Quando mi capita di andare in bici lungo il Naviglio grande, da Milano verso Vigevano, non posso mai fare a meno di notare un enorme cartellone che pubblicizza un motel (per rendere la storia più bella vorrei fosse il Gugliemotel, che pure esiste lì nei paraggi, ma non coincide con quello di questa storia). È scritto: «Motel XXX. TUTTO IL CONFORT E L’IGIENE CHE VUOI A SOLI 29.90». C’è del genio in questo slogan, pur non avendo mai potuto provare l’effettiva igiene del luogo un paio di prove mi testimoniano l’efficacia dello slogan: ci sono diverse prostitute sprofondate su sedie di plastica da giardino appena fuori; i ciclisti di mia conoscenza che hanno fatto quella strada ricordano ridendo «tutto il confort e l’igiene che vuoi a soli…». A volte non ricordano il prezzo, possono non ricordare il nome del motel, ma le parole sì. Vuol dire che sono efficaci. A prima vista perché lasciano l’impressione che il posto sia economico, pure a chi non ne ricorda il prezzo. Ma a pensarci meglio restano impresse proprio perché quello che il motel vende non è il prezzo basso. E molto probabilmente neppure il confort. La parola chiave è «igiene». La gente paga quello.
Qualche mese fa pensavo di scrivere un libro sui centri-massaggio e ho letto numerosi forum su internet in cui se ne parla. In uno di questi, in particolare, per centinaia di messaggi si usava un termine che mi ha molto affascinato: «l’intrigo». Cos’è l’intrigo? Chiedeva un novizio del forum agli esperti che consigliavano nuovi saloni e nuove ragazze; e come per tutte le parole astratte, dozzine di risposte assieme non riuscivano a definirlo. L’intrigo è un po’ tutto, sostanzialmente è quella particolare condizione di intesa tra la massaggiatrice e il massaggiato per cui il semplice trattamento massaggio può trasformarsi in qualche altra cosa (sui forum di massaggi o di prostitute hanno tutto un sistema, che presumono cifrato e a prova di indagine, per definire i servizi – lato B, dietro le quinte, falegnameria – ma viene usato in contesti intelligibili così facilmente che viene il sospetto sia più un gioco puerile che un’esigenza di segretezza). Al di là dei dubbi sul fatto che l’intrigo stia tutto nei soldi che uno è disposto a spendere e nel timore che le donne e i responsabili abbiano di essere beccati nel fare qualcosa di illegale, le varie spiegazioni concordano su un punto fondamentale per far sì che l’intrigo abbia inizio: l’igiene. Se il luogo non odora di pulito senza scadere nell’ospedaliero, se la ragazza non ha un buon profumo, se il lenzuolo di carta monouso non è stato cambiato, non può scattare l’intrigo.
Sebbene le due storie abbiano affinità, le uso per arrivare al punto: e cioè che perfino nel contatto con lo sconosciuto, quello che atavicamente e potenzialmente è il più pericoloso, misterioso, sporco, e latore delle peggiore malattie, il martellamento dell’informazione e le tante piccole mode, manie e bugie che generano il piccolo sapere delle nostre conversazioni hanno reso la cura e l’attenzione a se stessi uno dei bisogni primari.
Secondo i dati Istat, tra il 2008 e il 2013 hanno risentito della crisi, tra gli altri, questi settori: mezzi di trasporto (-41,4%), apparecchiature elettriche (-37,7%), prodotti in legno e carta stampata (-28,7%), minerali da cava e miniere (-26,2%), industrie tessili, abbigliamento e pelle (-22,5%), riparazione/installazione di macchine e apparecchiature (-22,1%), energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata (-17,7%), computer e prodotti di elettronica e ottica (-10,5%), alimentari, bevande e tabacco (-5,9%). L’unico settore in attivo sono i prodotti farmaceutici: +2,1%. Per la gioia delle diaboliche case farmaceutiche e della casta dei farmacisti, direbbe la vulgata.
