L’“ex uomo” di Crisopoli si infila un collant, un reggicalze a roselline celesti e gigantesche mutandine di pizzo. Il suo individuo è in liquidazione, vaga per una metropoli fantasma, cristallizzata nell’assenza e nell’assedio delle care piccole cose. La sua avversione al mondo, il suo sentimento sofferto, miniloquente, reciso, è al capolinea. In piazza della Borsa spunteranno i ranuncoli, crescerà la cicoria in fiore. Sorride. Il suo divagare, il suo diradare, finisce lì o continuerà per sempre. Guido Morselli posa la copia di Dissipatio H.G., dà un’occhiata distratta all’ultima lettera di ripulsa editoriale e rivolge contro di sé la ragazza con l’occhio nero. È il 31 luglio del 1973.
Quarant’anni dopo, agosto 2013, sono a Ponza, nel posto meno morselliano possibile, se si paragona alla sua Varese e a Gavirate. Sto andando, turista riluttante, a un improbabile incontro “letterario”. Nell’arena di un albergo lussuoso, domati da Selvaggia Lucarelli, si sfideranno due pesi massimi dei gladiatori televisivi. La folla, una quindicina di persone, è in attesa non proprio spasmodica. Mi fermo davanti a un chiosco straripante di riviste e bestseller estivi e lo vedo. È il libro meno adatto a un’edicola ed è la seconda stranezza. Dissipatio H.G., edizione tascabile, giace impolverato tra un Erri De Luca e un Carofiglio.
Leggo le prime righe, ormai dimentico di Selvaggia e dei due sfidanti. “Relitti fonico-visivi mi tengono compagnia, e sono ciò che di più diretto mi rimanga di ‘loro’”. In questa fine estate malinconica, la densità spiazzante dell’incipit di Dissipatio è un lampo. Lo ricompro, sebbene ne abbia almeno due copie a casa. Nella copertina dell’edizione Adelphi c’è un quadro di Magritte: Le poison, il veleno. Raffigura una porta semichiusa, o semiaperta, dalla quale entra (o esce) una nuvola. Dentro, si intravede una casa borghese, con il parquet. Fuori, uno scorcio di mare.
Rileggere Morselli, uomo inedito da vivo e fantasma letterario da morto, è un balsamo. O forse un veleno benefico, che non ha altro effetto che quello di rinnovare la gioia della vita. Eppure Dissipatio è il suo testamento. Pochi mesi dopo averlo scritto e non essere riuscito a pubblicarlo, ultimo di una lunga serie di romanzi rifiutati, Morselli si toglierà la vita.
Tutti i saggi, gli articoli, le quarte di copertina dei suoi libri postumi non mancano di far notare le modalita’ della sua morte, insieme alla sua disavventura editoriale. La notazione e’ irritante. Il suicidio, non solo per Morselli, ha spesso l’effetto del luminol. Riporta alla luce tracce di vita e di genio che parevano invisibili a occhio nudo. Provoca uno scandalo che costringe a rileggere e riconsiderare. Ma è anche un fuoco accecante, che illumina nella dismisura. Il gesto estremo, in lui come in altri, agisce come una sorta di Instagram letterario, modifica i contorni, la cornice, i colori. Satura e deforma, abbellisce e falsifica.
Una beffa. La vita ha negato a Morselli il giusto riconoscimento, la morte gliene ha regalato uno che è letteralmente ingombrante: fa ombra alla sua opera e alla capacità di leggerla per quello che è.
La consapevolezza di questa morbosità rende lievemente tossica la sostanza del mio amore. Convivo con un senso di colpa, con l’incapacità di un giudizio limpido, onesto. La cattiva coscienza del mito romantico offusca la meraviglia dello stupore ritrovato.
