di Teresa Franco
È stato recentemente presentato a Londra un nuovo libro sulla affascinante vita di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore che più di ogni altro profeta dimenticato in patria deve la sua fortuna immediata e duratura all’accoglienza entusiasta ricevuta all’estero, sia dal pubblico sia dai critici, per quello che rimane il suo unico capolavoro, Il gattopardo.(Alma Books, London, 2013)
Nell’introduzione e nelle accurate note bibliografiche di questa biografia per immagini, l’autore, Gioacchino Lanza Tomasi, figlio adottivo e pertanto erede spirituale della figura di Giuseppe Tomasi – proprio come nella finzione narrativa sarà il rapporto speciale tra il Principe e Tancredi – ripercorre brevemente la nota vicenda editoriale per cui il romanzo venne prima ignorato e poi per lungo tempo non capito dalla intelligentia italiana, mentre la sua colta “metafora siciliana” giungeva alle menti straniere, incuriosite dal genio italico, con la stessa forza persuasiva e la stessa sottoglienza psicologica di un Henry James, intento a decifrare per gli americani il carettere degli europei.
Tanto, forse tutto – ma condensato come in un invisibile mappa del genoma – , si rivela in questo romanzo del carattere e delle abitudini politiche degli italiani, impietosamente ritratti con i loro difetti e le loro virtù, idealisti e furbi, ricchi e poveri, piemontesi e siciliani, poco dopo la nascita della repubblica, ma trasportati nella finzione di Tomasi cent’anni indietro, alla vigilia dell’unificazione. Il campo si restringe, certo, e drasticamente: lo spazio del racconto è solo quello disegnato dalle ruote della carrozza del principe, da Palermo a Donnafugata – le stesse notizie dello sbarco a Marsala e della battaglia di Calatafimi arrivano attutite dalla distanza –; i personaggi sono quasi tutti interni alla famiglia Salina e alla cerchia delle loro conoscenze, con qualche significativa eccezione; il tempo quello necessario perché i vecchi muoiano e i figli invecchino ereditando a loro volta le disillusioni e i lugubri desideri di morte dei loro genitori. Eppure proprio questi limiti biologici rafforzano l’effetto storico per uno di quei paradossi estetici che Lukacs ben riconosceva al romanzo storico non tralasciando, tra l’altro, di citare, seppure fuggevolmente, Il gattopardo nella ristampa del suo studio fondamentale.
La scrittura di Tomasi, dunque, è riflessiva per sua intrinseca natura, tende a restringere e a rallentare: e non è forse per effetto di questa calcolata deformazione se il Principe ci appare sempre enorme nella sua mole e nei suoi gesti, e i salotti infinitamente vasti con le loro pitture e le loro tappezzerie colorate? Il lettore del Gattopardo vede sempre un po’ di più e un po’ più distintamente rispetto a quello che l’autore, pur nella magnificenza dell’ambiente, sembra disposto a mostrargli; tende, cioè, a riempire con le sue doti immaginative, le impressioni che un narratore, onnisciente ma volutamente lacunoso e parziale, gli offre. L’incantesimo funziona così bene che, finita la lettura, si sente l’istintivo bisogno di prolungare la visione, o quanto meno di controllare che l’immagine che ci si è formata nella fantasia regga il confronto con la realtà che ha ispirato l’autore. La verifica non è diversa da quella a cui i popolani di Donnafugata sono ansiosi di sottopporre il protagonista al momento della sua visita in persona: perché “abituati a vedere il Gattopardo baffuto ergersi sulla facciata del palazzo, sul frontone della chiesa, in cima alle fontane barocche, sulla piasterelle delle maioliche delle case, erano lieti di vedere adesso l’autentico Gattopardo in pantaloni piqué distribuire zampate amichevoli a tutti e sorridere nel volto bonario di felino cortese.”
Il connubio così congeniale tra il romanzo e le immagini nasce da questa esigenza concreta del lettore ancor prima che dallo scrupolo filologico o documentaristico del critico. Si ricorderà che Il gattopardo è anche uno dei pochissimi capolavori della letteratura a essere stato “adattato” nella versione cinematografica senza subire mutilazioni, ma solo preziosi arricchimenti. Anzi a partire dalla rivisitazione di Luchino Visconti del 1963, si può dire che il romanzo abbia continuato a camminare come accompagnato da un suo corrredo di immagini. Basti pensare a due libri inglesi usciti nel 1988: la traduzione di Raleigh Trevelyan per la Folio Society di Londra, con all’interno i bellissimi chiaroscuri gialli e neri di Ian Ribbons, e la prima biografia di Tomasi scritta da David Gilmour che già includeva nel centro del volume alcuni degli scatti più famosi.
Quest’ultimo lavoro di Lanza Tomasi integra perfettamente parole e immagini, in un equilibrio e con una continuità ammirevoli che, per sua stessa ammissione, non gli era stato possibile mantenere negli altri due “album di famiglia” pubblicati da Sellerio (I luoghi del gattopardo, 2001, e Una biografia per immagini, 1998, al momento fuori commercio). Attraverso il materiale più vario, dalle lettere ai ritratti degli antenati, dalle fotografie splendide ma ingiallite a quelle invece tecnicamente perfette ritraenti i ruderi di antichi palazzi, l’autore ci guida nei suoi ricordi e in quelli di Giuseppe Tomasi con discrezione ma, al tempo stesso, col rigore dell’archivista. Il rischio che il lettore possa sovrapporre troppo schematicamente biografia e romanzo è insomma fugato proprio dalla dettagliata e, tuttavia, fruibile ricostruzione. Eppure per chi voglia perdersi nelle intermittenze del cuore, le emozioni rimangono intatte, ancora miracolosamente racchiuse in quegli oggetti: sfogliando le pagine il lettore noterà dunque il telescopio del bisnonno Fabrizio, astrologo per passione come il Principe, la collana della madre Beatrice che sicuramente aveva lo stesso portamento della Principessa, o la simpatica mansuetudine del cane che ci guarda dalla copertina, docile accanto al suo padrone, proprio come avrebbe fatto Bendicò.