Quando la vidi, mi chiesi se non fosse il delirio della mia immaginazione. Ero seduto a leggere il giornale sul sagrato di Santa Maria dei Monti, mi stropicciavo gli occhi, distoglievo lo sguardo, controllavo di nuovo e mi pareva davvero impossibile. Ma non c’era dubbio. Era lei. Veniva avanti con un’aria svagata entusiasta curiosa. Un grande zaino sulle spalle, sbucava dal buio di via Leonina e si guardava intorno ridendo. Sembrava che stesse parlando da sola, che si stesse divertendo per quel che vedeva e forse a un tratto si chiese cosa fosse quel tubo di plastica che al tempo era il raccoglitore di batterie usate accanto alla cassa del Bar Licata. Restò immobile lì qualche secondo, poi subito infilò di nuovo le mani sotto le spalline del grande zaino, voltò all’angolo di via dei Serpenti e se ne andò a sedere sul bordo della fontana. Era il settembre del 1997. Una di quelle giornate in cui non si capisce come sia possibile vivere lontano da Roma. L’aria frizzante e il sole ancora estivo. Il cielo di un colore denso e la luce che si schianta sulle mura screpolate trasformandole in una materia morbida che sembra ci si possa infilare un dito dentro. Traversai la strada e le andai incontro e quando mi vide aprì le braccia e disse “No, non ci posso credere. Tu qui? Proprio ora? No, assurdo. Vedi il caso? Guarda. Guarda qui. Lo sai che sono appena arrivata? Adesso, dal treno, la metro. Questo è il mio primo giorno in città”.
Veniva da Modena, si chiamava Vera e io l’avevo conosciuta solo un mese prima su un’isola greca sperduta e disabitata. Ero sbarcato, un mattino, su questa spiaggia scura che aveva il nome dell’acqua, Nerò, mi ero guardato attorno e lei era emersa da una tenda saltellando insieme al suo ragazzo. Sembravano due animali selvaggi di razze distinte. Lei era formosa e chiara, lui magrolino e scurissimo. Lei aveva capelli che erano trecce rasta nel cielo dell’Egeo e lui capelli corti arruffati e zeppi di sale. Si muovevano sulla sabbia come danzando, raccoglievano cose, si buttavano in mare, tornavano nella loro tenda eppoi ne uscivano come in un’esplosione per buttarsi nella valle dietro la spiaggia a cercare la fonte per cui quel luogo era famoso fra i campeggiatori. Ero sicuro che fossero stranieri. Poi li sentii parlare, mi avvicinai e cominciammo dall’inizio. Lui, Lorenzo, era romano, ma viveva lontano dal centro dove la sua famiglia aveva radici antiche. I genitori, perse le origini, avevano preferito perdere anche Roma e adesso erano spesso in Francia. Così, viaggiava parecchio, Lorenzo. L’anno prima era salito a Modena per la festa dell’Unità e, sfrontato come un romano puro, era andato incontro alla ragazza bionda e le aveva detto “sì sì, ridi ridi, tanto starai sempre con me”. Amore a prima vista. In quell’agosto in cui ci conoscemmo, lei aveva deciso di trasferirsi in città.
Adesso era lì, Vera, sul bordo della fontana, si guardava intorno con gli occhi scintillanti, arrotava le erre, scivolava sulle esse e diceva “mamma che bella questa città, che sole, che aria”. Non riusciva a formulare un pensiero più complesso. Roma le sembrava qualcosa di esotico e parzialmente incomprensibile. Non sapeva cosa aspettarsi, era confusa, ripeteva che si sentiva strana, come se ci fosse qualcosa che doveva arrivare ma non sapeva ancora cosa, poi si scosse da quelle fantasticherie e, inconfondibile, da via dei Serpenti si fece largo il motore della vespa su cui aveva attraversato le strade di Grecia. Lorenzo arrivò frenetico, elettrico, pieno di energie, ridendo come un pazzo, blaterando cose insensate, folle perché lei aveva finalmente mantenuto la promessa. Si abbracciavano, si baciavano, scherzavano, si dimenavano in un saluto folle, poi tornarono a sedersi con Vera che ripeteva “mo guarda, mo guarda che scemo questo” e intanto aveva le lacrime agli occhi. Lorenzo invece aveva già qualche nuova idea. Non credo fosse così felice che ci fossi anch’io. Mi fece sorrisi di cortesia, mi strinse forte la mano. Parlammo poco eppoi io mi alzai per salutarli, e mentre ci dicevamo che sarebbe stato bello rivedersi in giro, mormorai a mezza bocca che la settimana dopo ci sarebbe stata una festa, lì in piazza, e che se volevano veramente battezzare la loro romanità avrebbero fatto bene a venire. Lui saltò su: “che festa?”. Accennai all’Ottobrata monticiana e lei sgranò gli occhi: “Ottobrata? Cos’è un’ottobrata?” “Anvedi questa” gridava Lorenzo “Mica lo sapete voi che è ‘n’ottobbrata, mica ce l’avete ottobbre a Modena, mica c’è er sole lì, mica c’è ‘sto tempo, solo lambruschino e tortellino, ma va va”. Ripeteva ingiurie e sfotto’ rotolandosi sui gradini della fontana. Smise di sghignazzare solo per spiegarle che a ottobre il tempo a Roma era bellissimo e quelle appunto erano le ottobrate romane. Quando ne ebbe abbastanza di deriderla lo fermai: “Non è solo il tempo” dissi “Una volta si festeggiava la fine della vendemmia, e si andava fuori porta, si beveva e mangiava e ballava e quella era la più romana delle feste. Ne è rimasta solo una, ormai. Qui a Monti” “Ma che stai a di’?” fece lui mettendosi in piedi come un manichino snodabile impazzito “Che è sta festa? Voglio proprio vede’”. “È l’ultima festa di Roma. Venite qui, venerdì prossimo, qui in piazzetta”.
