Pasolini abita ancora in questa Roma qui?

da | Set 30, 2013 | Senza categoria

Roma è ancora un terreno pasoliniano con cui gli scrittori si devono confrontare? L’immaginario di Pasolini è sempre una risorsa o è diventata una fastidiosa tassa di soggiorno? Il vitalismo torbido e disperato si è trasformato in un luogo comune da cui è faticoso uscire? Dopo la morte di Vincenzo Cerami la domanda sul futuro dell’eredità pasoliniana è lecita: ci sono ancora testamenti da aprire? L’allievo, divenuto sceneggiatore di successo, non è stato mai adottato come maestro dai nuovi scrittori che gli hanno preferito il più moderno Siti. L’acronimo PPP è ormai un algoritmo logoro ma è sufficiente per mandare tutto al macero? Sotto i vari tag che connotano il mondo pasoliniano c’è altra vita? Alla domanda hanno risposto cinque scrittori che quell’immaginario hanno vissuto, raccolto, lambito e fuggito.

#Maudit

Non si può non iniziare da Antonio Veneziani (1949), piacentino di nascita ma romano d’adozione, uno dei grandi poeti della scuola romana degli anni settanta, da tempo ritiratosi in provincia. Scrittore underground e poeta dei bassifondi della Roma gaia e clandestina, esplicito e osceno autore di “Brown sugar”, libro culto in versi sull’eroina (Castelvecchi) e di “Fototessere del delirio urbano” (Hacca), sodale di Dario Bellezza nella caccia erotica nella città Eterna. Di quella capitale a vocazione pasoliniana era entusiasta come racconta in una intervista pubblicata da Coniglio nel 2008: “Si andava alle feste dove trovavi da Bianca Jagger all’apprendista parrucchiera, da Bellezza al marchettaro, da Mario Schifano al verduraio”. Erano tempi in cui poteva pure capitare che Alberto Moravia chiamato da Veneziani venisse in commissariato a garantire per lui, Mario Mieli e Bellezza, fattissimi e truccatissimi, e per questo trascinati davanti a un maresciallo.

E oggi? Veneziani corregge il tiro: “Il territorio pasoliniano va attraversato per altri motivi e non solo per gli scrittori romani. Il pasolinismo è stato un momento indispensabile e imprescindibile, ma per fortuna è successo molto altro. Ci sono altri scrittori come Renzo Paris che parlano di Roma attraverso la propria vita ma sono diversi, senza essere soggiogati da Pasolini. Ci sono scrittori non romani che vivono a Roma ma è come se non ci vivessero, oppure vivono a Roma come se fossero a Berlino. Il luogo può significare radici ma le radici vanno messe nell’aria”.

Non c’è un rischio di abusare all’infinito del cliché romano? “Niente è vitale e tutto è stanco quando non si è in grado di essere dentro la realtà, come deve essere uno scrittore vero. E’ cambiata Roma e pure il mondo. Però non bisogna fingere che tutto sia cambiato e che tutto sia morto Quanto alla cappa pasoliniana, qualsiasi cosa può essere ingombrante o non esserlo per uno scrittore”.

#Flaneur

Roma ferita aperta potrebbe intitolarsi la biografia di Fernando Acitelli (1957). Scrittore e poeta (suoi i versi celebri della Solitudine dell’ala destra, Einaudi) ha disseminato il suo lirismo funereo elegiaco tipicamente romano in alcuni romanzi senza troppa fortuna, l’ultimo si intitola Sulla strada del padre (Cavallo di Ferro). Chissà che un editor con la frusta non tiri fuori dal cassetto di Acitelli la sua personale “Cognizione del dolore”. Non ha internet “perché voglio partecipare così a un mondo che non c’è più” in compenso è un grande vagabondo della sua Roma natia, con le ormai ex periferie di Tor Pignattara, Borgata Gordiani, l’antico Pigneto: “Hai visto la Grande Bellezza? Ma questi chi so? diceva Gassman! La Roma che puoi dipingere o è quella di Sorrentino, pur con i suoi difetti, oppure è quella intima di un poeta, del flaneur che guarda dentro sé stesso, un dandy che non vuole sembrare tale e non vuole finire su quella deriva da terrazza perché è sulla bocca di tutti e allora si fa vagabondo. In questo senso la Roma pasoliniana è dei vagabondi”.

Ma è ancora pasoliniano il flaneur? “Dovrebbe ma il pasolinismo di oggi è un vintage che non finisce, è ruggine per molti scrittori giovani. Vanno al Pigneto come se andassero al di là delle colonne d’ercole però dentro un film, non c’è alcuna partecipazione o disperazione. Scrivono storie per sentito dire, di terza mano, filtrate, sono i racconti dei non romani. Un po’ come andare a Napoli e avere la presunzione di fare Ermanno Rea.

