La sola idea di un viaggio a Roma mi riempiva di spavento. Non lo dico io però. Lo dice la Ortese, seguendo un suo pensiero, uno dei suoi, terribilmente contorti, terribilmente lucidi, in uno scritto minore poco conosciuto. A me non riempiva di spavento il viaggio a Roma, al limite ne ero un po’ intimorito, ma ci volevo andare. Tanto più che da pochi mesi nella nostra casina milanese era arrivata una bimbina neonata che frignava e cambiava le regole del vivere quotidiano e altro, mentre io e la mamma cercavamo di fare i conti tanto con il mistero della vita quanto con il numero delle poppate e dei pannolini. Quindi, devo dire, ci volevo andare a Roma un paio di notti per dormire, per riflettere un po’.
Certo, restava quel senso di andare in un mondo altro, il buon vecchio straniamento di essere milanesi a Roma. Ma, che dire, anche il rischio, l’avventura, andranno pure coltivati in qualche modo, persino dai neopadri. Era mia intenzione dunque, dopo lungo averci riflettuto, perdermi per le vie e le viette, i su e i giù, i quartieri, finire dritto dritto nella fiesta, scatenarmi e arringare le folle eppure riuscire comunque a passare per musone nordico (che poi, d’origine, non sono nordico per nulla, ma questa è un’altra storia).
Mi armai dunque di coraggio e partii.
Per soggiornare nella capitale le notti del sei e del sette luglio, avevo così tante case offertemi − mi pare ne contai sette fra amici librai e amici scrittori, comprese quelle di un poeta conosciuto solo via mail e di un tizio incrociato in ostello a Tarragona nell’estate del 1998 e mai più rivisto da allora – che scelsi infine un pio istituto di suore trovato su internet, cui affibbierò il nome, neppure troppo inventato, di Villa del Paradiso.
Feci dunque la prima azione religiosa da un pezzo a questa parte e prenotai una stanza singola con bagno al piano. Implicitamente però compii anche il mio primo atto da milanese a Roma: rifiutare queste famose “case di amici”, vale a dire, nel mio immaginario, il letto nei pressi della coppia – tipo il lettino che nelle stanze d’albergo mettono in fondo al matrimoniale per far dormire il pargolo –, la sistemazione dalla vecchia zia che erano anni che non riceveva nessuno − che immaginavo almeno come la vecchia finta inferma de La casa dalle finestre che ridono −, oppure il letto a due piazze in camera privata e bagno annesso, perfetta sistemazione in apparenza, salvo all’ultimo scoprire che è da dividere con un altro amico arrivato da Perugia (nun te l’avevo detto? Che male c’è, ve stringete).
Architettai e inanellai una vergognosa serie di bugie con i vari amici e conoscenti per avere i giorni liberi e occuparmi solo le sere. Qui sì, mi finsi perfetto milanese che ha fittamente organizzato il proprio soggiorno stipandolo di incontri di lavoro, agenzie letterarie, rendez-vous con altolocati editori. Ma nun era vero niente, erano ‘n sacco de fregnacce. E tutto per un po’ di pace diurna.
Così sceso dal lindo Italo non mi aspettava nessuno in Ostiense deserta e lucida. Mi feci accogliere dal sole romano. Carezzai il primo pino marittimo che incontrai, come fosse una splendida divinità pagana. Lisciai il primo muro scrostato d’umido di mare. Salutai galantemente il primo passante, galantemente mi presi il mio primo ma chi te conosce.
Poi andai a mangiarmi la pizza al trancio da Gigio er pizzaiolo, stupefacendomi una volta di più dell’altissimo rapporto qualità-prezzo, inarrivabile nell’asburgica Milano, e non potendo esimermi dal raccontare a Gigio er pizzaiolo in persona e al suo grembiule che con gli stessi due euro da noi si prende una pallida focaccia goffamente morbida fino allo sfinimento.
− Ma davero?
− Sì, davero.