Me li ero dimenticati, la settimana dopo, quando li vidi sbucare fra la folla. La piazzetta straripava. Dal palco suonavano canzoni romanesche. I tavolacci di legno erano zeppi di gente che mangiava e beveva. All’angolo, nei locali dell’Associazione, i vecchi monticiani servivano salsicce, piatti di amatriciana, trippa, pasta e fagioli. Enormi botti zampillavano di Romanella. Lorenzo sembrava impazzito. “Allora mica dicevi stronzate” ripeteva ridendo, rimbalzando, correndo ovunque potesse. Vera scuoteva il capo e lui già era via a riempire una bottiglia, arraffare bicchieri, ordinare salsicce e chiedere in giro per trovar posto. Intanto, sulla via, motorini si fermavano come ipnotizzati, automobili tentavano d’infilarsi contromano su via Baccina per fermarsi e vedere cosa stesse succedendo, il vigile non sapeva come controllare la situazione e tutto era una rocambolesca festa di strada come nelle strade di Roma non se ne vedono più. Chi ha partecipato alle ottobrate di quegli anni sa di cosa parlo. C’era qualcosa di unico e questa unicità consisteva tutta in una sproporzione. Perché allora Monti era un rione molto diverso da quello che sarebbe venuto: di sera, in giro, la gente era pochissima. La piazzetta era stata pedonalizzata da una manciata di anni. All’angolo su via del Boschetto c’era il bar di Alvise, al centro aveva appena aperto un bar di rugbysti, e tra i due bar c’erano solo Roberto e suo fratello che imprecavano, sbeffeggiavano, dominavano da quel trono che era diventata la loro edicola. Sul fianco della piazza invece c’era il Faraone, l’unico che è sopravvissuto negli anni, eppoi c’era Tita, la verduraia, “la più romana de Roma”. Di giorno ci si fermava ai bar o a chiacchierare all’edicola o a comprare insalata e il viavai era continuo. Di sera, però, non c’era nessuno. Il silenzio assoluto percorreva le vie mentre i piccoli negozi che in quegli anni cominciarono a fiorire ovunque, di notte erano rigorosamente chiusi. Così, la sproporzione stava tutta in quei giorni trionfali, in quella festa che riempiva la piazza di vecchi e bambini, una festa improvvisa e inattesa e chi passava su via dei Serpenti per caso, restava abbagliato.
La sproporzione però non si limitava a questa differenza esaltante fra le notti silenziose del rione e i giorni di festa. C’era un’altra sproporzione in cui si poteva penetrare piano piano, in punta di piedi, guardandosi attorno con rispetto. Diventava visibile nei saluti fraterni, negli abbracci, nelle lacrime di commozione che univano vecchi amici, vicini che si erano persi, antichi monticiani divisi dalla terribile diaspora romana di famiglie cacciate, sfrattate, allontanate dalle necessità, famiglie che ora si ritrovavano. “Ao’ ma li mortacci tua” “Anvedi sto fijo de na mignotta come sta!” “Ma guarda che bello” “Ma porc… ma ‘nte sei fatto vede più”. Occhi umidi e pacche sulle spalle, cenni minacciosi e camerateschi, gli antichi padroni del rione si ritrovavano tutti in piazza mentre un improbabile figuro in giacca e cravatta si lanciava in gorgheggi: “er barcarolo va controcorente, e quanno canta l’eco s’arisente…”.