Gli italiani sono più malati che nel 2008, dunque? Più probabilmente, sembra dal dato almeno, gli italiani sentono la salute come un bene e una necessità, l’unica addirittura, non derogabile fino a quando passerà la nottata. Così le farmacie fanno buoni affari e vivono molto più serene di altri nel loro mondo ovattato in cui non esiste vera concorrenza grazie al regolamento da corporazioni medievali che ne tutela il numero. Intanto, per parlare di ciò che è più sotto agli occhi, in questi sei anni presi a riferimento sono cambiate un po’ e vendono più prodotti che hanno a che fare con la medicina in maniera laterale: non farmaci veri e propri ma bagnoschiuma medici, prodotti per bambini intelligenti (mica plasticacce!), prodotti per fastidi vari che prima di essere riconosciuti degni di un medicinale apposito sembrava perfino non esistessero. (So che è una semplificazione pericolosa, ma contiene del vero. Pensiamo a quanti avevano sentito il bisogno di una crema per talloni screpolati prima che esistesse una crema per talloni screpolati. Eppure c’è chi rinuncia a un cibo di marca o a una telefonata per tale crema). Così guadagnano, si rinnovano, si allargano, installano distributori automatici all’esterno.
Qualche mese fa, di notte, uno dei mie figli ha avuto la febbre alta. Niente di grave, ma non avevamo tachipirina in casa. Sono andato al distributore automatico più vicino casa con la certezza matematica che avrei trovato come curarlo. Avrei trovato, tuttalpiù, solo tachipirina 500 invece della 250 ma avrei potuto separare la dose manualmente. Mi ero sentito autorizzato a scendere di casa in pigiama e ciabatte, e solo il cappotto a coprirmi tant’era la convinzione. Invece niente. C’erano preservativi, anelli del piacere, c’erano prodotti per la tosse, test di gravidanza, test di ovulazione, supposte per stitici, supposte per diarroici, c’era perfino un’edizione del kamasutra edita da Feltrinelli, ma tachipirina niente. Sono tornato a casa, ho preso l’automobile e sono andato a un altro distributore, più grande. Aveva prodotti simili all’altro e in più c’erano prodotti per la tosse secca, c’erano integratori vitaminici, c’era uno sciroppo a base di colla di lumaca sempre per la tosse ma quella grassa, c’era un prodotto contro la nausea (credo da prendere subito dopo quello a base di lumaca), ma tachipirina o affini nulla. Sono andato alla farmacia notturna e l’ho avuta subito. Era solo una tachipirina e per una volta non ho dovuto recitare la scenetta della ricetta medica che non avevo e che giuravo di portare il giorno dopo. (La recito quando ho bisogno dei prodotti che i miei figli prendono via aerosol, ambiti anche dai più esaltati ciclisti della domenica.)
La nascita del primo distributore automatico viene fatta risalire ad Erone di Alessandria che inventò un congegno in grado di rilasciare acqua benedetta, all’interno di un tempio greco, in cambio dell’elargizione di un obolo in moneta. Il sistema venne poi ripreso negli Stati Uniti, a fine Ottocento, con i primi distributori automatici moderni il cui scopo fondamentale era, è tuttora, molto semplice: offrire prodotti a ogni ora risparmiando sul costo del lavoro. (In Italia, per via di una legislazione bizantina, i distributori automatici sono sottoposti a una tassazione minore rispetto ai prodotti venduti de visu proprio perché non si avvalgono di manodopera. Così si spiegano gli squallidi negozi di soli distributori che ultimamente proliferano.) In breve, però, i distributori automatici – come i supermercati e più di recente gli outlet – hanno risolto anche un’altra questione cruciale del rapporto consumatore-negoziante: la vergogna. Quella di non saper rinunciare a comprare qualcosa quando ciò che si cerca non è disponibile, quella di essere indecisi, o anche la stessa vergogna che comporta il solo richiedere un determinato oggetto.
Il più semplice dei casi è il preservativo. C’è un pezzo di quando Grillo faceva ancora ridere in cui vengono raccontate le maniere buffe e ridicole attraverso cui le persone richiedevano i preservativi in farmacia: «me ne dia una scatola, ma me ne tolga qualcuno. Sa com’è. Sto cercando di smettere». Come fossero sigarette. O anche il fatto che una ragazza non può comprare preservativi, o che una coppia non può andare assieme a comprare preservativi, cretinate così.