− Siete messi male.
− Semo messi male.
Poi, rifocillato, raggiunsi le austere mura di Villa del Paradiso, contento di tutto come uno scolaretto in gita.
La prima sera mi dedicai agli amici scrittori. A casa di L., in terrazza, guardammo per un’ora il tramonto parlando di molte cose interessanti. Intanto il tramonto continuava. Il tramonto a Roma è più lento di tre quattro volte che a Milano, questo va detto. Continuavamo a parlare e il sole scendeva con calma olimpica. A un certo punto avevo persino preso a preoccuparmi che qualcosa nel meccanismo si fosse inceppato.
Poi mi ritrovai che eravamo in sei su una vociante macchina diretta a Trastevere. Lì ci saremmo incontrati con una macchina con altri sei. Una piccola festa organizzata per me. Ora lo so che a Roma ci sono scrittori influenti, riviste influenti, editori influenti. Ma io per fortuna frequento gli ininfluenti, che sia a Roma quanto a Milano.
Loro li feci incontrare io, a Roma non si vedono mai. Presi a fingere il mio accento romano, credo migliore di quello di Boldi quando si spaccia per romano e lupacchiotto in Fratelli d’Italia (intendo il film di Neri Parenti del 1989, non il volume Feltrinelli di Arbasino del 1963). Me la cavo con accento e grammatica, ma lo svarione ideologico è sempre in agguato, la propria natura indomabile: convinto di far conversazione e mostrarmi a mio agio in terra straniera, quella sera in trattoria mi uscì questa tremenda domanda che rivolsi al cameriere, domanda che riporto letterale. A un certo punto chiesi:
− C’è una stagione migliore per l’abbacchio?
Giuro, pronunciai proprio queste parole. E già mentre le pronunciavo compresi di essere scivolato in un dirupo senza fine. L’intellettuale milanese ha detto la sua cazzata. E quando il cameriere, mentre il locale cicaleccio di colpo si era zittito, pronto rispose:
− Sì, questa − allora la resa fu totale, il milanese fottuto, il poeta inciampato, l’intellettuale inchiodato alla sua pochezza. Lasciai perdere l’abbacchio e ordinai dunque una cacio e pepe, mi rintanai nel mio angoletto e ci misi dieci minuti buoni per tornare in pista.
L’indomani, forte della mia sopracitata serie di bugie, avevo giorno libero. Al mattino raggiunsi con il metro e un bus il quartiere di Torrevecchia. Nascondevo infatti in me un segreto. Avevo passato tre estati, tra i cinque e gli otto anni a Torrevecchia, con mia nonna, che da qualche anno era andata ad abitare a Roma, in una casetta al civico 10 di via Tebaldi.
Ritrovai tutto come l’avevo lasciato, quasi trent’anni fa. La strada che scende leggermente, la serie dei palazzi rossastri, il bar sul fondo, alla confluenza di due vie. Chissà dov’era quel parchetto dove mia nonna mi portava a giocare a pallone coi bambini romani, che non era a Torrevecchia, ma da un’altra parte. Fortuna che me la cavavo col pallone piuttosto bene. Superato lo scoglio della diversità dunque, mi facevo valere. Parlavo coi fatti. E la sera mi ricaricavo mangiando pizza e melone sul piccolo balcone, che tempi.
Camminai dunque per il mio ex-quartiere, si potrebbe dire, sconfinai e rientrai, passai un bel po’ di tempo così, era una bella sensazione. Poi a un certo punto ripresi il mio bus e tornai verso il centro. M’accorsi di colpo che fra tutto erano le due e ancora non avevo mangiato. Fui preso da un terrore panico, dato dal fatto che a Milano a quell’ora comincio ormai a pensare alla merenda.
Di buona lena cercai e trovai una trattoria nei pressi della fine di via Flaminia. Alle due e trenta, ordinai una cacio e pepe con l’idea che due tagliolini li avrebbero fatti in fretta.