Lorenzo e Vera lo capirono subito. Capirono che c’era qualcosa di diverso da tutte le altre feste. Qualcosa che non aveva a che fare semplicemente con le canzoni, il liscio, i balli, la riffa, le salsicce e la Romanella. Per Lorenzo quel tipo di ritorno era nel sangue della famiglia, in certi abbracci in cui aveva visto stringersi suo padre e gli antichi amici fin da bambino. Per Vera era qualcosa che aveva a che fare con Roma e una Roma che scompariva e si ritrovava. E siccome Vera studiava architettura e studiava le città e da anni si arrovellava sul centro, sulle piazze, sulla dislocazione delle piazze nelle nuove periferie urbane, tutto quello era come un’illuminazione. Insieme ridevano, brindavano, mangiavano e ballavano. E intanto avevano capito tutto. Alla fine del secondo giorno di festa mi dissero: “A Matte’ ma questa non è l’ultima festa di Roma! Questo è ancora di più. È la festa di chi torna. È la festa del ritorno”.
La festa del ritorno. Negli anni seguenti, Vera e Lorenzo non se ne persero una. Arrivavano con carrettate di amici. Li portavano lì fin dalle prime ore. Occupavano interi tavolacci e si godevano ogni cosa. Festeggiavano fino all’ultimo, fino alle ultime briciole domenicali, anche se l’anno aveva portato freddo, pioggia, umido. Erano sempre lì. E se pioveva di brutto organizzavano cene in case dei dintorni o ritrovi in stanze affittate da amici e compagni di studio. Avevano acquistato una particolare forma di cittadinanza a Monti: non erano nati qui e non vivevano qui ma qui tornavano anche loro, sempre, e il momento in cui tornavano trionfalmente era in quei tre giorni di festa, quando la vendemmia era passata, l’autunno lasciava presagire l’inverno, il caldo si stava spegnendo e Roma diventava definitivamente eterna. Tornavano sempre. E anche se Vera aveva abbandonato i capelli ribelli e Lorenzo era meno magrolino e non era più il fringuello scalpitante che usciva a razzo dalla tenda della spiaggia greca, si portavano appresso comunque una tale quantità di energia che ogni volta mi chiedevo come facessero.
Così fu molto strano quando, nel quinto anno del nuovo millennio, all’apertura dell’ottobrata annaspai per la piazza su e giù senza trovarli. Mi pareva impossibile. Cercai qualcuno dei loro amici per chiedere notizie ma non trovai nessuno. A sera tarda inviai sui loro telefoni un messaggio e non ebbi risposta. Il giorno dopo, di sera, fu lo stesso. Scrissi di nuovo. E di nuovo senza esito. La domenica mattina mi chiamò Vera da Modena. Mi raccontò il motivo che li aveva costretti a lasciare Roma. Non potevo credere alle mie orecchie. Vera parlava con l’allegria e la serenità di chi sa molte cose in più rispetto ai tempi in cui non aveva pensieri. Io non dicevo nulla e fingevo tranquillità. Mi assicurò che quando le cose sarebbero andate definitivamente bene avrei potuto lasciare la capitale e salire su in provincia. Mi avrebbero festeggiato a dovere. Nel frattempo dovevo brindare, in piazzetta, quella sera, alla loro salute e specialmente alla sua.
Negli anni che sono venuti dopo, in tutte le ottobrate che Monti ha saltato, ricostruito, riplasmato, ho sempre brindato a loro. Sono riusciti in cose che a pochi riescono, hanno avuto fortuna e anche una fede incrollabile. Ogni volta che ci sentiamo mi chiedono dell’Ottobrata e di come sia cambiata e ogni volta cerco di non entrare in particolari perché spero sempre di rivederli comparire all’improvviso, magari dietro la fontana, una mano sul passeggino, l’altra su una bottiglia di Romanella. Ma non sono mai tornati. Forse un giorno lo faranno? Tenteranno di affrontare il più difficile dei ritorni? Non so. Più volte li ho immaginati a ripensare l’Ottobrata con la consapevolezza di quella sensazione che si ha da bambini, quando siamo lontani da casa e desideriamo la nostra stanza, il tavolo, il letto, ma poi quando la porta di casa si apre, un vuoto incolmabile tracima: corriamo in camera, accendiamo una luce, ci muoviamo tra il letto e la scrivania, cerchiamo qualcosa, cerchiamo e cerchiamo e continuiamo a cercare – invano perché quel desiderio è destinato a rimanere inestinguibile. Penso che abbiano capito quel che sapeva Odisseo, testardo nella sua volontà di rivedere la casa, a ogni costo. Ossia che il ritorno, a pieno titolo, non è mai possibile. E dunque perché il ritorno sia quel che è, ossia un nuovo viaggio e una nuova conquista, c’è bisogno di aspettare. Anche molti anni. Magari meno dei venti che toccarono a Odisseo ma quanti bastano a trovare la forza di rifiutare tutte le promesse malevole che prospettano innaturali successi, come la più ingannevole, quella di Calipso: la promessa di immortalità. È per questo che poi diventa inevitabile festeggiare davvero il ritorno, qualunque esso sia. Il vino allora scorrerà a fiumi, gli abbracci si moltiplicheranno insaziabili e scopriremo finalmente cosa siamo diventati. Mi sembra di vederli, Vera e Lorenzo. Può darsi che fra qualche tempo sarà la volta buona.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).