la comunità dei lettori, e perciò potenzialmente tutta l’umanità, gli porge ascolto, veda di non svolgere, su questa comunità, un influsso negativo. È alla coscienza degli scrittori che mi rivolgevo; e anche alla coscienza dei critici.
Questo mio appello ha avuto qualche seguito. Segnalo soprattutto un libretto di Pino Menzio, Nel darsi della pagina. Un’etica della scrittura letteraria, Libreria Stampatori, Torino 2010. Ma il mio scritto rimarrà, se rimarrà, solo come un documento. Negli ultimi tempi mi pare che l’etica abbia avuto, in Italia, un tracollo. Siamo arrivati a chiedere ai nostri concittadini di sentire almeno un po’ di vergogna per comportamenti di cui la cronaca ci dà notizia e particolari; una vergogna che non molti condividono. A questo punto, ha senso chiedere agli scrittori di rispettare, e magari promuovere, un’etica per la quale i cittadini non hanno alcun interesse? Appunto per questo lo scritto rimane isolato nella sua sezione, testimoniando l’attesa di un futuro migliore che per ora non si affaccia. E il volume si chiude appunto su questa silenziosa invocazione.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).