Misunderstood and disillusioned
go on describing this place
and the way it feels to live and die
(Mount Eerie, “Through the trees, pt.2”)
A me piace la scrittura che frana. Più che belle pagine, m’interessa vedere chi sfascia sulla pagina i mille nascondigli, le briglie e i freni che ci impediscono di servire con meraviglia la nostra esistenza e quella degli altri. A me piace chi scrive facendo sentire quello che siamo tutti, in bilico sui cornicioni
(Franco Arminio, “Nevica e ho le prove”)
Appunti per un manifesto debole
Per scrivere «dobbiamo muoverci nel provvisorio», nell’imprecisato e nell’impensato, partire dal corpo, innanzitutto, dalle sensazioni: «la mia scrittura – dice Arminio in Geografia commossa dell’Italia interna (Bruno Mondadori, 2013) – non ha il rigore della scienza, non lo vuole e non può essere attendibile. Il primato della percezione sul concetto, del particolare sull’astrazione».
Una scrittura di appunti e frammenti, perché «non spetta a un paesologo, definire piani e programmi. Mi piace evocare alla rinfusa suggestioni per gli amministratori e gli abitanti». Una scrittura di frammenti perché «siamo corpi dilaniati dell’esplosione di segni, […] siamo brandelli, siamo rovine che si spacciano per sontuose dimore».
Scrivere saggi deliranti e facoltativi, promuovere un sapere non organizzato, che sfugga alle settorializzazioni, alle schede di collocazione: «ecco, sono finito in un vicolo cieco, non ho scritto un racconto, non ho scritto un articolo scientifico, non ho scritto neppure un testo. Ho semplicemente scritto».
Appunti per la scrittura del corpo
Partire dal corpo, dal particolare, perché «forse la crisi della politica nasce proprio da questo non potersi declinare come scienza debole». Perché la visione del mondo dei politici è fatta di parole «col profilattico: parole generiche e astratte, senza corpo, senza contatto. L’esatto contrario dunque della poesia, che è la scienza del dettaglio, che lavora sulla percezione e non sull’opinione».
Prendere le parole disinfettate, perché abbiano senso, ché «la Terra non sa che farsene delle parole che diciamo senza prenderle dal nostro corpo, ma da un gigantesco supermercato della chiacchiera che sta stingendo i nostri corpi […] In principio era il verbo e il verbo sta diventando la nostra estrema unzione […]».
Lo spazio non esiste per via astratta, scrivere è fare geografia, è essere nel mondo col mondo: contaminare il dentro col fuori, il corpo con i luoghi e farsi contaminare a propria volta, perché il mondo vive a sua volta, è uno scambio, è l’unica comunicazione possibile – ed essenziale. Così «la ricognizione dei luoghi è il frutto di uno spostamento d’attenzione, dal sintomo del corpo al sintomo del luogo»: scrivere come cura all’astrazione, un’omeopatia, una simpatia, un promemoria del presente. Chiedersi anche «cosa avrei scritto se non mi fossi fermato per salutare una persona, se non avessi visto la luna e la nave. […]»: aderire al mondo, fino a perdersi – ogni scrittura è una flanerie, Arminio è il flaneur della desolazione.
«Impastare subito dopo tutte queste cose con lo stato del mondo, il dolore per il disordine che c’era poco fa nella periferia di Otranto, il marciapiede e le case schiacciate dalla luna e dalla nave nel mare, le cose degli uomini piccole e arruffate. La vita è guardare allora il marciapiede, la luna e la nave, lo sguardo che si muove»: se esiste un altro modo di vivere e di scrivere, non è dato all’autore.
«Usare il mondo come una cava, scavarci dentro», il colore delle terre assomiglia a quello dell’inchiostro, la penna come attrezzo, fare del web una rete, come un ragno: che il mondo vi resti impigliato.
Fare similitudini concrete come questo tavolo, questa mano: «Il cielo di Andretta ieri era come l’aula, come la lavagna, lo stesso colore», «i luoghi stessi ormai sembrano appoggiati al mondo come carta da parati», «il cuore del paese è una striscia di legno sul bordo di uno spiazzo di fronte alla scuola: pare una carta moschicida per catturare i passanti», «certi paesi somigliano al dito di un piede che sbuca da un calzino rotto». Dice Arminio che il tentativo non è quello di evadere dalle incombenze, ma di elevarle, sentire il lirismo che c’è in esse.