Qualche giorno prima di imbattermi di nuovo in Dissipatio, rivedo su YouTube Elliott Smith. È in una stanza, probabilmente la sua, seduto su un letto, canta Between the bars. Con la sua aria dimessa, persino tetra. I capelli ribelli ma nient’affatto cool. Le tendine di pizzo in sottofondo, la chitarra un po’ incerta, la luce fioca. Sapere che non molto tempo dopo probabilmente anche lui si è ucciso conferisce alla visione del video un’aura tutta particolare. E non importa – o non è più sufficiente – la consapevolezza che quel brano è un capolavoro. La morte arrivata in quel modo ha cambiato le cose per sempre e ha reso impossibile amare di un amore puro, non contaminato, la voce triste di Elliott.
Eppure, con il pensiero del suicidio Morselli ci ha convissuto tutta la vita. Lo ha elaborato razionalmente, lo ha difeso filosoficamente. Nel ’56, chiuso nel microcosmo di Gavirate, “orgoglioso di essere un riepilogo degli uomini” e nell’assenza totale di “trame interpersonali”, scrive un piccolo saggio sul suicidio. Attacca Proculo il moralista, che parla di “abiezione della viltà” e considera i suicidi “miserabili disertori”. Molti anni prima di quel fatale 31 luglio 1973, Morselli scriveva: “Eppure ci vuole un qualche disperato coraggio, e non soltanto fisico, perché un povero diavolo si punti la gelida canna di una pistola alla tempia, perché il suo dito schiacci quel grilletto”. In Dissipatio aggiungeva: “Il suicidio richiede un destinatario o dei destinatari. Qualcuno che decidiamo di punire, o viceversa di ammaestrare”. L’apokarterein, il darsi vinti, suppone che ci sia un vincitore. Ma forse no: si può perdere contro se stessi.
Rileggendolo, in questa notte di fine estate, provo un moto di fastidio. Cerco di scacciare l’odore di incenso e di polvere da sparo, la sensazione di valutare una vita e un’opera con l’adulazione postuma del genio incompreso. La santificazione non gli si addice, se mai si possa sostenere che abbia un senso per qualcuno. Se non e’ stato pubblicato, non e’ solo per la stupefacente cecita’ del mondo editoriale dell’epoca. Morselli, forse, nell’angoscia dell’oblio, provava il morboso piacere della vittima. Racconta Piero Chiara di quella volta che lo vide nascondersi dietro una colonna, vedendo passare il suo amico d’infanzia Giorgio Mondadori, per non essere riconosciuto e per non essere destinatario di favori. Rigore morale? Coraggioso rifuggire dalle conventicole dell’epoca e dal sempiterno vizio italico della raccomandazione? Chiara ha un’altra spiegazione: “Morselli era un uomo difficile, carico d’orgoglio, convinto di una sua superiorità intellettuale destinata a restare intangibile da parte degli organi editoriali e sdegnosa di ogni successo”.
Non so se sia vero. Ma se rileggo ora Dissipatio è anche perché voglio essere confortato. Quel colpo di pistola è stato un gesto di disperazione? Una rivolta puerile contro un atto di ingiustizia? Un espediente tragico per conquistarsi una gloria postuma? L’indagine sui motivi del gesto estremo sono sempre necessarie e sempre frustanti. Maria Bruna Bassi accusava gli editori: le riluttanze ben argomentate di Vittorio Sereni (in Mondadori, si dispiaceva, “non pubblicano libri di valore”), le lettere cortesi e circostanziate di Calvino sul “Comunista”. Luigi Malerba ipotizzava un altro movente, più prosaico: la colpa fu dei ghiri e delle faine che gli assediavano casa, “questi predatori e sovvertitori delle tegole, animaletti destabilizzanti per una psiche già instabile”.
Rileggo Dissipatio e non mi rassicura. Per questo lo amo. Perché alla domanda camusiana del Mito di Sisifo, all’unica questione che abbia senso, se la vita valga la pena di essere vissuta o no, Morselli non ha risposta. Si può vivere o morire per motivi futili. E non si vive e non si muore mai completamente da soli.
