I testi qui raccolti sono esercizi di stile che contengono semi di futura grandezza. Non che siano trascurabili: al contrario, rivelano tutta la vivacità, lo spirito di osservazione schietto e a volte brutale, l’acume, la pignoleria di giudizio che ci si aspetta dalla Woolf… Ma attenzione alla parola “giudizio”. Virginia Woolf teneva molto alla propria raffinatezza di gusto, ma anche a quella dei suoi soggetti. «Ho l’impressione che non abbia buon gusto né perspicacia; nel descrivere le persone usava sempre frasi fatte ed esprimeva sempre l’opinione più scontata» (Miss Reeves). È una nota, questa, che ritorna spesso nelle sue opere e, vista la sua ricorrenza, bisogna ricordare che questa donna partecipò nel febbraio 1910 a una stupida messinscena, fingendo di far parte del seguito dell’imperatore d’Abissinia in visita a bordo di una nave da guerra britannica. Non c’è da meravigliarsi che lei e i suoi amici non sdegnassero le espressioni piccanti, come scolaretti che abbiano appena scoperto le parolacce, o che lei fosse in una certa misura antisemita, capace di chiamare una persona affettuosa e degna di ammirazione come il marito «l’ebreo». Il brano intitolato Ebrei è di certo poco gradevole. Ma bisogna ricordare un’ebrea altrettanto vistosa e chiassosa, descritta con affetto in Tra un atto e l’altro, che piace alla Woolf. Questi brani, dunque, mostrano spesso una Woolf incorreggibile; sono opere giovanili, e qualcuno potrebbe sostenere che sarebbe stato meglio non averle scoperte affatto. Non io: è sempre istruttivo vedere come una scrittrice sia riuscita a trovare l’equilibrio e la maturità, dopo le acerbe prove giovanili.
Non è possibile comprendere nessuno degli artisti appartenenti alla cerchia di Bloomsbury senza tener presente che essi rappresentavano il fulcro e l’essenza stessa della bohème; ormai si tratta di un modello di vita così ampiamente accettato che è difficile rendersi conto di quanto la bohème fosse in contrasto con i tempi. Erano individui sensibili e amanti dell’arte, in netto conflitto con il gretto mondo degli affari a loro avverso e nemico. E.M. Forster, un grande amico di Virginia Woolf, in Casa Howard descrive la battaglia tra l’Arte e i Wilcox. Da una parte i propugnatori della civiltà, dall’altra i filistei, i Wilcox. Essere sensibili e raffinati significava combattere per la sopravvivenza dei valori buoni e reali contro la derisione, le incomprensioni e spesso le vere e proprie persecuzioni. Molti bohémien autentici o aspiranti tali venivano ripudiati da genitori infuriati. I nemici però non erano solo i Wilcox, la classe media grossolana e volgare, ma anche i lavoratori. Oggi lo snobismo della Woolf e dei suoi amici appare non solo risibile, ma anche deleterio – gretta ignoranza. In Casa Howard di Forster, due giovani aristocratiche, osservando le fatiche di un operaio, commentano che “quelli” non sentono la fatica nel loro stesso modo – così come mi capitava di sentire i bianchi affermare, nel constatare le sofferenze dei neri: «Non sono come noi, hanno la pelle più dura».
