Némirovsky: come scrivere di alberi.

da | Nov 25, 2013 | Senza categoria

“Credo che dovrei sostituire le fragole con i nontiscordardimé. Sembra impossibile far sbocciare i ciliegi nella stessa stagione in cui maturano le fragole”.

FOR STORM IN JUNE:
What I need to have:
1 An extremely detailed map of France or Michelin Guide
2 The complete collection of several French and foreign newspapers between 1 June and 1 July
3 A work on porcelain
4 June birds, their names and songs
5 A mystical book (belonging to the godfather) Father Bréchard”

(Irène Némirovsky, dai suoi appunti per Suite francese, pubblicati alla fine del libro nell’edizione Adelphi del 2005)

Queste ricerche di Némirovsky sarebbero probabilmente piaciute a Pascoli per la loro precisione. È nota la critica di “indeterminatezza” che muoveva a Leopardi per il suo “mazzolin di rose e viole”, due fiori che non sbocciano nello stesso periodo:

“l’errore dell’indeterminatezza, per la quale, a modo d’esempio, sono generalizzati gli ulivi e i cipressi col nome di alberi, i giacinti e i rosolacci con quello di fiori, le capinere e i falchetti con quello di uccelli. Errore d’indeterminatezza che si alterna con l’altro del falso, per il quale tutti gli alberi si riducono a faggi, tutti i fiori a rose o viole (…), tutti gli uccelli a usignuolo”.

 

Ne Gli alberi di Roma (Newton & Compton 1997, nelle migliori biblioteche e bancarelle) Leonella De Santis parla di alberi con precisione: delle diverse specie, con i loro tronchi lisci o nodosi e le loro chiome più o meno ingombranti, ma anche di individui – per esempio del cipresso piantato da Michelangelo ancora presente dietro Santa Maria degli Angeli nelle terme di Diocleziano, o della quercia del Tasso, che poi era anche quella di San Filippo Neri, o delle palme piantate da Goethe.

 

Cominciamo con gli Olmi, Pini e i Platani, per osservare come il semplice avvicendarsi di questi tre esemplari nelle strade parli già dell’immagine della città che chi la governa ha in mente.

L’Olmo, leggiamo, “è sempre stato strettamente legato ai papi e alla Chiesa e la tradizione vuole che davanti ad ogni piccola parrocchia di campagna venisse piantato un albero di olmo”. E la storia degli olmi a Roma si potrebbe tracciare proprio attraverso i pontefici, che li facevano piantumare davanti agli edifici di culto e non solo. “Siano olmi, veda dove cavarsi il denaro”, ordinava Alessandro VII Chigi al governatore di Roma nel 1656.

Dal 1849, quando gli olmi che collegavano San Giovanni in Laterano con Santa Croce in Gerusalemme vengono utilizzati per costruire le barricate, si vedono sempre meno esemplari in giro. Si veda la storia dell’olmata dei Cappuccini: piantata nel 1820, cresciuta così rigogliosa nonostante la potatura che spettava di diritto ai frati -l’olmo può raggiungere i 30 metri di altezza e la sua chioma 25 di diametro – da suscitare le proteste degli scultori che si ritrovavano con gli atelier oscurati, e infine scomparsa per l’apertura di Via Veneto.

“Smesso l’abito paesano che le davano le strade piantate ad olmi”, Roma “si ripulì, si vestì  a festa e si regalò una serie di grandi viali alberati con grandi platani, alla stregua dei grandi boulevard parigini”. Sembra però che l’anima campagnola di Roma faccia resistenza: mandrie di capre e greggi di pecore danneggiano le alberate, e la magistratura respinge la domanda di pascolo sul Celio. Sono gli anni dei Piemontesi e di Roma capitale, e si ricerca per la prima volta la progettualità dei viali alberati: “Non appena in Italia si vede una strada alberata si può star certi che è stata opera di qualche Progetto Francese”, aveva detto Stendhal nelle Promenades dans Rome. Il platano viene usato per la più preziosa delle passeggiate, quella sul Gianicolo, e da allora è diffusissimo, anche per la sua resistenza all’inquinamento atmosferico: la sua corteccia si rinnova continuamente, staccandosi a grosse placche, e le sue foglie pentalobate e larghe si lasciano lavare facilmente dalla pioggia.