Non è un caso che la volontà di suicidio del protagonista di Dissipatio sia fortemente sociale, legata alla collettività. Perché il suo desiderio è “andarsene, senza lasciare tracce”. L’obiettivo è “una definitiva irreperibilità”, “un misterioso annichilimento”, “un dissolvimento nel nulla”. Rendersi irreperibili postula l’esistenza di qualcuno che potrebbe reperirti o potrebbe volerlo fare. Il protagonista vuole buttarsi nel lago, per “evitare di compiere 40 anni”. Ma, piedi penzoloni, un attimo primo di compiere il gesto si ferma. Il liquore che sta bevendo per rilassarsi, lo distrae e lo porta a una conclusione: “Il cognac spagnolo non ha niente da invidiare rispetto al prodotto francese”. A quel punto si ferma, ridestato alla vita da un pensiero banale, che rimette il sangue in circolo. E rinuncia, perché “morire è cambiare materia e il mio corpo non se la sentiva”.
Forse, dice Morselli, la morte vera non e’ cosi’ diversa dalla vita. E siamo circondati da cadaveri. Basta guardarsi intorno per accorgersene. Qui arriva il rovesciamento del paradigma. Improvvisamente, il protagonista di Dissipatio che voleva lasciare il mondo dei vivi, si ritrova unico essere vivente. E gli altri? Dove sono andati? Perché sono spariti? Un dubbio si fa strada. Forse, questi “poveri automi gesticolanti, prigionieri della loro fedeltà meccanica” non ci sono mai stati. E Morselli è sempre stato solo, in un Paese che non si accorgeva di lui. Ritirato nella sua villa di Gavirate, ogni tanto avrebbe voluto “telefonare al mondo” e si chiedeva, come il protagonista di Dissipatio: “Un mondo doveva esserci, sussistere, al di là della mia valle”.
Rileggere queste parole scritte nel diario, il 6 novembre del 1959, materializza l’abisso senza certezze nel quale si cala Morselli, che ha ancora molti anni di vita davanti: «Tutto è inutile. Ho lavorato senza mai un risultato; ho oziato, la mia vita si è svolta nella identica maniera. Ho pregato, non ho ottenuto nulla; ho bestemmiato, non ho ottenuto nulla. Sono stato egoista sino a dimenticarmi dell’esistenza degli altri; nulla è cambiato né in me né intorno a me. Ho amato, sino a dimenticarmi di me stesso; nulla è cambiato né in me né intorno a me. Ho fatto qualche poco di bene, non sono stato compensato; ho fatto del male, non sono stato punito. – Tutto è ugualmente inutile».
Tutto è ugualmente inutile. Non si può escludere. Ci aggiriamo tra i relitti fonico-visivi della nostra vita, con la nostra superbia solipsistica, sopravvissuti a noi stessi. Noi, come Morselli, vorremmo “guarire da due sottili malattie: la giovinezza e una neurosi ossessiva”. Schiviamo gli autorinnegamenti, che sono baracconi spirituali. Divaghiamo, defechiamo, mangiamo. E ci viene il dubbio, a noi che come lui abbiamo per insegna “vietare l’ingresso”, che un giorno troveremo vietata l’uscita, definitivamente. L’infelicità abituale ci fa da balia, la “mediocrità catafratta” ci conforta. Eletti o dannati, prescelti o esclusi, ci facciamo trascinare dal “macchinone sociale”, ma lo guardiamo con sospetto. Galleggiamo sopra una barchetta di carta, assistiti da stipsi affettiva e da un’insensibilità misurata e tenace. Non disperiamo in una vocazione inattesa a capire, a compatire, in un colpo di coda, in una naufraga solidarietà umana. Beviamo cognac spagnolo, dichiarandolo superiore a quello francese. Assistiamo a dibattiti ridicoli. Indossiamo reggicalze a roselline celeste. Inciampiamo in cuccioli, morti di fame o di tristezza. Indaghiamo le nostre certezze, in un monologo senza riparo, immersi in un’umanità nebulizzata, chiedendoci quanti siano i gradi di separazione tra la vita e la morte. E aspettiamo l’inevitabile pacificazione, pensando che la società, in fondo, “è soltanto una cattiva abitudine”.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).