Estate. Betty Draper.
Le gambe incrociate escono dal vestito a fiori bianchi e gialli. Si accende una sigaretta al terzo tentativo e rimane seduta sulla sedia di paglia sotto la magnolia. Perle e occhiali da diva appoggiati ai ciuffi biondi. Guarda in alto, come sempre, e anche da sola non abbandona il suo sguardo supponente, fuma come ha imparato dalla madre, la sigaretta tra indice e medio il più distante possibile da lei. Porta sempre questi vestiti a fiori e quando si muove sembra camminare in passerella, l’ha fatto per lavoro e non ha mai smesso. La gestualità è calibrata ma fluida. È primaverile senza essere bucolica, illuminata, contorni rafaelleschi. Hai paura ad avvicinarti, a spezzarla, è ideale più che reale. Quando si volta non guarda te, ma oltre te. Non sa sorridere, ha le unghie appuntite, le scarpe lucide, si sente più a suo agio su una rivista patinata a pubblicizzare Coca-Cola che non a mettere i figli a letto. È moglie e madre perché non può essere altrimenti. Se il sogno americano avesse un volto sarebbe il suo, lei in piedi davanti alla casetta bianca dei sobborghi, la giardinetta e il labrador. È la donna da delitto perfetto, da presentare ai colleghi. Hitchcock se ne sarebbe innamorato. Quel neo quasi invisibile sopra le labbra.
Autunno. Rachel Menken.
Cambia pettinatura ogni giorno perché può, è all’apice della piramide sociale, mette la frangia scura di lato per rompere le simmetrie. È ruvida ma sorride. Le sopracciglia marcate si appoggiano agli occhi lucidi, precisi, autoritari, appuntiti. Ti guarda seduta dietro la sua scrivania scura e pesante con disinteresse beffardo ma inquisitivo, appoggia la penna dall’aria preziosa per sostituirla con una sigaretta a cui attacca il bocchino di avorio. Pile di documenti vengono schiacciati da un massiccio fermacarte argentato. In quella stanza ogni oggetto è pregiato, lussuoso ma pratico, frutto del lavoro e non della rendita. Ricerca un’aristocrazia mancata nei vestiti leopardati, piumati, porpora. Emancipata, indipendente, inaffrontabile, intorno si è scavata un fossato, è di una claustralità seducente, non nasconde di non poter essere tua. Lei può al contrario possederti, ma non sembra averne intenzione, giocherellare non è nella sua agenda, passato e futuro sopra il presente. Sogni le sue gambe nude, il suo corpo senza gioielli. Vorresti poter rompere le barriere di decoro e scompigliarle i capelli corvini, vederla indecisa, vederla sbagliare per una volta. Il modo in cui fuma e aspetta che tu possa contraddirti.
Inverno. Suzanne Farrell.
Quando Suzanne cammina sul prato, la mattina, non piega l’erba con i piedi nudi, o così sembra. Ogni passo è come un saltello da palcoscenico, ma genuino, senza premeditazione, senza riflettori. Il naso appuntito, gli occhi svelti neri da insetto, appare come se potesse mantenersi acerba per sempre. Sfoglia una rivista appoggiata al bancone disordinato della cucina e si sfiora i capelli bruni mentre aspetta che fuori smetta di piovere. Non sta leggendo, ma si è abituata alla ritmicità del suo gesto, come il tichettio di un metronomo in cui si è assorta, immobilizzata. È la donna a cui dedicare una poesia, regalare un libro, con cui fare colazione a letto. Con lei il resto del mondo si fa sordo e lontano, le barriere spaziotemporali vengono superate, come vivere in una sfera di vetro con la neve finta, in un carillon sospeso. Si veste di bianco Suzanne, di verde, di pastelli, di fiori di campo, i gioielli sono troppo freddi per lei. Quando ti vede ha solo con due espressioni, pensierosa o sorridente, nessuna zona grigia. Torna ad aspettare la fine del temporale come fosse il suo mestiere. È la ninfa dei boschi con cui scappare via. Fare l’amore fino all’alba.
Primavera. Megan Draper.
Il vestito albicocca le arriva in alto fino a circondare il collo. Neanche la spilla con la perla bordata d’oro riesce ad allontanare lo sguardo dal generoso rigonfiamento dei seni. Il resto del corpo è però asciutto, come se l’appetito carnale dovesse concentrarsi solo in un punto. I capelli neri cadono sulla testa come una parrucca da nouvelle vague, appoggiati al cranio spigoloso. Vera protagonista rimane la dentatura sporgente alla quale cercano di rubare la scena gli occhi chiari, col trucco incisivo da regina egizia. Lo sguardo sognante da universitaria vivace, l’accondiscendenza sincera, la festività, il brio spruzzati da ogni poro. Ti guarda mentre si abbottona il cappotto scozzese vicino all’ingresso, pronta ad uscire nella sua crociata quotidiana di colpire tutti con la sua spensieratezza. È decorata di curiosità disinvolta, di inesperienza, costantemente slanciata, dinamica, vistosa, generosa di attenzioni, pandemica. Convivi con la sorpresa dell’essere riuscito a sedurla, quasi come si fosse trattato di inganno o costrizione, dato l’apparente candore. Eppure non puoi che vantartene. Farle un regalo e vederla applaudire.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).