E il pasolinismo 2.0 attribuito a Siti? “La versione pasoliniana di Siti non fa scandalo, il Contagio è un grande libro, io gli avrei dato lo Strega, le storie sono straordinariamente vere ma si sente l’onda lunga anni 50, la sua sapienza stilistica. Non penso però che ci sia dietro un’esigenza di raccontare quelle storie, c’è una linearità anche programmatica, e poi in Siti non c’è l’idea della morte”.

Che fine ha fatto il maudit? “Bellezza e Veneziani sono figurine dell’album pasoliniane che non sono state acquistate, né rivalutate dagli scrittori. Invettive e licenze o Brown Sugar sono libri che resteranno.Bellezza è un rimosso perché ha fatto la fine di Pasolini il quale parla da solo e per sempre. Veneziani non ha mai avuto un padrone. I giovani hanno paura, la tecnologia vuole mantenerli tutti in forma, portarli oltre i tempi supplementari e così i maledetti non si vedono, se qualcuno lo è non lo dice più”.

L’eterna eredità pasoliniana è un problema di tutta Roma? “Giorgio Montefoschi al Quadraro non c’è mai arrivato, idem Franco Cordelli, la mia non è una battuta polemica ma una questione di spirito. Montefoschi guarda a Moravia ma comunque in generale certe camminate sfascerebbero molte certezze e sorgerebbero problemi. Il romanzo di Roma nord esiste, mettici dentro anche Bigiaretti. Esiste anche Moccia, il delfino non del tutto definito. Zeichen ha scritto di Roma con i disinfettanti, ovvero poesie gelide e senza dolore. Ma Roma sud chi l’ha raccontata? Nessuno. Tu pensa che quando poco prima che morisse Ferruccio Mazzola, un mito per me ex giocatore di periferia, mi sono imbucato all’ospedale per salutarlo, barba rossiccia, volto scavato come Van Gogh. Sui giornali per ricordarlo hanno tirato fuori solo la storia della vecchia denuncia per le anfetamine. Ma che ne sanno di questi posti?”.

Al flaneur Acitelli si può chiedere una previsione. Dove esploderà Roma? “A Cinecittà, nella parte proletaria quella di via Papriria e via Calpurnio Fiamma. Oppure a Torre Spaccata, da via Rizzieri che ha una drammaticità che mi ricorda La donna mancina di Peter Handke”.

#Amore

Yari Selvetella (1976) ha scritto tre libri fortunati sul rapporto tra Roma e la sua feroce cronaca nera, l’ultimo si intitola Roma, l’impero del crimine (Newton Compton). La sua è una Roma fatta di archivi, faldoni, cassetti pieni di documenti. “Sono nato a Casal Bruciato dove vive Pino Pelosi, Pasolini l’ho conosciuto dai racconti di parenti e amici. Si percepiva l’idea che avesse reso importante qualcosa che si riteneva fosse solo degrado e bruttezza.

Di pasolinano come lezione oggi deve rimanere il grande amore per la città. Pasolini non sbaglia mai una via, non è mai superficiale. Invece nel pasolinismo più recente c’è molta grossolanità. L’incontro con Roma deve essere meno piatto e più scientifico: in molti reportage leggo spesso rappresentazioni semplicistiche in cui c’è da una parte una Roma pariolina e super cafonal, dall’altra una Roma in preda alla grigia disperazione: invece è tutto più complesso. Chi te lo racconta un piccolo borghese oggi? nessuno”.

Bastano le carte a restituire Roma? “Roma è una collazione di sogni, da Fellini a Pasolini a Flaiano che ruotano sempre intorno alla dialettica tra provincia e metropoli. Tutti i tentativi di risolleticare quei sogni non sono andati a buon fine. La Grande Bellezza non ha proposto un ulteriore sogno o incubo. Bisogna produrre nuovi standard, nuove filiazioni, perché i vecchi oggi risultano posticci. C’è anche una certa malinconia nel voler riproporre i cliché: il Ruggero di Un sacco bello oggi fa malinconia, non c’è più, lo abbiamo perduto. Ci vuole una visione meno letteraria di luoghi e persone e più autenticità, ci vogliono nuovi Brancati e nuovi Gadda”.

#Ideologia

Per un romano immerso tra la cronaca ce n’è un altro Paolo Sortino (1982) che ha scelto di fuggire, almeno narrativamente, dai luoghi pasoliniani con il suo applaudito esordio Elisabeth (Einaudi 2011), una storia di cronaca ambientata in Austria. “Sono cresciuto a Morena, a ridosso di Ciampino. periferia estrema ma ormai non è più borgata. A Roma l’unica borgata rimasta è la Rustica”. Cosa vuol dire Pasolini per uno scrittore che vuole emergere qui a Roma? “Pasolini è doveroso citarlo quando si sta tra scrittori ma sempre facendo pescando nel Pasolini ideologizzato. I luoghi pasoliniani sono luoghi ormai comuni, e sono cambiati già di per sé. Forse è arrivato il momento di staccarsi da questo afflato retorico, di voltare pagina. Il fare di tutto perché viva Pasolini mi sembra una posa, anche se complessa. All’epoca gli amici polverosi di Pasolini gli facevano notare come si vestiva male e lui rispondeva sì ma piace ai pischelli. Tu potresti trovarlo anche poetico ma se gli andavano appresso si sarebbero allontanati dal Pasolini ideologizzato e si sarebbero ritrovati in discoteca”.