Ma ecco che a partire dalla seconda metà degli anni Trenta il platano non è più l’albero più diffuso di Roma: lo soppianta il pino, che il regime fascista piantuma nelle vecchie e nelle nuove strade in quanto essenza tipicamente italica, e di cui lo stesso Mussolini pianta un esemplare, il primo della Via Imperiale.

 

Delle decine di migliaia di alberi che vivono a Roma, tra specie mediterranee, quelle esotiche e quelle esotiche ma ormai naturalizzate come la palma, prendiamo quelle di cui De Santis ci dà le descrizioni più puntuali e belle.

C’è il cipresso, con “la corteccia grigio-bruna lungamente fissurata”, il cui duro legno è usato per fabbricare mobili e in cui frutti, chiamati coccole, profumano d’incenso. C’è il fico, che non è usato per arredare strade e viali, ma cresce dove preferisce, soprattutto sui muri per trattenere le sostanze nutritive della calce. C’è l’albizzia julibrissin, con “la chioma molto espansa ad ombrello e setose fioriture”. C’è l’alloro, il cui frutto è costituito da drupe (cioè frutti che non si aprono spontaneamente per far uscire il nocciolo, come la pesca) che maturano in ottobre facendosi nere, con le foglie sempreverdi, coriacee, disposte in modo alterno sul ramo, che profumano se schiacciate. C’è il bagolaro, dall’andamento dritto “con numerosi rami rivolti verso l’alto pronti a formare un andamento rotondeggiante”. C’è il leccio che ha le foglie con forme diverse a seconda dell’età: prima dentate e spinose, poi sempre più strette e con i bordi più lisci; si tratta del fogliame più scuro di Roma, così compatto che all’interno passano i raggi del sole. C’è il ligustro, che nel natio Giappone è pianta ornamentale e a cui il freddo da noi fa cadere le foglie. C’è il pruno, che fra Febbraio e Marzo fa sbocciare i fiori prima di far spuntare le foglie, salvando dallo squallore alcune vie romane. C’è la Robinia, con le foglie formate a loro volta da foglioline picciolate, con  i fiori profumatissimi delizia delle api. C’è la roverella, precisamente “quercia pubescens”, cioè con la parte inferiore delle foglie e del picciolo pelosa. C’è il siliquastro, per molti “l’albero di Giuda”, di cui il direttore dei giardini pubblici di Roma a fine Ottocento descrive “la bella e precoce fioritura, eccitamento allo spirito di vandalismo dei ragazzi”. E infine ci sono le foglie di tiglio, sopra verdi scuro e sotto bianco-argentee, che “in luglio e agosto brillano al sole quando sono mosse dal vento”.

 

Ascoltate infine cosa dice Dick Davis nel suo saggio On Not Translating Hafez:

“Un altro esempio di come la retorica sia concepita diversamente in Persiano e in Inglese è la metafora mista. Riferirsi ad una persona come un “cipresso che cammina” (sarv-e ravan) è semplicemente assurdo in Inglese, e non implica niente della delicatezza, del fascino, e della meraviglia che accompagnano la frase in Persiano. Nella metafora inglese c’è una letteralità che fa una forte resistenza alla metafora mista e la etichetta come di cattivo gusto. La metafora mista del tipo “cipresso che cammina” è invece apprezzata in Persiano. […]

“La poesia persiana è piena di parole che esprimono quest’estetica della meraviglia e dello stupore. Ciò che è inaspettato, innaturale, miracoloso, ciò che provoca nell’osservatore meraviglia perplessa o sopraffatta è di per sé considerato poetico. Persino quando si descrivono fenomeni perfettamente naturali – il verde della primavera, per esempio – si tende a descriverli nell’orizzonte espressivo di quest’estetica, dando per inteso che il loro splendore li elevi al di sopra dell’atteso e del credibile. Questa idealizzazione della realtà e la chiamata in causa di emozioni come la meraviglia e la sorpresa, le quali sono viste come una reazione davanti ad una perfezione inedita, sono anch’esse relativamente rare nella tradizione poetica inglese, la quale di solito tende al preciso ed al caratteristico, e che cerca di ottenere il lampo di riconoscimento del lettore più che la stupita meraviglia davanti ad un ideale lontano dall’esperienza quotidiana.”

 

Per dirvi: una volta saputo tutto ciò che c’è da sapere, niente vi impedisce di andare a far camminare i cipressi.

(Costanza Galanti)

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).