Con la Woolf ci troviamo di fronte a un intreccio, a un groviglio di pregiudizi sgradevoli, alcuni tipici del tempo, altri suoi propri – e ciò deve farci rileggere con un nuovo sguardo le sue opere di critica letteraria, tra le più belle mai scritte, in cui, tuttavia, era capace di esprimere pregiudizi assoluti, alla stregua di un fanatico in grado di vedere solo la propria verità. Finezza e sensibilità erano essenziali nella scrittura, e ciò significava che Arnold Bennett e autori come lui non fossero semplicemente antiquati – la tanto disprezzata vecchia generazione – ma meritassero di essere insultati e dimenticati. Virginia Woolf non amava le mezze misure. La sola idea che a qualcuno potessero piacere Arnold Bennett e Virginia Woolf, la Woolf e James Joyce, era per lei inammissibile. Questo tipo di bipolarismo, purtroppo assai diffuso nel mondo letterario, provoca sempre danni: e la Woolf ne provocò. Per decenni i più prestigiosi circoli di critica letteraria furono dominati da proclami arbitrari (forse dovremmo chiederci come mai la letteratura si lasci influenzare così facilmente da opinioni smodate…). Un bravo scrittore come Arnold Bennett fu da lei prima respinto, poi giustificato e quindi, in seguito, difeso con ardore – proprio come la scrittrice era abituata a fare: attacco o difesa appassionata. Bennett, ottimo; Woolf, pessima. Ma credo che l’acredine di questo scontro sia ormai del tutto svanita.
Un film recente, The Hours, presenta un ritratto della Woolf che avrebbe di certo stupito i suoi contemporanei, l’immagine di una romanziera sensibile e sofferente. E dov’è la donna malevola e astiosa (e sboccata, anche se con un accento molto aristocratico) della vita reale? I posteri, a quanto pare, sentono il dovere di smussare e rendere rispettabile, appiattire e levigare, senza capire che le asperità, le scabrosità e le dissonanze possono essere fonte e sostegno della creatività. Era inevitabile che la Woolf finisse per diventare una garbata signora delle lettere, ma credo che nessuno avrebbe mai potuto immaginare che a recitare la sua parte fosse una ragazza giovane, bella ed elegante che non sorride mai, dall’espressione costantemente accigliata che rivela quanti pensieri profondi e complessi si agitano dentro di lei. Mio Dio! Quando si sentiva bene, era una donna che si godeva la vita, amava le feste, gli amici, le escursioni, le gite. Quanto ci piacciono le vittime femminili, oh, quanto ci piacciono!
Il più grande merito letterario di Virginia Woolf fu quello di sperimentare per tutta la vita, cercando di rendere i suoi romanzi una rete nella quale catturare quella che a lei sembrava la verità più recondita dell’esistenza. I suoi stili non erano altro che tentativi di usare la propria sensibilità per rendere gli esseri viventi un «involucro luminoso», a cui era solita paragonare la nostra coscienza, a differenza del procedere faticoso e lineare che coglieva in opere come quelle di Bennett.
C’è chi ama un libro, chi ne ama un altro. C’è chi ammira Le onde, il suo esperimento più estremo – che secondo me è un fallimento, anche se coraggioso. Notte e giorno è il suo romanzo più convenzionale e riconoscibile al lettore comune, che tuttavia lei cercò di ampliare e approfondire. Dal primo romanzo, La crociera, all’ultimo, l’incompiuto Tra un atto e l’altro, che a mio parere possiede il marchio della verità (ne ricordo a memoria interi brani; la ricorrenza di alcune parole o frasi sembra racchiudere l’essenza, si può dire, della vecchiaia, o del matrimonio, o dell’impatto su di noi di un dipinto amato), la sua vita di scrittrice fu un susseguirsi di audaci esperimenti. E se anche non abbiamo sempre un’alta opinione di coloro che ne seguirono le orme – alcuni tentativi di emulazione si sono rivelati infelici – senza di lei, senza James Joyce (i due hanno in comune più di quanto avrebbero ammesso entrambi) la nostra letteratura sarebbe stata più povera.
La Woolf è una scrittrice che alcune persone amano odiare. È davvero fastidioso se qualcuno di cui si rispetta il giudizio intona un inno di disprezzo, se non addirittura d’odio, nei confronti di Virginia Woolf. Mi viene sempre voglia di ribattere: ma come è possibile non vedere quanto sia meravigliosa… Secondo me, le sue due opere più riuscite sono Orlando – che riesce sempre a farmi ridere, un libro così arguto, perfetto, un gioiello – e Gita al Faro, che reputo uno dei più grandi romanzi in lingua inglese. Eppure, anche persone di estrema sottigliezza critica non riescono a trovare una sola parola buona a suo favore. Vorrei protestare e sostenere che non si dovrebbe dire “gli orribili romanzi di Virginia Woolf”, “l’insulso Orlando”, ma piuttosto “a me non piace Orlando”, “a me non piace Gita al Faro”, “a me non piace Virginia Woolf”. Dopotutto, quando persone di pari senso critico adorano o odiano lo stesso libro, il più piccolo atto di umiltà, il minimo atto di rispetto per la grande professione del critico letterario dovrebbe consistere nell’affermare: “A me non piace la Woolf, ma questa è solo la mia opinione”.