Ormai credendomi al sicuro, constatai il mio personale record di pranzo alle due e trenta del pomeriggio, e ricordai fiero che per trovarne uno analogo dovevo andare indietro negli annali a qualche lontana estate. Ancora non sapevo però che ogni record sarebbe stato frantumato. I tagliolini arrivarono alle tre e trentacinque, quando ormai ogni speranza era perduta ed ero da una buona mezz’ora in preda a un vaniloquio delirante sulla mia vita tutta quanta − la mia e quella degli uomini − e sulla sua assoluta vanità ontologicamente o non ontologicamente intesa.
La sera ci trovammo con gli amici librai. La trattoria nei pressi di via degli zingari.
Anche quella sera, eravamo una decina. Chiassosi e pittoreschi, poco classificabili librai di vecchi libri. Ci conoscevamo perché molti di loro venivamo a Milano in occasione di certe fiere, ma era bello vederli nel loro luogo. Altri me li fecero conoscere lì. Andavano tutti molto d’accordo fra loro. L’importante era praticare in disinvoltura lo sfottò come atto d’affetto. Per averne un po’ anch’io, d’affetto, raccontai la gaffe sull’abbacchio della sera prima e d’affetto fui coperto.
Intanto nessun cameriere ci pensava lontanamente a passare per le ordinazioni, ma questa volta l’estenuante lungaggine mi fece comodo per far sì che il mio stomaco potesse scordarsi del recentissimo pranzo del pomeriggio.
Il fatto poi che nella primavera fosse uscito un mio romanzetto con un personaggio principale blandamente autobiografico che vive vendendo vecchi libri, ci diede modo di parlarne un po’. Nel romanzetto si teorizzava la figura di un intellettuale che aveva preferito vendere vecchi libri piuttosto che stare in società e fare altri ben più pagati mestieri.
F. a un certo punto sbottò e domando a me e alla combriccola:
− Ma semo poi sicuri che avremmo potuto fare altro? No, ve chiedo, a tutti voi, librai de’ vecchi libri, ma semo poi sicuri?
Nella confusione esistenziale che nacque dalla domanda ordinai la mia terza cacio e pepe. La reiterazione delle cose dà una certa sicurezza.
All’una e mezza de notte ero a Villa del Paradiso. Stordito dal vino de li castelli. Loro erano restati a farmi festa senza di me che fra Torrevecchia e altre emozioni francamente non ne avevo più. La stanza era bella perché dentro aveva solo il letto, realmente bella, mi piaceva molto. Il bagno come detto era fuori, ma non era una scomodità questa, aumentava il senso di piccola cella meditabonda che aveva la stanza.
Mi misi alla finestra. L’aria era calda e fresca insieme. Pensavo alla bimbetta, a casa, ai suoi strilli, alla bella madre che se la cullava. Una distesa di case e uno smistamento di treni ostiensi, di fronte a me. Si poteva indovinare il mare, lontano. Mia nonna mi ci portava a Ostia col treno. C’era un film di Luciano Emmer dove tutti andavano a Ostia, chi in motoretta, chi in bici, chi col treno. I poveri e i ricchi, a seconda, come avrebbe annotato la Ortese. Tutte le finestre aperte, qualcuno ancora sui balconi, qualcuno sulle terrazze. Qualche luce nelle stanze. C’era silenzio nel quartiere, forse su tutta l’urbe, sicuro nella grande casa d’accoglienza pellegrini, nei suoi sei piani d’altezza. Un silenzio vagamente religioso.
“Gite d’autore” è un progetto curato da Andrea Cirolla.
Il primo racconto, di Francesca Serafini, è qui.
Quello di Roberto Amato qui.
Quello di Massimo Raffaeli qui.
Quello di Carmen Pellegrino qui.
Seguiranno testi di Emmanuela Carbé (con la collaborazione di Francesco Pecoraro) e di Francesca D’Aloja.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).