Quindi: «vorrei entrare in una casa, vedere il bicchiere sul tavolo, il calendario sul muro», ma non si può più – sulle porte ci sono lucchetti con grosse catene, le porte sono nuove, di alluminio anodizzato, le più vecchie di legno. Il confine tra il dentro e il fuori: «uno che scrive cerca di rigare la vita degli altri con la scrittura, ma la scrittura è un chiodo di pane, non scalfisce nulla, si sbriciola tra le mani». Le porte di legno sono piene di buchi e tarli e sfregi, quelle di alluminio sono incorruttibili – e un corpo compatto non è paesologico, «la sua desolazione non offre squarci», ma sta parlando di Urbino.
Appunti contro la dissolvenza
«Ad Andretta pesco facce, le facce delle donne chi qui sembrano più antiche che altrove, la carriera della vecchiaia portata avanti gloriosamente, senza trucchi, senza abbellimenti» – le rughe come squarci nella desolazione, una bellezza nella pena, facce rigate dai buoni e dai cattivi sentimenti, le uniche su cui la vita fa presa.
Il tema dei confini: «orlo, bordo, confine, selve, monti, mare, alberi, zolla, cane, vigna, nuvole, vacca, Lucania, […] silenzio senza opinioni, luce senza commenti, non ho più voglia di parlare di me, di dire cosa faccio, dove vado, non ho voglia di vincere, […] voglio solo che la vita sfili, se ne vada da dove è venuta, non la trattengo, non voglio trattenere niente»: la lista, la nominazione, Arminio è una sentinella sul promontorio, che compone cataloghi di oggetti e di corpi, è corpo attraversato come un luogo. La sua è una scrittura del particolare, non del personale.
Dire i nomi dei luoghi, di quelli che nessuno ricorda, da cui si va via e non si torna più. Dire «Onna, Monticchio, Ocre, San Gregorio, Fossa […]: non sono paesi, ma perle di un rosario, il rosario dello sconforto». Dare la voce agli abitanti dell’Irpinia, dare voce agli aquilani, «ho trentadue anni», «ho settantatré anni», «mi chiamo Maria», «io mi chiamo Katrim», «io sono Camilla».
«Dei corpi in Emilia, non uno di cui sia stato pronunciato il nome. Il nome non conta, conta il numero. E tutte le parole che dicono alla fine tengono lontano il dolore»: del terremoto in Emilia non si vedono i cadaveri, non si vede nemmeno «la macchina che aveva quel tizio, la borsetta dell’operaia, il quadro alla parete».
Portare la vita, il mondo, tutto questo nella scrittura: Fabio Nigro, mia madre, la mia sposa, Livio, Franco Farinelli, Manlio Rossi-Doria, Salvatore Ritrovato, Elio Sellino, Zeno, i gatti, gli animali – un libro pieno di corpi, una scrittura orizzontale, senza scale gerarchiche, nessuna reverenza, nessun disprezzo.
La lista, la nominazione, la scrittura ferma la frana, la dissolvenza: dare un nome a tutto, ricordarlo, salvarlo dall’impensato, dallo scontato. È un’ipocondria, una paura della morte, che già è presente, e dell’oblio.
Appunti sul Mediterraneo interiore, sui luoghi indifferenti
«Dopo il funerale di Elio Sellino me ne sono andato all’Ikea, ho comprato tre pacchi di biscotti, tre birre, due bottiglie di succo di mirtillo, tre serie di grucce, una scatola nera, di quelle facili da montare», «guardo le pale eoliche vicine alla strada. Oggi non mi sembrano né belle né brutte», lo squallore delle merci esposte a Assisi, gli infissi che restano, mentre se ne vanno le persone. A Urbino la tranquillità del paesaggio nascondere una malattia mai del tutto curata.
«Le altre nazioni hanno il Mediterraneo sull’orlo. Noi ci stiamo in mezzo, solo noi abitiamo il Mediterraneo interiore, la colonna vertebrale è il nostro Appennino»: preservare la marginalità, il confine, il nocciolo duro intorno a cui tutto ruota e che non si raggiunge mai; avere fede anche nel non detto e nel non pensato. «Non faccio scelte, non ho rigore, non credo alla mia grandezza, credo alla lingua, credo al dovere di dar forma a questo temporale che porto nelle vene».
Ultime note
«Uscire di casa come se il mondo stesse dormendo, muoversi cercando di non disturbarlo. Uscire di casa per leggere il mondo, tornare a casa per scriverlo».
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).