Un altro problema in cui ci si imbatte quando si è alle prese con la Woolf è che, a parte le sue opere più compiute, l’autrice si muove spesso in un’area di confine in cui quel tipo di domande che si annidano nelle zone più oscure e incomplete della vita restano irrisolte. Nella presente raccolta è contenuto un breve testo intitolato Un salotto moderno incentrato su Lady Ottoline Morrell, una donna che svolse un ruolo assai importante nella vita e nelle opere di molti artisti e scrittori del suo tempo, da D.H. Lawrence a Bertrand Russell. Siamo lieti di leggere quello che pensa la Woolf, dopo che così tante altre persone hanno detto la loro. La Woolf la descrive come una gran signora che, insoddisfatta della propria classe sociale, ha trovato ciò che cercava in artisti e scrittori. Questi vedono in lei «uno spirito disincarnato che fugge dal proprio mondo per entrare in una sfera più pura», mentre lei «viene da un altro mondo, con addosso strani colori». Dobbiamo riconoscere che gli aristocratici hanno sempre avuto (e in certi luoghi hanno ancora) un certo fascino, ed è questo che la Woolf cerca di analizzare, insieme al suo effetto sulle «umili creature»; ma qui c’è qualcosa di sgradevole, di difficile: procede a fatica, frase dopo frase, fino a quando non dà l’impressione di cercare di infilare uno spillo nella testa di una farfalla. Erano pochi gli aristocratici nel mondo bohémien dell’epoca: peccato che Ottoline Morrell ne fosse un’esponente tanto bizzarra. Povera donna, pensiamo ora, così prodiga di denaro e di ospitalità nei confronti di tanti pupilli, e tradita e caricaturizzata da molti di essi. Non fanno certo una buona impressione questi magnanimi cittadini della bohème, nel confronto con il denaro e l’aristocrazia.
È difficile per una scrittrice essere obiettiva nei riguardi di un’altra scrittrice che ha avuto una tale influenza… su di me e su altre scrittrici. Non solo i suoi vari stili, gli esperimenti, le dichiarazioni smodate, ma semplicemente la sua esistenza, il coraggio, l’arguzia, la capacità di guardare alla situazione delle donne senza acrimonia. Eppure sapeva controbattere. Non erano numerose le scrittrici all’epoca in cui lei cominciò a scrivere, e nemmeno quando l’ho fatto io. Un accenno all’ostilità da lei incontrata è contenuto nel brano su James Strachey e sugli amici di Cambridge: «ero consapevole che non solo le mie osservazioni ma la mia stessa presenza veniva criticata. Agognavano la verità, e dubitavano che una donna potesse pronunciarla o incarnarla». E poi il morso improvviso della vipera: «Dovevo ricordare che non si è ancora adulti a ventun anni».
Credo che gran parte della sua mordacità fosse semplicemente dovuta a questo: le scrittrici allora – e a volte persino oggi – non avevano una vita facile.
Vorremmo tutti che i nostri idoli e i nostri modelli fossero perfetti; peccato che lei fosse una tale vipera, una tale snob, ecc. ecc. – ma l’ammirazione deve essere tale sia nel bene che nel male. Credo che la Woolf migliore fosse una grandissima artista, e in parte proprio perché la scrittrice era imbevuta di quello stesso spirito per cui “agognava la verità” – allo stesso modo dei suoi amici, anzi, di tutta la bohème.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).