Oggi quella vergogna può essere facilmente aggirabile con i distributori. Ma i distributori di medicine ricchi, larghi e colorati che campeggiano all’esterno di sempre più farmacie italiane – questo famoso unico settore che sfrutta la crisi come opportunità – vendono tutto tranne medicinali. Qualche giorno dopo l’episodio citato ho fatto un giro in vespa (ok, lo ammetto, non è vero, sono andato in bici, ma in questo paese fare un giro in vespa per raccontare qualcosa ti dà un tono pazzesco), e ho scoperto di non essere stato sfortunato. Il primo scopo dei distributori automatici delle farmacie non è vendere prodotti che possono servire a ogni ora ma è vendere cose che la gente si vergogna di chiedere al bancone. (E non a caso le stesse confezioni hanno tutto ciò che è utile scritto sulla stessa faccia, non serve girarle). In una farmacia ho perfino trovato dei vibratori esposti – certo avevano una confezione «medica» – ma erano chiaramente vibratori. E un sexy shop che li esponesse con tale disinvoltura si troverebbe la finanza e qualche madre incazzata a protestare davanti perché nessuno ha pensato allo scandalo suscitato nei bambini.
Tutto questo, però, vuol dire anche che nell’ormai trito dato preso in esame anche gli anellini del piacere o gli sciroppi di lumaca fanno parte di quel segno più. Contano come medicine. E forse lo sono. Non solo perché il sesso come cura è ormai un consiglio triviale che esibisce pure chi non scopa mai ma perché la salute è molto spesso sfumata nello star bene, e per lo star bene una malattia o un raffreddore sono esattamente lo stesso. Anzi. Perfino una malattia tenuta sotto controllo è più accettabile dell’influenza.
Esiste un altro dato che lo conferma, più oggettivo di queste mie impressioni. Diverse ricerche, su cui a lungo certi programmi tv hanno indugiato, dicono che con la crisi gli italiani hanno ridotto le spese mediche: vuol dire che esiste una particolare caratteristica dei medicinali che li rendono perfino diversi dalle spese mediche: si risparmia sul dermatologo o sull’otorinolaringoiatra, ma non sulle pomate dermatologiche; si risparmia su telefoni e computer – per quanto la vita quotidiana ci faccia apparire il contrario – ma non sulle pastiglie per la tosse; ci si mette in lista d’attesa all’ospedale per una visita odontoiatrica che può essere disponibile tra più di un anno ma non sui mal di testa delle pubblicità, su quel senso di spossatezza che fa aver bisogno di multivitaminici, sui prodotti per le improvvise diarree che temo essere epidemiche e nascoste se devo credere alla quantità di pubblicità di prodotti per contrastarle all’occorrenza. (È una delle ultime armi che hanno a disposizione quelli che portano ovunque con sé un arsenale di medicine a disposizione.)
Ciò a cui gli italiani non rinunciano sono quindi certamente i medicinali ma soprattutto i prodotti da banco, quelli vendibili anche nelle parafarmacie, quelli per la bellezza, per l’apparire, per i denti sani. E se per certi versi è un dato addirittura positivo – per quanta rabbia possa farci dopotutto è vero che «prevenire è meglio che curare» – dall’altra ci racconta un’attenzione che da anni si fa sempre più marcata non solo verso l’aspetto – che sarebbe noioso e moralista notare – ma verso la cura. Perfino la cura per la cura. I talloni. I denti. I capelli. I nei. La cervicale. Le caviglie. Ogni piccola parte o imperfezione ha il suo specifico. Questo passaggio da salute a star bene comporta che la pur lieve alterazione suscita sgomento (sui social network si possono leggere commenti di persone indignate e spaventate dalla tosse dei propri bambini come neanche per le fosse comuni in Bosnia). D’altra parte cos’è la felicità se non l’assenza di fastidi? I distributori sono un inno alla vita.
Questo testo è tratto dal numero 63, luglio – settembre 2013, di Nuovi Argomenti.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).