Di recente ci sono stati altri esordienti che hanno percorso sentieri pasoliniani. “Sì, Paola Soriga con Dove finisce Roma (Einaudi) ripropone sistematicamente una storia raffreddata, la resistenza a Centocelle, ma non mi sembra sia andata molto in là. Tommaso Giagni con l’Estraneo (Einaudi) è partito con le stesse intenzioni ma in termini di finzione mi ha dato qualcosa di pregio. Invece chi è riuscito a scrivere un bel libro su Pasolini è Fulvio Abbate, lo ha scritto per i ragazzi (Pier Paolo Pasolini raccontato ai ragazzi, Dalai), con una forma di autocensura e autoregolazione molto equilibrata, riuscendo a fare una selezione del personaggio semplice ed efficace”.

L’autorevolezza di Siti è viziata da un lascito pasoliniano? “Molti vedono Pasolini ovunque e così si spiega l’aura mediatica su Siti, ma la malinconia non è altro che fervore consumato, diceva Gide. Anche gli scrittori vedendo quel Pasolini ideologizzato continuamente messo in circolo, ma privato di quel corpo che era fondamentale, e lo associano a Siti per semplificare. Siti è un accademico che merita rispetto per il lavoro che ha fatto sull’opera di Pasolini, non riverenza come fanno molti. Pasolini per Siti è stato fondamentale ma pur essendo forte la sfida del dopo-Pasolini, bisogna anche saper vedere e giudicare i piccoli e grandi scarti di Siti dal suo maestro”.

#Passione

Per Fulvio Abbate (1956) non è solo Pasolini a non essere centrale ma anche Roma: “lo scrittore narratore romano non credo sia più uno spettro ricorrente nella narrativa contemporanea. Ha smesso di esistere già da quando Pasolini narratore muore con se stesso. Lui rappresentava l’onda lunga del neorealismo, non a caso la forza maggiore di Una vita violenta, il suo romanzo maggiore, sta nei dialoghi e in un lavoro di scavo del romanesco. Non mi pare abbia prodotto eredi dal punto di vista narrativo. Le borgate muoiono con l’avvento delle prime giunte rosse, quando vengono demolite le baracche del Mandrione”.

Cosa rimane allora di Pasolini? “Rimane una tradizione rapsodica del Pasolini che si addentra nella notte romana, certamente Veneziani, o più in forma orfica Dario Bellezza. Cerami che è stato un suo erede narra tutt’altro, un contesto piccolo borghese che è al di dà dell’universo pasoliniano. Forse uno scrittore che gli è ancora vicino è Aurelio Picca, anche se in lui c’è una dimensione di compiacimento dannunziana. Pasolini aveva un grande coraggio intellettuale fisico, amava la disputa fisica con un certo contesto sottoproletario. non essendo un borghese si mise a spendere la vita tra la gente. Oggi siamo nel migliore dei casi nella valigia dei sogni, ma non di più, il pasolinismo è una location. Pasolini più di Fellini ha raccontato Roma, Siti quasi lo stronca nella introduzione come narratore. Ma comunque il ceto intellettuale venuto dopo non ha nulla a che spartire con Pier Paolo, che non a caso era un pezzo unico”.

E’ la fine del vitalismo pasoliniano? “È in atto una specie di stanco remake. Il vitalismo non può esserci: perché in Pasolini c’è ancora il senso della perdita dello straccetto rosso, della Resistenza tradita, le speranze del futuro aprile. Noi non abbiamo neanche la possibilità della prospettiva socialdemocratica, siamo all’impasse assoluto. Forse siamo dentro la profezia di Alì dagli occhi azzurri, cioè ci salverà l’Africa? Dubito che qualcuno che abiti nella Roma residenziale o nello stesso Pigneto possa portare un germe di novità”.

In conclusione Roberto Carvelli, autore di “Perdersi a Roma, guida insolita e sentimentale alla capitale” (Iacobelli, in uscita la prima settimana di settembre) sintetizza così la questione: “Accade quello che è successo a Calvino, ingombranti ognuno a modo suo. Pasolini è certamente un padre che va ucciso ma facciamolo prima diventare un classico, Roma ne ha ancora bisogno.”

 

*Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano “Europa”.

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).